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LIBERTÀeguale Magazine, 25 maggio 2016 – Vince Van der Bellen, c’è da festeggiare. O forse no

Alexander Van der Bellen, un professore di economia di 72 anni già leader dei verdi, in un testa a testa ricco di suspense, ha vinto le elezioni presidenziali austriache, sconfiggendo il suo rivale dell’estrema destra, Norbert Hofer, con un margine risicatissimo. Van der Bellen, il primo presidente verde della storia europea, ha vinto con il 50,3 per cento dei voti e Hofer ha ottenuto il 49,7 per cento: una differenza di circa 30mila voti.
C’è di che festeggiare. Il risultato ha scongiurato la prospettiva di un populista di estrema destra che diventa capo dello Stato in seguito ad un’elezione democratica e permette all’Unione europea di tirare “un sospiro di sollievo”, come ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. L’Austria, una delle culle dell’estrema destra continentale, un paese in prima linea nella crisi dei profughi, ha votato un progressista, pro-rifugiati, figlio di immigrati estoni, al vertice dello Stato. E il candidato che ha fatto, di quella che ha definito “l’invasione musulmana”, la sua bandiera  nel corso della campagna elettorale, ha perso.

Eppure la vittoria di Van der Bellen è troppo risicata per tranquillizzare. Il risultato ha mostrato quanto l’Austria sia profondamente divisa e quanto le élite centriste che hanno governato il Paese dal 1945 siano cadute in disgrazia. La (quasi) metà esatta del paese, sia di destra che di sinistra, ha votato per un cosmopolita pro-immigrazione. E la (quasi) metà esatta  (trascendendo allo stesso modo il tradizionale discrimine tra destra e sinistra) ha votato per un nativista anti-immigrazione. L’Austria di oggi è un’istantanea del futuro politico dell’Europa. Un’Europa nella quale le differenze culturali tra città progressiste e aree rurali conservatrici spezzettano e mettono in discussione il vecchio asse destra-sinistra.

E’ facile puntare il dito su Bruxelles e Berlino per le oscillazioni nella gestione dei rifugiati che, inavvertitamente, hanno sospinto Hofer ad un’incollatura dalla presidenza del paese. E’ anche vero che il successo della FPÖ è parte di uno schema europeo. In Austria, Polonia, Germania, Paesi Bassi e Scandinavia, la crisi dei rifugiati, combinata agli attacchi terroristici degli estremisti islamici a Parigi e Bruxelles, sta spingendo gli elettori già a disagio con una prospettiva multiculturale verso i partiti dell’estrema destra che, cogliendo l’opportunità, hanno gettato alle ortiche le loro proposte più odiose, indossato il vestito buono e, nella maggior parte dei casi, rivolto un appello all’elettorato conservatore più soft. E non c’è dubbio che il margine molto risicato della vittoria riflette anche i grandi progressi nell’opinione corrente che l’estrema destra ha compiuto non solo in Austria, ma in gran parte dell’Europa – dalle confinanti Ungheria e Polonia, dove già dominano, alla Francia e alla Germania, dove i movimenti di estrema destra  vanno forte nei sondaggi in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. In Gran Bretagna, gli elettori sono chiamati a decidere il mese prossimo se il loro paese rimarrà nell’Unione europea. E anche in quel voto questioni come gli immigrati e il rifiuto dell’unità europea e delle élite centriste del Continente, centrali nel voto austriaco, potrebbero imporsi come motivo dominante.

Tuttavia, il fatto che Hofer sia andato così vicino a diventare capo dello Stato ha anche (e specificatamente) a che fare con i partiti austriaci storici. Il centro-sinistra (SPÖ) ed il centro-destra (ÖVP) – che sono stati annientati al primo turno delle elezioni presidenziali del mese scorso, quando Hofer ha scioccato i rivali raccogliendo il 35,1 per cento – hanno dominato il paese per decenni e governato in coalizione. Il sistema consociativo nato dalle esigenze di governo consensuale, nei primi anni della  seconda Repubblica austriaca, denominato Proporz, attraverso il quale ciascuno sistemava i propri sostenitori, è clientelismo della peggior specie. Non solo SPÖ e ÖVP hanno creato le condizioni nelle quali Hofer (e Heinz-Christian Strache, il dinamico leader del FPÖ), potessero prosperare, ma hanno anche cercato di assecondare il FPÖ appena hanno cominciato a perdere terreno. Sul tema dei rifugiati, tanto per fare un esempio, il governo ha assunto posizioni contraddittorie, dapprima adottando una politica di accoglienza come ha fatto la Germania nel corso del 2015, per poi rivedere le proprie posizioni durante l’inverno, alla luce della crescita nei sondaggi del FPÖ e del consistente afflusso di migranti e richiedenti asilo, annunciando perfino nuovi controlli e recinzioni al passo del Brennero.

Nel suo primo discorso in neo eletto presidente ha messo in risalto il suo atteggiamento pro-europeo, accogliendo i reporter stranieri in inglese, e ha tuttavia promesso agli elettori di Hofer che le loro lamentele e le loro opinioni saranno prese in considerazione. “Abbiamo chiaramente un sacco di lavoro da fare” ha detto Van der Bellen. “Evidentemente, la gente non si sente considerata o ascoltata, o entrambe, a sufficienza”. Gli esperti dicono che Van der Bellen ha vinto le elezioni con il sostegno degli abitanti delle città – specialmente a Vienna, dove ha ottenuto il 61 per cento dei voti -, delle donne e delle persone più istruite. Ha promesso che cercherà di sanare le fratture che si sono aperte lungo queste ed altre linee mentre la “vecchia politica” ristagnava e si inaridiva. Con il piazzamento di Hofer, per la prima volta il Partito della Libertà (che ha le sue radici negli anni ’50, quando fu fondato da nazionalisti teutonici ed ex nazisti), ha ottenuto quasi il 50 per cento dei voti. E ovviamente bisognerà tenerne conto, proprio mentre l’Austria – un paese prospero di 8 milioni e mezzo di abitanti- lotta per trovare il suo posto in un mondo globalizzato e in un’Europa la cui unità è oggi in discussione.

