Stando al Washington Post, la recente intervista di Bernie Sanders con il New York Daily News è stata un disastro: sollecitato ad andare oltre la consueta retorica sulle nefandezze di Wall Street e a dire concretamente come intende «spacchettare» e riorganizzare le grandi banche, il senatore del Vermont, ha farfugliato qualche frase di circostanza. Ma la sua intervista sta facendo discutere anche per altre ragioni, che ci riguardano da vicino. Bernie Sanders (che pure non è Matteo Salvini) ha detto praticamente che gli USA non dovrebbero commerciare con i paesi nei quali i salari dei lavoratori sono (molto) più bassi di quelli americani. Una dichiarazione terrificante per tutto il mondo in via di sviluppo.
«So you have to have standards – ha detto Sanders – And what fair trade means to say that it is fair. It is roughly equivalent to the wages and environmental standards in the United States». Con queste parole, di fatto, Bernie Sanders ha «rottamato» gli scambi commerciali con qualunque paese che non sia già ricco e florido. Il che è semplicemente disumano. Una cosa è sostenere che non bisogna fare affari con i paesi che cercano di manipolare le loro monete (i tassi di cambio dovrebbero essere il meccanismo principale per riequilibrare il commercio); è poi del tutto ragionevole sostenere i diritti dei lavoratori di quei paesi, la loro sindacalizzazione, o premere per tutele ambientali più severe, e battersi affinché servitù e schiavitù siano spazzate dalla faccia della terra. Si tratta di questioni che gli accordi commerciali devono affrontare. Ma il divieto assoluto ad esercitare un commercio con le nazioni a bassi salari è un altro paio di maniche.
La sostanza del commercio sta nel fatto che i paesi devono puntare sui loro vantaggi competitivi, il che rende l’intera economia globale più efficiente. Se un paese ha una popolazione molto istruita, mercati dei capitali fiorenti e buone competenze high tech, come gli Stati Uniti o la Germania, esporterà al resto del mondo servizi di alto livello, (come i servizi finanziari) e prodotti manifatturieri avanzati (come le automobili o gli aeroplani). Se invece l’unico vantaggio di un paese è l’abbondanza di manodopera relativamente poco qualificata, disposta a lavorare per 65 centesimi l’ora, allora probabilmente si ricaverà una nicchia nel tessile o nell’assemblaggio di prodotti elettronici, per poi costruire gradualmente un certo know how e lavorare a qualcosa di più redditizio.
Ma se, come scrive Jordan Weissman su Slate, ora arrivano gli Stati Uniti e dicono: «Scusa Vietnam, a meno che i tuoi operai non comincino a guadagnare 5 o 7 dollari l’ora, siamo intenzionati a comprare le magliette da qualcun altro», gli operai di Hanoi non otterranno improvvisamente un aumento. Verosimilmente, le fabbriche chiuderanno e la produzione si trasferirà in un paese i cui lavoratori saranno produttivi abbastanza da giustificare i salari del mondo sviluppato – che poi significa generalmente «il» mondo sviluppato. E gli Stati Uniti avranno appena pregiudicato l’unico vantaggio relativo del Vietnam.
Non si capisce, scrivono i giornali americani, se Sanders semplicemente non afferra la questione o non gli importa nulla del problema. Forse pensa che l’unica ragione per cui i camiciai del Vietnam non guadagnano di più è che non hanno abbastanza potere contrattuale. O forse è più preoccupato del benessere di un numero relativamente piccolo di operai americani di quanto non lo sia del resto del mondo. Ora, senza dubbio il commercio con la Cina ha colpito alcune categorie di lavoratori americani (e nel frattempo avvantaggiato delle altre), ma limitare il commercio con i paesi che hanno bassi salari così rigidamente come vuole Sanders, colpirebbe i più poveri della terra. E parecchio.
Il libero commercio è uno degli strumenti migliori che abbiamo per combattere la povertà estrema. Dalla fine della seconda guerra mondiale, come noi per primi dovremmo ricordare, è stato il grande motore che ha letteralmente sollevato centinaia di milioni di persone dalla miseria, più di qualunque programma di aiuti. E la ricetta del senatore del Vermont finirebbe per ridurre in miseria milioni di persone già misere. Senza contare che la proposta di Sanders di fare marcia indietro rispetto agli accordi commerciali in essere potrebbe condurre a gravi rappresaglie da parte dei paesi interessati. L’opposizione di Bernie Sanders al commercio va molto oltre i nuovi accordi come il TPP (Trans-Pacific Partnership) o il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Il suo sito promette di «ribaltare» il Nafta (North American Free Trade Agreement) e l’accordo con l’America Centrale (Central America Free Trade Agreement). Inoltre promette di svincolarsi dalle normali relazioni con la Cina, un lascito dell’era Clinton.
Se gli USA dovessero abbracciare il protezionismo, ovviamente gli altri paesi seguirebbero a ruota, con il rischio di dare avvio a quel genere di guerra commerciale che abbiamo visto nei primi anni della Grande depressione. Gli altri paesi, infatti, non se ne staranno con le mani in mano senza rispondere. E lo scenario da incubo, descritto dagli esperti, è quello scivolare tutti verso il protezionismo. Ma allora bisogna fare i conti con le implicazioni morali (e politiche) di questo atteggiamento, che Zach Beauchamp ha illustrato nei dettagli.
Eppure, come Beauchamp ha scritto nel suo articolo, una soluzione per i danni che il commercio ha fatto alla classe operaia americana ci sarebbe, ed è quella abbracciata dai paesi del nord Europa che Sanders cita spesso come modello. I paesi scandinavi sono estremamente aperti al commercio. Ma hanno anche estesi programmi di welfare che prelevano denaro dai vincitori della globalizzazione e lo usano per compensare i lavoratori che invece perdono terreno. In questi paesi, tutti usufruiscono di merci meno costose, la classe media non soffre particolarmente e i poveri del mondo traggono beneficio dalla vendita dei loro beni ai consumatori più ricchi.