Monthly Archives: Nov 2016

GIORNALI2016

l’Unità, 10 novembre 2016 – Il fallimento dell’establishment democratico

Che nelle elezioni fosse in gioco anche la sua eredità, il presidente Obama l’ha detto in molte occasioni. «Il mio nome può non essere in gioco, ma lo sono i nostri progressi», ha ripetuto in questi mesi nei comizi a sostegno di Hillary Clinton, elencando i suoi risultati: estensione della copertura sanitaria, ripresa economica e i soldati in gran parte ormai al sicuro, lontano dai pericoli dell’Iraq e dell’Afghanistan.  E anche la sua eredità ha perso martedì sera.

L’elezione di Donald Trump (che ha vinto le elezioni consolidando il sostegno degli elettori bianchi e facendo conquiste inaspettate tra i gruppi minoritari;e questa volta è stato il livello d’istruzione a dividere gli elettori) è stata un colpo duro per il presidente che ha fatto passare riforme che hanno cambiato la sanità, Wall Street e l’approccio all’ambiente.

Il che, considerato che nei sondaggi il consenso per il presidente Obama non è mai stato così alto, suona per i Democratici addirittura paradossale. Ma il sostegno del presidente americano non è stato sufficiente neppure per portare ai seggi i suoi supporter:Hillary Clinton perde almeno quattro degli Stati che Obama ha vinto per due volte.

Le politiche di Obama non hanno mai raggiunto il livello di popolarità di Barack Obama. L’Obamacare non ha mai raggiunto il 50% dei consensi. E perfino quando il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 5%, confermando l’uscita dalla crisi economica che aveva ereditato, per la gente non era abbastanza. La sensazione che il sistema fosse truccato a vantaggio dei ricchi e di chi ha le conoscenze giuste, ha alimentato  le campagne populiste a sinistra e a destra. Un’ansia che Donald Trump e Bernie Sanders hanno sfruttato quando sono scesi in campo contro la Trans-Pacific Partnership, un altro pezzo della sua eredità che il presidente non è riuscito a vendere completamente all’opinione pubblica.

Certo, le elezioni dicono un paio di cose importanti sull’America di oggi. Donald Trump ha dimostrato che l’odio vende e che il razzismo, la faziosità e la misoginia possono alimentare una campagna elettorale; che reclutare l’arcipelago dei blog della “alternative right”, i teorici della cospirazione, i bianchi suprematisti e anti-semiti come alleati feroci senza alienarsi gli affidabili elettori repubblicani, è una cosa fattibile; che gli americani di ogni estrazione – bianchi, neri, latinos, uomini, donne, la gente delle comunità rurali e delle aree urbane – hanno una cosa in comune: sono preoccupati per il loro futuro economico. Entrambi i candidati, hanno cercato di mettere la questione al centro della loro campagna elettorale. Ma Trump ha superato perfino Sanders nello sfruttare le preoccupazioni economiche che attraversano tutte le classi demografiche. Ed è riuscito a farla franca, sfruttando le preoccupazioni reali per attaccare gli immigrati e gli accordi commerciali, senza offrire nessuna politica convincente per creare nuovi posti di lavoro e accrescere i salari. Le sue proposte economiche e finanziarie finirebbero per colpire proprio i lavoratori e la gente comune e scavare un buco nel bilancio federale. E il bello è che proprio Hillary Clinton aveva offerto invece alcune idee pratiche che avrebbero potuto migliorare la situazione economica di molti americani. Resta il fatto che il prezzo del perdurante risentimento si è visto ieri.

I Democratici ora non controlleranno quasi nulla al di sopra del livello municipale. E una cosa è chiara: l’establishment democratico ha fatto fallimento. Il soffitto di cristallo è rimasto intatto e il racconto diffuso dai media su come i Repubblicani fossero in frantumi come partito, si è rivelato completamente sbagliato. I Repubblicani non hanno un leggero margine sui Democratici in un sistema politico in rovina. I Repubblicani sono in ascesa. Trump ha dato loro una missione. Il paese ora è loro.