Le turbolenze della globalizzazione e l’ondata di un milione di immigrati dello scorso anno (la maggior parte dei quali è passata attraverso l’Austria in rotta per la Germania e la Svezia) sono stati i temi centrali delle elezioni. Nonostante l’apparente e diffuso benessere dell’Austria, ha scritto Rainer Nowak, il direttore di Die Presse, il principale quotidiano del centrodestra, “la gente ha paura che le cose non andranno così bene ancora per molto”. Inoltre, ha aggiunto Nowak, “siamo diventati certamente una cultura appagata, che reprime o trascura le questioni vere, ed è riluttante semplicemente ad accettare il più piccolo compromesso quando si tratta di riforme o cambiamenti”. La sfiducia per chi sta al governo è cresciuta dappertutto, si sa. Una sfiducia che, secondo Der Spiegel, può essere riassunta in tre lamentele onnicomprensive: la globalizzazione ci ha asfaltato; nessuno ci ascolta; l’economia di mercato beneficia gli altri. Ma, scrive il settimanale tedesco, “il  FPÖ sta ad ascoltare ed è rapido ad offrire soluzioni semplici: chiudi la porta. Lascia fuori gli immigrati”. Perfino i cosiddetti gastarbeiter (i lavoratori immigrati) ed i loro discendenti lodano il FPÖ. “Sono troppi, vengono a frotte – racconta Alì allo Spiegel – e ottengono tutto facilmente mentre io ho dovuto lavorare duro per anni”. Ma sia la SPÖ che la ÖVP, prosegue il giornale, “hanno dovuto constatare che non serve a nulla ripetere a pappagallo quelle risposte. Quel che aiuta e che serve davvero è ascoltare gli elettori, anche quelli perduti, prendere seriamente le loro preoccupazioni e fornire le proprie risposte che sono più intelligenti di quelle che vengono dal FPÖ”.

Col voto di domenica “cambierà molto poco nel mondo reale” ha detto Charles Grant del Center for Europen Reform, un think tank di Londra. In ogni caso, ha detto, è stato chiaramente un voto di protesta, ora che “il libero scambio, gli immigrati e la globalizzazione sono sempre più impopolari” e “la disuguaglianza sta crescendo” in tutta Europa e negli Stati Uniti. Grant ha paragonato il risultato a quello del UKIP, che ha ricevuto quasi il 28 per cento alle elezioni europee nel 2014, ma solo il 12,6 per cento nelle elezioni inglesi dello scorso anno. La mancata vittoria di Hofer potrebbe restituire fiducia ai partiti tradizionali, incoraggiandoli  ad affrontare le necessarie riforme e a riconquistare il loro elettorato. Poi c’è l’Europa. In Francia, il quotidiano di centrodestra Le Figaro ha scritto lunedì che “i leader dell’Europa non dovrebbero essere troppo felici se Van der Bellen risparmia loro lo shock di un presidente anti-europeo a Vienna”.  Il risultato,  di stretta misura, contiene una lezione, ha aggiunto il quotidiano francese: “In tutto il continente, la gente esprime più o meno lo stesso rifiuto per un’Europa che manca sia di un progetto che di una testa”.

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Il Piccolo, 25 maggio 2016 – Fusione, riunire le forze è diventata una necessità

L’INTERVENTO
di Alessandro Maran*
Tra il 1990 e il 1992, Fantelli & Partners ha curato, per l’allora Direzione regionale per le Autonomie locali, una ricerca, poi pubblicata con il titolo: “Valutazione del territorio per la determinazione dei vincoli allo sviluppo socio-economico”. “Questa analisi – concludevano in modo tranciante i ricercatori – dimostra che i comuni al di sotto dei 6000 abitanti non offrono oggettivamente condizioni operative tali da giustificare il costo di struttura”. In altre parole, “i comuni che hanno una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti non sono strutturalmente in grado di erogare servizi oltre a quelli delegati dallo Stato. Mentre per i comuni con popolazione tra i 5 e i 10.000 abitanti nonostante l’organico molti servizi non vengono correttamente erogati; ciò è dovuto per alcune funzioni e servizi, alla limitata capacità degli enti di interagire con il territorio. Si pensi ad esempio agli aspetti che riguardano lo sviluppo economico nel comune, alla gestione dell’ambiente (parchi, inquinamento, cultura ambientale, ecc.), in tutti due i casi le piccole dimensioni condizionano fortemente gli amministratori locali”. Le cose, da allora, non sono cambiate. E l’esigenza di “unire le forze”, già evidente più di vent’anni fa (basterebbe ricordare il progetto della Città Mandamento), è diventata più impellente. Dappertutto. In Italia, solo negli ultimi due anni, le fusioni di comuni sono state 31, per un totale di 74 comuni soppressi. E, per fare un esempio, la proposta di fusione di 58 comuni dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea (dei quali solo tre superano i 5mila residenti) in un’unica realtà da 100 mila abitanti, viene riassunta così: “per uscire dalla crisi, occorre investire molto in innovazione e infrastrutture che generano occupazione. Occorre disporre quindi di istituzioni forti, in grado di gestire un piano di sviluppo di un’area sufficientemente grande in termini di cittadini, conoscenze e superficie (…) una gestione amministrativa forte e unitaria, capace di concepire, promuovere e realizzare un piano di sviluppo che possa attrarre investimenti nazionali ed europei in grado di rimettere in moto l’economia”. Infatti, comunque la si pensi, non c’è dubbio che il Progetto Città Comune consentirebbe di rendere più coerente la struttura amministrativa con i fenomeni socio-economici da governare. Gli effetti più rilevanti e certi della “fusione” (ed il principale vantaggio rispetto ad altre forme associative), sono proprio la maggior capacità strategica ed economie di gamma. Si tratta di maggior capacità nell’affrontare progetti e problemi complessi, di miglior utilizzo delle risorse complessivamente disponibili, di maggior capacità di rappresentanza locale presso i livelli superiori di governo. Aspetti che possono anche attrarre professionalità elevate e sviluppare leadership politiche più forti. Ne trarrebbe vantaggio anche la democrazia locale: nel caso di territori istituzionalmente frammentati, una maggior dimensione può portare ad una più chiara articolazione ed espressione degli interessi locali e pertanto ad una migliore considerazione degli stessi. Del resto, anche le identità territoriali mutano nel tempo, di pari passo con l’evoluzione dei sistemi insediativi, delle modalità della produzione e della tecnologia di comunicazione e trasporto. Buona parte delle divisioni amministrative storiche, proprio perché derivanti da un passato lontano, non hanno più senso ai fini dell’organizzazione dei servizi di uso quotidiano, in quanto non sono più coerenti con lo sviluppo socio-economico territoriale, con i bacini in cui la popolazione reale compie le scelte di localizzazione residenziale e di svolgimento delle attività di produzione e consumo. E proprio l’eccesso di frammentazione amministrativa rispetto ai fenomeni socio-economici da governare impone alla collettività dei costi, che si riflettono in una riduzione dei livelli di benessere presenti e futuri. Ma sono costi che, volendo, si possono evitare. *Senatore della Repubblica
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Strade-Il Magazine, 18 maggio 2016 – Populismo a stelle e strisce. Trump e Sanders, specchi dell’angoscia americana

