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Non così divisi, dopotutto. Almeno in politica estera

Ormai ci siamo: domani si vota. Le elezioni americane, si sa, sono uno dei più grandi spettacoli del mondo. Anzi, secondo Mario Sechi, «il più grande spettacolo del mondo».

«Che corsa, riavvolgiamo il nastro. La storia era un copione già scritto ma… I candidati dovevano essere Hillary Clinton e Jeb Bush, famiglie d’America. Dinasty. E invece, solo per un soffio non abbiamo avuto la coppia Sanders-Trump», ricorda oggi Sechi che poi aggiunge:«Beato è chi le ha seguite passo dopo passo. Hanno fatto passare Frank Underwood per un pivello, altro che House of Cards, la corsa alla Casa Bianca è stata la rappresentazione finale del denaro come insostituibile carburante della politica, della scorrettezza senza pensarci su troppo, del colpo basso, del potere che frusta il potere, una battaglia all’ultimo sangue che domani avrà il suo epilogo».

Messe così le cose, non deve stupire che gli americani, ormai scoraggiati da una campagna presidenziale al vetriolo, abbiano preso per buona la convinzione diffusa che il paese sia ormai irrimediabilmente polarizzato, con divisioni così profonde da rendere l’esercizio del governo nella prossima amministrazione perfino più difficile di quanto sia stato per il presidente Obama. Eppure, pare (meno male) che le cose non stiano così. Lo spiega oggi l’Editorial Board del New York Times.

Sono arrivati nuovi dati che suggeriscono che, almeno sulla politica estera (che poi è l’aspetto che a noi europei interessa di più), c’è più adesione e sostegno tra gli elettori di quel che si è portati a pensare. Il che lascia sperare che Hillary Clinton, se sarà lei il nuovo presidente, possa raccogliere la maggioranza del paese su un’agenda comune. Se dovesse vincere Donald Trump, ovviamente, cambierebbe tutto.

I dati vengono dal Chicago Council on Global Affairs, che conduce regolarmente sondaggi sulla pubblica opinione dal 1974. L’ultimo report, pubblicato il mese scorso, divide gli intervistati in quattro gruppi in relazione all’appartenenza politica: democratici, indipendenti, repubblicani e quelli che dicono di voler sostenere Trump per conto loro. I supporter di Trump sono molto più preoccupati degli altri elettori circa gli effetti economici della globalizzazione e sono timorosi riguardo ad una nazione che sta diventando più multietnica e multiculturale. L’80% vede l’immigrazione come una minaccia esiziale per gli Stati Uniti, paragonati, come ha accertato la ricerca, al 67% dei repubblicani, al 40% degli indipendenti e al 27% dei democratici.

Ma su altre questioni – questo è il punto – ci sono ampie aree di convergenza tra i fan di Trump e gli altri. Per esempio, il 51% dei sostenitori di Trump vuole che gli Stati Uniti giochino un ruolo internazionale attivo, confrontato con il 64% di tutti gli altri intervistati. Sebbene lo slogan della campagna elettorale di Trump sia «Make America Great Again», la maggior parte degli americani, compreso il nocciolo duro dei sostenitori di The Donald, ritengono che il loro paese sia già il più influente al mondo. Una delle posizioni più pericolose di Trump è stata quella che metteva in discussione l’impegno dell’America nei confronti della Nato e delle sue alleanze con la Corea del Sud e il Giappone. Ma ciò contrasta con l’opinione della vasta maggioranza degli americani, incluso il 60% dei sostenitori di Trump, che vogliono aumentare o comunque mantenere l’impegno nei confronti della Nato e che credono che le alleanze in generale siano efficaci. Tutti i gruppi intervistati citano il terrorismo internazionale come la minaccia principale; e tra le altre principali preoccupazioni menzionano la proliferazione nucleare e il programma nucleare della Corea del Nord. Donald Trump, ha detto invece, con una certa leggerezza, che non gli importerebbe se la Corea del Sud, il Giappone e l’Arabia Saudita si dotassero di proprie armi nucleari. Sull’immigrazione la maggior parte degli americani, il 58%, incoraggiano un percorso di cittadinanza per i lavoratori senza documenti. Il sostegno alla globalizzazione – e cioè, specificatamente, incoraggiare ed accrescere le relazioni commerciali con il resto del mondo – , comprende il 74% dei democratici, il 61% degli indipendenti, e il 59% dei repubblicani. Sebbene Trump e Clinton abbiano criticato la Trans-Pacific Partnership tra le 12 nazioni del Pacifico, l’indagine ha scoperto che il 60% degli intervistati, compreso il 49% dei supporter di Trump, sostiene in realtà l’intesa commerciale.

Il punto è che, come dice Ivo Daalder, presidente del Chicago Council on Global Affairs. «quando si viene ai nodi fondamentali della politica estera, al perché gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi e al come dovrebbero farlo, questa è una nazione piuttosto unita».

Il che significa che se Trump venisse eletto e cercasse di realizzare alcune delle politiche estere più controverse e pericolose che ha esposto, potrebbe incontrare un sacco di guai a partire dalla propria base, per non parlare della maggioranza degli altri americani. Hillary Clinton, invece, che risulta più in sintonia con il punto di vista della maggioranza degli americani, potrebbe avere l’opportunità di costruire un ampio consenso sul genere di politica estera bipartisan che per decenni è stata la America Way.

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