Chiunque si candidi a raccogliere quel che ora resta del Partito Democratico dovrà cercare un modo per mettersi in sintonia con una parte più ampia del paese. É possibile che, nel lungo termine, i Repubblicani non possano vincere con la loro composizione demografica, ma martedì abbiamo visto che il lungo termine è ancora lontano. I Democratici devono conquistare più elettori bianchi. E devono farlo in un modo che non metta in discussione gli assi di fondo, non negoziabili, del moderno partito (anti-razzista e anti-sessista). E non ci sono modelli in circolazione. Anche perche, forse oggi è davvero finito l’ordine mondiale liberale che abbiamo ereditato dal dopoguerra.

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GIORNALI2016

Stradeonline, 10 novembre 2016 – ISOLAZIONISMO USA E TRUMPISMO GLOBALE. FINISCE L’ORDINE POLITICO DEL DOPOGUERRA

Forse oggi è davvero finito l’ordine mondiale liberale che abbiamo ereditato dal Dopoguerra. Donald Trump sarà il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Uno straordinario colpo di scena al termine di una campagna elettorale populista e polarizzante (che il NY Times ha definito una “exhausting parade of ugliness”) che è sfociata in uno stupefacente ripudio dell’establishment.

L’esito sorprendente (Donald Trump ha vinto le elezioni consolidando il sostegno degli elettori bianchi e facendo conquiste inaspettate tra i gruppi minoritari; e questa volta è stato il livello d’istruzione a dividere gli elettori) mette, tuttavia, in luce anche alcuni aspetti dell’America di oggi a cui dovremmo forse prestare attenzione molto oltre le elezioni di ieri. Anche perché ci riguardano.

Donald Trump ha dimostrato, in primo luogo, che l’odio «vende» e che il razzismo, la faziosità e la misoginia possono alimentare una campagna elettorale.

In secondo luogo, Trump ha dimostrato anche che reclutare l’arcipelago dei blog della “alternative right”, i teorici della cospirazione, i bianchi suprematisti e anti-semiti come alleati feroci senza alienarsi gli affidabili elettori repubblicani, è una cosa fattibile.

In terzo luogo, gli americani di ogni estrazione – bianchi, neri, latinos, uomini, donne, la gente delle comunità rurali e delle aree urbane – hanno una cosa in comune: sono preoccupati per il loro futuro economico. Il paese ha sperimentato di recente la più lunga recessione dalla Grande Depressione, gli stipendi sono stagnanti da anni e la disparità salariale non è mai stata così grande dagli anni Venti. Entrambi i candidati hanno cercato di mettere la questione al centro della loro campagna elettorale. Ma Trump ha superato perfino Sanders nello sfruttare le preoccupazioni economiche che attraversano tutte le classi demografiche. Ed è riuscito a sfruttare le preoccupazioni reali per attaccare gli immigrati e gli accordi commerciali, senza offrire nessuna politica convincente per creare nuovi posti di lavoro e accrescere i salari. Le sue proposte economiche e finanziarie finirebbero per colpire proprio i lavoratori e la gente comune e scavare un buco nel bilancio federale. E il bello è che proprio Hillary Clinton aveva offerto invece alcune idee pratiche che avrebbero potuto migliorare la situazione economica di molti americani.

In quarto luogo, social media e stazioni televisive hanno amplificato come non mai sputi e insulti sparsi con dovizia per più di un anno e mezzo, ma non sono in grado di stabilire dei punti fissi, delle verità condivise, o di favorire un dibattito costruttivo su questioni serie (dal cambiamento climatico alle politiche in materia di criminalità). Va detto anche che, nel democratizzare i media, Twitter e Facebook hanno anche fatto sì che per gli americani (e per tutti noi) sia possibile imbattersi solo nei messaggi che vogliono (vogliamo) sentire. Senza contare che, affamati di ascolti, Fox News, CNN ed altri network televisivi hanno consegnato a Trump un microfono aperto fin dal principio della corsa. Avendo soffiato sul fuoco di una faziosità estrema per anni, i leader Repubblicano non potevano fermare l’ascesa di Trump nelle primarie e temevano di alienarsi i suoi supporter se l’avessero contrastato nelle elezioni generali. E Trump ha usato a sua padronanza dei media e la sua capacità di intrattenere (spesso utilizzando insolenze ed ingiurie) per catturare l’attenzione.