di Alessandro Maran

Mentre democratici e repubblicani cambiano pelle e si assestano su nuove basi sociali e culturali, il vento antipolitico ha preso a spirare forte anche negli Stati Uniti. Il voto delle primarie fotografa un Paese diviso e smarrito, con un senso profondo di precarietà e insicurezza. Ma il fenomeno che ha investito la politica americana, accomunandola a quella europea, è un’eccezione o una nuova normalità?

Le primarie democratiche e repubblicane sono avviate alla conclusione e Hillary Clinton e Donald Trump, mentre Strade va in stampa, stanno per conquistare la maggioranza dei delegati necessari per la nomination. Resta da verificare come le spaccature profonde apertesi in entrambi i partiti possano essere ricomposte dai due candidati, che dalle primarie sono usciti vincenti ma non pienamente rappresentativi dei rispettivi elettorati.

A deep well of dissatisfaction

La campagna per le primarie, trasformata da Trump e da Sanders in una competizione anomala e radicale, ha rivelato “un pozzo profondo” di insoddisfazione, di sofferenza e di esasperazione tra gli elettori americani, nonostante i sette anni di ripresa economica sotto Obama. Un mix di precarietà esistenziale, paura del domani, impoverimento di massa, frustrazione politica indotta dalla sensazione di non avere voce in capitolo nelle decisioni che riguardano la propria vita, che alimenta il populismo. Non diversamente da quel che accade in Europa, sia chiaro.

Che Donald Trump abbia sfruttato lo scontento della “pancia” dell’elettorato americano, promettendo, a gente sfiduciata e ormai allergica alla politica, di rivoltare il paese come un calzino, non è un mistero per nessuno. Ma i supporter di Trump non sono gli unici a desiderare un grande ribaltone. Un sondaggio della Quinnipiac University del mese scorso ha squadernato quanto sia diffuso il malcontento e smisurato il “deep well of dissatisfaction”. (“The April 5 National Poll found deep dissatisfaction among U.S. voters”)

Stando all’inchiesta, la maggioranza degli elettori ritiene che il paese abbia “perso la sua identità”, che i suoi valori e le sue tradizioni siano “sotto attacco” e che i suoi leader “non siano interessati a quel che pensa la gente”. Questi sentimenti sono più forti tra gli elettori propensi a votare repubblicano che tra i democratici: un dato prevedibile in un anno elettorale divisivo, dopo otto anni di presidenza Obama. I sostenitori di Trump avvertono la minaccia più intensamente: l’85% ritiene che l’America sia un paese smarrito, mentre il 91% ritiene che i suoi principi fondamentali siano “presi di mira”.

Naturalmente, le cose cambiano in fretta. Nell’intervallo di tempo trascorso tra le rilevazioni e la loro diffusione, diversi avvenimenti stanno rimodellando la competizione: gli attentati a Bruxelles, il capitombolo di Trump sull’aborto e la politica estera, etc. Ma anche un’istantanea è comunque interessante in una stagione elettorale senza dubbio inconsueta. I dati possono, infatti, indicare tendenze elettorali più ampie.

Per capirci: il 2016 rappresenta una deviazione dalla norma, un’eccezione, o la nuova “normalità”? Ovviamente, le preoccupazioni economiche – al centro degli affanni degli elettori, sia repubblicani che democratici, che lamentano una ripresa troppo lenta dalla recessione – hanno alimentato l’ascesa sia di Trump che di Sanders. Non è un caso che entrambi promettano maggiore aiuto per quelli lasciati indietro e meno compromessi tra il processo politico e i “big-money interests”.

Secondo il sondaggio, il 57% degli americani ritiene di star “regredendo sempre di più dal punto di vista economico”. Lo pensa il 48% degli elettori democratici, il 67% degli elettori repubblicani ed il 78% dei sostenitori di Trump.

Va detto che, in America, tanto i benefici dello straordinario dinamismo dell’economia che i contraccolpi della crisi economica (di due guerre interminabili e, più in generale, dell’ “appiattimento” del mondo) si avvertono con una intensità sconosciuta a noi europei. E, per quanto Trump prometta di aumentare le barriere tariffarie per proteggere l’economia USA, non riuscirà a far rinascere la manifattura in America. Senza contare che non solo molti posti di lavoro dell’industria manifatturiera si sono spostati in Cina, ma anche l’industria della conoscenza ha esternalizzato parecchi servizi. Thomas Friedman ha descritto i fattori principali (grande disponibilità di fibra ottica, competenze adeguate, conoscenza dell’inglese) che hanno determinato, tanto per fare un esempio, l’attrattività dell’India per le aziende americane, che vi hanno trasferito la contabilità, lo sviluppo dei software, i servizi radiologici, ecc. Da un giorno all’altro.

Tra gli intervistati, inoltre, sono in molti a sospettare che non stiano soltanto regredendo loro, ma che “altri stiano ottenendo più aiuto di quanto meritino”. Il 72% dei repubblicani e il 18% dei democratici si dicono d’accordo con l’affermazione “il governo si è spinto troppo oltre nel sostenere i gruppi minoritari”. E tra i sostenitori di Trump l’adesione raggiunge l’80%. Va da sé che quest’alta percentuale di repubblicani non fa che confermare l’impressione di un partito che manca di apertura: dato che il GOP ha pubblicamente caldeggiato l’ingresso tra le sue fila di un numero maggiore di elettori delle minoranze, questo è un problema per un partito che di problemi ne ha già parecchi.

La soluzione? Il 64% degli intervistati invoca un “cambiamento radicale”. Il sostegno più forte viene dagli elettori di Trump e Sanders, che nella stragrande maggioranza dei casi ritengono che il loro candidato “stia guidando un movimento e non soltanto una campagna”. E la maggioranza degli elettori propensi a votare repubblicano dicono che ciò di cui il loro paese ha bisogno è un leader “disposto a dire o a fare qualunque cosa per risolvere i problemi dell’America”. Manco a dirlo, l’adesione più entusiasta (l’84%) viene dai sostenitori di Trump.

Un assaggio della politica europea?

L’inaspettata popolarità di Donald Trump e di Bernie Sanders dipende anche dal fatto che hanno completamente ribaltato le idee degli americani su quel che i loro partiti politici rappresentano. Lo strano cocktail di idee politiche servito da Trump ha “rottamato” le posizioni dei repubblicani (costate anni di lavoro) su questioni cruciali come le tasse e la religione, mentre Sanders, con le sue filippiche contro il denaro e il potere, semplicemente se ne infischia dello spostamento verso il centro duramente ottenuto dai democratici, nel corso di (almeno) una generazione. Al punto che Gareth Harding, su Politico, si è chiesto: e se fosse un assaggio della politica europea?

Il fatto che Trump unisca la difesa del sistema di protezione sociale con la xenofobia ed il protezionismo può anche non essere familiare agli elettori americani, che sono abituati ad avere a che fare con politici conservatori rigorosamente anti-welfare, sostenitori del libero scambio e della diminuzione delle tasse, ma è una mistura immediatamente riconoscibile ai sostenitori della marea di partiti di destra in testa nei sondaggi di mezza Europa. Allo stesso modo, l’aperta adesione al socialismo da parte di Sanders può forse scioccare gli americani, ma difficilmente può impressionare qualcuno in Europa, dove i partiti socialisti sono al governo o costituiscono la principale opposizione.

Persino i due personaggi principali della contesa politica in corso sono familiari agli europei. “Un arrogante uomo d’affari miliardario con una politica populista, un linguaggio volgare e un talento nel promuoversi, che entra nell’arena politica e travolge rivali esperti garantendo che saprà far rinascere il suo paese?”, si è chiesto Harding. “Questo nome non mi è nuovo!” direbbe Totò… Di più: questa “versione più pettinata e altrettanto rozza di Berlusconi” può anche essere sprezzante nei confronti dell’Europa (di recente ha descritto Bruxelles come un “buco infernale” e ha predetto il collasso del vecchio continente), ma non c’è dubbio che la sua politica “nativista” potrebbe scaturire direttamente da uno dei tanti partiti populisti europei oggi in voga.

Sanders si presta meno ad essere ridicolizzato, ma agli occhi degli europei anche la sua ascesa ha qualcosa di familiare. “L’anno scorso – scrive Harding – Jeremy Corbyn, un militante della sinistra radicale di 65 anni, privo di trascorsi politici di primo piano, con la capacità mediatica di un monaco trappista e una filosofia politica che la maggior parte di noi pensava fosse crollata assieme al Muro di Berlino, è diventato leader del Labour Party, il principale partito d’opposizione del Regno Unito”. E come nel caso di Sanders, la maggior parte degli opinionisti aveva liquidato Corbyn come “ineleggibile”, prima che, puntualmente, venisse eletto.

Non diversamente da quel che accade in Europa, gli elettori americani si stanno peraltro orientando verso candidati che hanno un attaccamento molto debole nei confronti dei loro partiti. Trump era registrato come democratico; Sanders, un senatore indipendente del Vermont, una volta ha descritto il Partito democratico, cui ha aderito di recente, come “moralmente in bancarotta”. Quando il 70% degli elettori americani ritiene, come rilevano i sondaggisti, che il paese stia andando nella direzione sbagliata, non è sorprendente che i candidati che rappresentano la continuità, come Hillary Clinton, debbano faticare per persuadere gli elettori ad appoggiarla.