 

Va da sè, infine, che la vittoria di Trump si ripercuoterà molto oltre i confini del Paese, sconvolgendo un ordine stabilito da decenni e sollevando domande molto serie sul ruolo dell’America nel mondo. Per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale gli americani hanno scelto un presidente che ha promesso di ribaltare l’internazionalismo praticato dai predecessori di entrambi i partiti e di costruire muri sia materiali che metaforici. Il che lascia presagire una America più concentrata sui propri affari interni che lascia il resto del mondo in balia di se stesso. Ovviamente, la rivoluzione contro l’establishment di Washington (di entrambi i partiti) che ha sospinto Trump al potere riflette anche uno spostamento importantissimo nella politica internazionale evidenziato già quest’anno dal voto per il «leave» nel referendum britannico. Il successo di Trump potrebbe rilanciare i populisti, i nativisti, i nazionalisti, i movimenti per la chiusura dei confini, che spopolano in Europa e si diffondono in altre parti del mondo. Per il Messico, ciò potrebbe presagire una nuova era di tensioni con il suo vicino settentrionale; per l’Europa e l’Asia potrebbe riscrive le regole delle alleanze, delle intese commerciali e della cooperazione internazionale; per il Medio Oriente, potrebbe presagire un possibile allineamento con la Russia e un nuovo conflitto con l’Iran.

 

Aggiungo che di fronte agli elettori non c’era solo l’elezione presidenziale. Decine di milioni di persone in tutto il paese erano chiamate a votare referendum su proposte che potrebbero cambiare le loro vite e le loro comunità. Gli elettori di nove Stati hanno votato su misure per ripensare la guerra (fallita) alle droghe permettendo l’uso medico e ricreativo della marijuana. Città e contee, incluse Los Angeles e Seattle, hanno votato sul finanziamento di progetti infrastrutturali relativi ai trasporti di cui c’è disperato bisogno. Lo Stato di Washington ha votato sulla tassazione delle emissioni inquinanti. Altrove, la gente ha votato misure su un più stretto controllo delle armi e sull’incremento dei minimi salariali. Queste proposte sono una riposta ai fanatici che hanno bloccato il Congresso costringendolo all’inazione. In fondo, per i cittadini frustrati dal malfunzionamento del sistema politico-istituzionale (tutto il mondo è paese) può rivelarsi un modo per spingere avanti le cose.

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ISOLAZIONISMO USA E TRUMPISMO GLOBALE. FINISCE L’ORDINE POLITICO DEL DOPOGUERRA – Stradeonline, 10 novembre 2016

Forse oggi è davvero finito l’ordine mondiale liberale che abbiamo ereditato dal Dopoguerra. Donald Trump sarà il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Uno straordinario colpo di scena al termine di una campagna elettorale populista e polarizzante (che il NY Times ha definito una “exhausting parade of ugliness”) che è sfociata in uno stupefacente ripudio dell’establishment.

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Il fallimento dell’establishment democratico – l’Unità, 10 novembre 2016

Che nelle elezioni fosse in gioco anche la sua eredità, il presidente Obama l’ha detto in molte occasioni. «Il mio nome può non essere in gioco, ma lo sono i nostri progressi», ha ripetuto in questi mesi nei comizi a sostegno di Hillary Clinton, elencando i suoi risultati: estensione della copertura sanitaria, ripresa economica e i soldati in gran parte ormai al sicuro, lontano dai pericoli dell’Iraq e dell’Afghanistan.  E anche la sua eredità ha perso martedì sera.

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Basta un Sì – Aiutaci a cambiare l’Italia. Casiacco di Vito d’Asio (PN), Auditorium del Centro Sociale, Venerdì 11 novembre ore 20.30

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Non così divisi, dopotutto. Almeno in politica estera

Ormai ci siamo: domani si vota. Le elezioni americane, si sa, sono uno dei più grandi spettacoli del mondo. Anzi, secondo Mario Sechi, «il più grande spettacolo del mondo».