Senza contare che la Clinton, come osserva Harding, “non si sta semplicemente difendendo da Sanders alla sua sinistra; anche Trump è un protezionista, come moltissimi colletti blu democratici, e uno strenuo difensore di Medicare. Negli Stati Uniti, Sanders è considerato una specie di sovversivo perché sostiene l’istruzione universitaria gratuita e la sanità pubblica finanziata con l’aumento delle tasse. Ma in Europa, queste idee lo collocherebbero semplicemente nella corrente principale di un partito cristiano democratico. Non è stata forse la cancelliera di centro-destra, Angela Merkel, che, nel 2014, ha introdotto il salario minimo in Germania e che lo stesso anno ha abolito le tasse universitarie?”. (“Dear American voters: Welcome to Europe”)

Trumpismo vs. Clintonismo?

C’è chi ritiene che, comunque vadano le cose, Trump rappresenti il futuro dei repubblicani e Hillary Clinton il futuro dei democratici. Quelli che considerano il populismo nazionalista di Trump come un’anomalia passeggera in un partito che tra non molto tornerà all’ortodossia del libero mercato e del governo limitato, tuttavia, si sbagliano di grosso. E stanno sbagliando anche quanti ritengono che l’appeal del senatore Sanders nei confronti dei giovani rappresenti una sorta di rigetto della sintesi di centrosinistra rappresentata da Bill Clinton, Barack Obama, e adesso da Hillary Clinton.

Secondo Michael Lind, della New America Foundation, in un modo o nell’altro, Trumpismo e Clintonismo finiranno per definire il conservatorismo e il progressismo in America.

L’elezione presidenziale nel 1968, un anno elettorale altrettanto turbolento, è stata una tappa fondamentale per l’identificazione degli elettori nei partiti politici americani ed ha determinato il rimescolamento dei blocchi elettorali tra i due partiti. Oggi stiamo assistendo invece ad un riallineamento di tipo diverso, all’aggiustamento di quel che ciascun partito rappresenta per la propria attuale base elettorale. “Tanto per semplificare – sostiene Lind – la base democratica è oggi, un’alleanza tra bianchi del Nord, del Mid-West e della West Coast della vecchia Rockefeller Republican tradition con neri e ispanici. Un partito che assomiglia ormai molto lontanamente ai democratici del New Deal. Da parte loro, invece, i repubblicani di oggi contano sul voto dei bianchi del Sud e della classe operaia bianca delle constituency del Nord che una volta erano i bastioni dei democratici”. Ora è cominciato un nuovo riallineamento politico, per “colmare il divario tra il vecchio programma ricevuto in eredità dal partito e i valori e gli interessi dei loro elettori di oggi”. (“Trumpism and Clintonism are the Future”)

Insomma, Donald Trump è salito in groppa al cavallo del populismo conservatore, ma il cavallo era già uscito dalla stalla da un pezzo. Prima di Trump, gli stessi temi populisti erano stati cavalcati da Mike Huckabee, Rick Santorum e Patrick Buchanan. Per un po’, la forza della destra religiosa ha consentito all’élite repubblicana di barattare il taglio delle tasse (per i ricchi) con il sostegno al divieto dell’aborto e dei matrimoni gay. Ma, con il declino del conservatorismo religioso, sta crescendo una sorta di populismo nazionale di stile europeo, per il quale il protezionismo e le restrizioni all’immigrazione sono questioni centrali e non preoccupazioni di poco conto.

Molto prima che Trump si gettasse nella mischia, i liberisti (in economia), che sono sovrarappresentati tra i finanziatori, le riviste e i think tank del partito, stavano già perdendo terreno a favore dei populisti. L’opposizione all’immigrazione illegale, da una questione marginale associata con Patrick Buchanan nel 1990, è diventata ora un test centrale per distinguere tra un “vero conservatore” e un repubblicano solo di facciata.

Nel 2007, e poi di nuovo nel 2013, l’opposizione dei repubblicani populisti ha bloccato la riforma dell’immigrazione al Congresso. Allo stesso modo, l’opposizione dei loro stessi elettori ha forzato i repubblicani, che controllavano entrambe le Camere, a sventare l’ipotesi di una parziale privatizzazione della sicurezza sociale proposta da George Bush. Ora, qualunque cosa dovesse capitare alla sua corsa per la presidenza, “Trump ha reso evidente a tutti il divario tra le proposte dei repubblicani conservatori ortodossi e quello che oggi vuole davvero la maggioranza degli elettori repubblicani”. Vale a dire, più diritti per la classe media e pugno di ferro sugli immigrati illegali, i musulmani, i rivali nel commercio estero e gli alleati “scrocconi”.

È probabile, insomma, che il futuro dei democratici sarà il clintonismo, e cioè una versione leggermente più progressista del tradizionale liberalismo, svincolata dalle concessioni strategiche agli elettori della classe operaia bianca associate all’esperienza di Bill Clinton. Nell’altro schieramento è probabile che sia solo una questione di tempo prima che il conflitto tra l’approccio libertario dell’elite e il populismo degli elettori del Partito repubblicano si risolva (più o meno) in favore degli elettori, attraverso una nuova ortodossia che si sposta a sinistra sui diritti e a destra sull’immigrazione. Nella più ampia prospettiva storica, sostiene Lind, “il 2016 testimonia che i Roosevelt Democrats e i Rockfeller Republicans sono ormai scomparsi”. Ed è probabile che i democratici clintoniani e i repubblicani alla Trump siano qui per restare.

Del resto, il populismo si è insediato come un attore stabile anche all’interno dei sistemi democratici europei. E, anche in Europa, nessuno ha messo ancora a punto una strategia per fermare la sua avanzata trionfale.

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Il Foglio, 15 aprile 2016 – «Non si può spacciare lo sputtanamento per libertà di stampa»

“L’ITALIA HA BISOGNO DI UNA RIFORMA SULLE INTERCETTAZIONI, PRATICA SOPRAVVALUTATA CHE TRASFORMA LA MELMA IN ORO”

Al direttore – E’ da un pezzo che l’Italia ha bisogno di una seria riforma che impedisca una volta per tutte di trascrivere negli atti giudiziari telefonate penalmente irrilevanti che riguardano persone che non c’entrano nulla con l’indagine e spacciare la libertà di sputtanamento per libertà di stampa. Non per caso, un anno fa, prima che l’argomento tornasse alla ribalta, ho ripresentato, con i dovuti accorgimenti, il ddl sulle intercettazioni approvato dalla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 e che non vide l’approvazione definitiva a causa dell’interruzione anticipata della legislatura. Il problema, affrontato dal testo, è presto detto: sia le esigenze investigative che quelle di pubblica informazione in occasione di vicende giudiziarie di pubblico interesse, devono trovare il giusto bilanciamento con il diritto dei cittadini a vedere tutelata la loro riservatezza, soprattutto se estranei al procedimento. Il diritto al rispetto della vita privata e familiare e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee costituiscono infatti valori tutelati, oltre che dalla Carta costituzionale (articoli 13 e 15), anche dagli articoli 8 e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Eppure, ogni volta il discorso finisce per concentrarsi, in modo fuorviante, unicamente sulla “limitazione dei mezzi in capo ai magistrati per scovare reati”. Lo strumento della captazione di conversazioni e comunicazioni, anche telematiche, costituisce uno dei cardini dell’attività investigativa, si sa. Ma non deve diventare un mezzo per diffondere notizie che, come quelle lette in questi giorni, con il reato non hanno nulla a che vedere e consacrare la disparità morale tra accusati e accusatori. Insomma, bisogna creare un vero filtro per evitare che la condanna mediatica preceda quella (eventuale) giudiziaria; scremare le conversazioni ritenute irrilevanti, custodendo le stesse in archivi riservati e coperti da segreto istruttorio; e prevedere autonome fattispecie criminose per l’illecita divulgazione di notizie.

Aggiungo che l’intercettazione è una tipetta parecchio sopravvalutata. Se può “trasformare la melma in oro”, è proprio perché, come sostiene Steven Pinker, docente di psicologia alla Harvard University, “la conversazione reale è molto lontana da ‘il cane ama il gelato’” e “ci vuol molto di più dell’analisi per capire un enunciato”. Qualcuno ricorderà il colloquio che ebbe luogo il 17 marzo 1973 tra il presidente Richard Nixon, il suo consigliere John W. Dean e il suo capo di gabinetto H. R. Haldeman. Howard Hunt, che lavorava alla campagna di rielezione di Nixon nel giugno del 1972, aveva guidato un’irruzione nel quartier generale del Partito democratico nell’hotel Watergate, in cui i suoi uomini avevano messo sotto controllo i telefoni del capo del partito e di altri impiegati; ed erano in corso indagini per chiarire se l’operazione era stata ordinata dalla Casa Bianca, da Haldeman o dal procuratore generale John Mitchell. I tre stavano discutendo se pagare 120 mila dollari come prezzo del silenzio a Hunt prima che testimoniasse in tribunale. Il dialogo è disponibile perché Nixon, sostenendo di agi- re per il bene dei futuri storici, aveva fatto installare un microfono spia nel proprio ufficio e aveva cominciato a registrare segretamente tutte le conversazioni che vi si svolgevano. Nel febbraio 1974 la Commissione giudiziaria della Camera dei rappresentanti chiese formalmente che i nastri fossero ascoltati per contribuire alla decisione sull’impeachment di Nixon. In gran parte sulla base di questo colloquio il comitato chiese l’impeachment, e nell’agosto 1974 Nixon diede le dimissioni.

I nastri del Watergate sono le più famose e più lunghe trascrizioni mai pubblicate di una conversazione realmente avvenuta. Quando furono pubblicate, gli americani ne furono scioccati, anche se non tutti per la stessa ragione. Un piccolo numero di persone “si stupì – scrive Pinker – che Nixon avesse preso parte a una cospirazione per ostacolare la giustizia. A qualche altro parve strano che il leader del mondo libero si esprimesse come uno scaricatore di porto. Ma a rappresentare una sorpresa per tutti fu come appare una conversazione quando viene riportata parola per parola. La conversazione fuori dal contesto è praticamente incomprensibile. Parte del problema deriva dal fatto stesso che la voce viene trascritta: vanno perse l’intonazione e il ritmo che delineano i sintagmi; inoltre la qualità tecnica dei nastri che non siano di altissima fedeltà è inaffidabile (…) Ma anche quando viene trascritta perfettamente, la conversazione è difficile da interpretare. Le persone parlano per lo più a frammenti, interrompendosi a metà degli enunciati per riformulare il pensiero o cambiare il soggetto. Spesso non è chiaro di chi o di che cosa si stia parlando, perché i conversatori usano pronomi (‘lui’, ‘loro’, ‘questo’, ‘quello’, ‘noi’, ‘loro’, ‘esso’, ‘uno’), parole generiche (‘fatto’, ‘successo’, ‘la cosa’, ‘la situazione’, ‘quel punto’, ‘queste persone’, ‘qualsiasi’) ed ellissi (‘il volere della Procura degli Stati Uniti’, e ‘Ecco perché’). Le intenzioni sono espresse indirettamente. In questo episodio, che un uomo finisse l’anno come presidente degli Stati Uniti o come criminale giudicato colpevole dipendeva letteralmente dal fatto che ‘Di cosa avete bisogno?’ fosse inteso come una richiesta di informazioni piuttosto che un’offerta implicita di dare qualcosa”. L’inintelligibilità della conversazione trascritta è un ingrediente della formula che permette all’intercettazione di trasformare la melma in oro. Ma senza prove concrete, indizi circostanziati e pistole fumanti, la melma resta melma. Motivo in più per riprendere in mano il progetto di riforma

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GIORNALI2016

www.stradeonline.it, 8 aprile 2016 – CONTRO I POVERI, MA NON CONTRO LA POVERTÀ: IL PROTEZIONISMO DI BERNIE SANDERS

di Alessandro Maran

 

Stando al Washington Post, la recente intervista di Bernie Sanders con il New York Daily News è stata un disastro: sollecitato ad andare oltre la consueta retorica sulle nefandezze di Wall Street e a dire concretamente come intende «spacchettare» e riorganizzare le grandi banche, il senatore del Vermont, ha farfugliato qualche frase di circostanza. Ma la sua intervista sta facendo discutere anche per altre ragioni, che ci riguardano da vicino. Bernie Sanders (che pure non è Matteo Salvini) ha detto praticamente che gli USA non dovrebbero commerciare con i paesi nei quali i salari dei lavoratori sono (molto) più bassi di quelli americani. Una dichiarazione terrificante per tutto il mondo in via di sviluppo.