«Che corsa, riavvolgiamo il nastro. La storia era un copione già scritto ma… I candidati dovevano essere Hillary Clinton e Jeb Bush, famiglie d’America. Dinasty. E invece, solo per un soffio non abbiamo avuto la coppia Sanders-Trump», ricorda oggi Sechi che poi aggiunge:«Beato è chi le ha seguite passo dopo passo. Hanno fatto passare Frank Underwood per un pivello, altro che House of Cards, la corsa alla Casa Bianca è stata la rappresentazione finale del denaro come insostituibile carburante della politica, della scorrettezza senza pensarci su troppo, del colpo basso, del potere che frusta il potere, una battaglia all’ultimo sangue che domani avrà il suo epilogo».

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GIORNALI2016

Il Gazzettino, 6 novembre 2016 – La Costituzione va difesa innovandola

“Nessuno ha mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi, ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni”. Il senatore isontino del Pd e vicecapogruppo dei Democratici a palazzo Madama, Alessandro Maran, premette così il suo ragionamento a sostegno del “sì” al referendum costituzionale del 4 dicembre. Il suo ragionamento di principio, prima di entrare nello specifico della materi, sostiene che “è verissimo che con le riforme costituzionali non si mangia, ma è altrettanto vero che un sistema politico-istituzionale (governo, Parlamento, istituzioni territoriali e pubbliche amministrazioni, partiti) che funzioni meglio, cioè più rapido, più trasparente, più responsabile, è la condizione necessaria per poi fare tutto il resto”.

Maran ricorda che in Germania la “legge fondamentale” è stata modificata più di 50 volte dal 1949; in Francia nel 2008 è stato approvato il più importante progetto di riforma della Costituzione del 1958 e che in Spagna sono i socialisti a sostenere che “la miglior difesa della Costituzione è la sua riforma”.

Maran dimostra così che “tutti i Paesi hanno dovuto adattarsi ai grandi cambiamenti”. Quanto alla riforma in sé, mette l’attenzione sul Senato di cui faranno parte consiglieri regionali e sindaci considerandolo “il luogo di mediazione”, la cui mancanza in questi anni “ha generato numerosissimi conflitti finiti alla Corte costituzionale”.

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“La Costituzione va difesa innovandola” – Il Gazzettino, 6 novembre 2016

“Nessuno ha mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi, ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni”. Il senatore isontino del Pd e vicecapogruppo dei Democratici a palazzo Madama, Alessandro Maran, premette così il suo ragionamento a sostegno del “sì” al referendum costituzionale del 4 dicembre.

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#riformacostituzionale Ieri sera a Romans d’Isonzo (GO)

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“Che cosa abbiamo da perdere?”

Ieri, nella sua rubrica sul New York Times, l’ultima prima del voto, Thomas L. Friedman si è rivolto agli elettori di Donald Trump (Donald Trump Voters, Just Hear Me Out – The New York Times).
«While I’ve opposed the Trump candidacy from the start, I’ve never disparaged Trump voters. Some are friends and neighbors; they’re all fellow Americans», scrive Friedman. Dobbiamo, prosegue, prendere sul serio le loro preoccupazioni. Ma dobbiamo chiedere loro di essere seri e di distinguere tra i due candidati. «Trump is not only a flawed politician, he’s an indecent human being. He’s boasted of assaulting women — prompting 11 to come forward to testify that he did just that to them; his defense is that he could not have assaulted these women because they weren’t pretty enough.He’s created a university that was charged with defrauding its students. He’s been charged with discriminating against racial minorities in his rental properties. He’s stiffed countless vendors, from piano sellers to major contractors. He’s refused to disclose his tax returns because they likely reveal that he’s paid no federal taxes for years, is in bed with dodgy financiers and doesn’t give like he says to charity. He’s compared the sacrifice of parents of a soldier killed in Iraq to his “sacrifice” of building tall buildings. He’s vowed, if elected, to prosecute his campaign rival. We have never seen such behaviors in a presidential candidate».
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