«So you have to have standards – ha detto Sanders – And what fair trade means to say that it is fair. It is roughly equivalent to the wages and environmental standards in the United States». Con queste parole, di fatto, Bernie Sanders ha «rottamato» gli scambi commerciali con qualunque paese che non sia già ricco e florido. Il che è semplicemente disumano. Una cosa è sostenere che non bisogna fare affari con i paesi che cercano di manipolare le loro monete (i tassi di cambio dovrebbero essere il meccanismo principale per riequilibrare il commercio); è poi del tutto ragionevole sostenere i diritti dei lavoratori di quei paesi, la loro sindacalizzazione, o premere per tutele ambientali più severe, e battersi affinché servitù e schiavitù siano spazzate dalla faccia della terra. Si tratta di questioni che gli accordi commerciali devono affrontare. Ma il divieto assoluto ad esercitare un commercio con le nazioni a bassi salari è un altro paio di maniche.

La sostanza del commercio sta nel fatto che i paesi devono puntare sui loro vantaggi competitivi, il che rende l’intera economia globale più efficiente. Se un paese ha una popolazione molto istruita, mercati dei capitali fiorenti e buone competenze high tech, come gli Stati Uniti o la Germania, esporterà al resto del mondo servizi di alto livello, (come i servizi finanziari) e prodotti manifatturieri avanzati (come le automobili o gli aeroplani). Se invece l’unico vantaggio di un paese è l’abbondanza di manodopera relativamente poco qualificata, disposta a lavorare per 65 centesimi l’ora, allora probabilmente si ricaverà una nicchia nel tessile o nell’assemblaggio di prodotti elettronici, per poi costruire gradualmente un certo know how e lavorare a qualcosa di più redditizio.

Ma se, come scrive Jordan Weissman su Slate, ora arrivano gli Stati Uniti e dicono: «Scusa Vietnam, a meno che i tuoi operai non comincino a guadagnare 5 o 7 dollari l’ora, siamo intenzionati a comprare le magliette da qualcun altro», gli operai di Hanoi non otterranno improvvisamente un aumento. Verosimilmente, le fabbriche chiuderanno e la produzione si trasferirà in un paese i cui lavoratori saranno produttivi abbastanza da giustificare i salari del mondo sviluppato – che poi significa generalmente «il» mondo sviluppato. E gli Stati Uniti avranno appena pregiudicato l’unico vantaggio relativo del Vietnam.

Non si capisce, scrivono i giornali americani, se Sanders semplicemente non afferra la questione o non gli importa nulla del problema. Forse pensa che l’unica ragione per cui i camiciai del Vietnam non guadagnano di più è che non hanno abbastanza potere contrattuale. O forse è più preoccupato del benessere di un numero relativamente piccolo di operai americani di quanto non lo sia del resto del mondo. Ora, senza dubbio il commercio con la Cina ha colpito alcune categorie di lavoratori americani (e nel frattempo avvantaggiato delle altre), ma limitare il commercio con i paesi che hanno bassi salari così rigidamente come vuole Sanders, colpirebbe i più poveri della terra. E parecchio.

Il libero commercio è uno degli strumenti migliori che abbiamo per combattere la povertà estrema. Dalla fine della seconda guerra mondiale, come noi per primi dovremmo ricordare, è stato il grande motore che ha letteralmente sollevato centinaia di milioni di persone dalla miseria, più di qualunque programma di aiuti. E la ricetta del senatore del Vermont finirebbe per ridurre in miseria milioni di persone già misere. Senza contare che la proposta di Sanders di fare marcia indietro rispetto agli accordi commerciali in essere potrebbe condurre a gravi rappresaglie da parte dei paesi interessati. L’opposizione di Bernie Sanders al commercio va molto oltre i nuovi accordi come il TPP (Trans-Pacific Partnership) o il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Il suo sito promette di «ribaltare» il Nafta (North American Free Trade Agreement) e l’accordo con l’America Centrale (Central America Free Trade Agreement). Inoltre promette di svincolarsi dalle normali relazioni con la Cina, un lascito dell’era Clinton.

Se gli USA dovessero abbracciare il protezionismo, ovviamente gli altri paesi seguirebbero a ruota, con il rischio di dare avvio a quel genere di guerra commerciale che abbiamo visto nei primi anni della Grande depressione. Gli altri paesi, infatti, non se ne staranno con le mani in mano senza rispondere. E lo scenario da incubo, descritto dagli esperti, è quello scivolare tutti verso il protezionismo. Ma allora bisogna fare i conti con le implicazioni morali (e politiche) di questo atteggiamento, che Zach Beauchamp ha illustrato nei dettagli.

Eppure, come Beauchamp ha scritto nel suo articolo, una soluzione per i danni che il commercio ha fatto alla classe operaia americana ci sarebbe, ed è quella abbracciata dai paesi del nord Europa che Sanders cita spesso come modello. I paesi scandinavi sono estremamente aperti al commercio. Ma hanno anche estesi programmi di welfare che prelevano denaro dai vincitori della globalizzazione e lo usano per compensare i lavoratori che invece perdono terreno. In questi paesi, tutti usufruiscono di merci meno costose, la classe media non soffre particolarmente e i poveri del mondo traggono beneficio dalla vendita dei loro beni ai consumatori più ricchi.

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GIORNALI2016

Il Piccolo, 7 aprile 2016 – Maran bacchetta il Pd: «Ha dato il peggio di sé ma apprezzo Cicogna»

Il senatore sulle elezioni di Grado: «Può accadere di tutto

La sinistra non ha mai vinto, bisogna cambiare per la città»

 

di Antonio Boemo

◗ GRADO

Davanti a una situazione politica che a Grado non è mai stata così ingarbugliata, il senatore Alessandro Maran non nasconde la sua preoccupazione. E non risparmia di bacchettare il Pd, anche a livello regionale, che è il suo partito dopo l’esperienza con Scelta civica.

Il Pd ha possibilità di conquistare il Comune?

Il gruppo dirigente del Pd, locale e regionale, ha dato il peggio di sé. Ma conosco Luciano Cicogna: è una brava persona e un amministratore capace.

È mai stato interpellato dal Pd o da altre forze politiche per candidarsi a sindaco?

Nessuno mi ha mai interpellato. In ogni caso, non avrei accettato. Cerco di adempiere al mandato parlamentare al meglio delle mie possibilità. E poi Grado ha bisogno di un sindaco a tempo pieno e non a mezzo servizio.

La situazione non è ancora chiaro ma in questo momento chi pensa possa prevalere?

Può succedere di tutto.

I problemi a Grado riguardano solo il Pd oppure tutto il centrosinistra?

La sinistra non ha mai vinto. Ma per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici. In altre parole, bisogna cambiare. Il Pd era nato per questo.

I programmi rischiano di somigliarsi uno all’altro. Quali allora le priorità?

Grado è una città in declino, con una mentalità vecchia. E la situazione è davvero preoccupante. A cominciare dalle dinamiche demografiche.

Tra poco gli ultraottantenni saranno più numerosi dei residenti sotto i 10 anni di età…

Infatti. E sia lo sviluppo economico sia il sostegno del Welfare State dipendono dalla forza  lavoro e dal rinnovamento delle generazioni. Inoltre, c’è il rischio di un impoverimento di talento, di creatività, di futuro, perché una popolazione sempre più anziana perde la sua vitalità e la sua attrattività.

Come si può evitare?

La capacità di attrazione è decisiva. Grado ha bisogno di investimenti per rilanciare lo sviluppo. Ma è difficile pensare che la rinascita di Grado possa passare attraverso un flusso di denaro pubblico pari alle esigenze della città.

Cos’è, dunque, indispensabile per Grado?

È necessario e vitale avere uno stock supplementare di investimenti non solo di origine internazionale, ma anche di standard internazionale.

Parliamo delle Terme Marine che avrebbero potuto essere ampliate ancora una quindicina d’anni fa contestualmente alla realizzazione del secondo lotto, quello coperto, del Parco Acquatico.

Sarebbe sempre ora. È un elemento decisivo. Senza una struttura termale come si deve, non si può allungare la stagione, e se la stagione non si allunga, gli investimenti non sono convenienti e i problemi incancreniscono. Colpisce, però, il ritardo culturale. Quanto tempo è che le terme a Loipersdorf, a Bad Blumau o a Catež, per restare nei paraggi, sono affollate, anche d’inverno, da gente che si vuole rilassare e divertire? Quanto tempo è che in quei luoghi si può trovare un’offerta completa di esperienze balneari, fitness, wellness e terapie per 365 giorni all’anno? A Loipersdorf hanno le conchiglie e la sabbia della Florida e noi facciamo ancora le stesse cose di trenta anni fa.

Su una cosa tutti paiono concordi: il Comune dovrebbe riappropriarsi della spiaggia e della società che la gestisce…

Sbaglierò, ma mi chiedo: per fare che cosa? Lo dico brutalmente: in quale parte del mondo ci vuole una società pubblica per affittare ombrelloni? Siamo sicuri che, al contrario, non sia un vincolo che inibisce le possibilità economiche?

Tanti rimpiangono l’Azienda autonoma di soggiorno.

Anch’io ho nostalgia dei miei vent’anni. Ma non tornano più. Non tornano più le mutue che pagano le cure a tutti, la Regione che ripiana i debiti a piè di lista, non torna più la spiaggia come ammortizzatore sociale.

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GIORNALI2016

www.stradeonline.it, 1 aprile 2016 – MENO AMERICA PER TUTTI. ANCHE L’EUROPA IMPARI A DIFENDERSI DA SOLA

Ogni volta che in qualche parte nel mondo c’è un conflitto, una folta schiera di politici e di opinionisti si affanna a sostenere che tocca agli Stati Uniti risolverlo. Che si tratti di inviare armi all’Ucraina o invocare l’invio di truppe in Iraq (o in Siria) l’assunto è sempre lo stesso: ogni problema è un problema dell’America; e il modo migliore per risolvere i problemi dell’America è uno solo: usare la forza. Anche a proposito dell’ISIS, ovviamente, sono in parecchi a reclamare a gran voce l’intervento militare americano; manco a dirlo, anche quanti hanno condotto gli Stati Uniti in Iraq un decennio fa, una decisione che, a ben guardare, ha contribuito ad innescare gli avvenimenti che oggi hanno luogo in quel paese. Le cose, però, sono cambiate. Nella recente intervista di Jeffrey Goldberg sull’Atlantic, il presidente Barack Obama sostiene che quella che molti opinionisti considerano una delle pagine peggiori della sua presidenza – la decisione di non bombardare la Siria nell’estate del 2013 dopo che Bashar al-Assad aveva violato la «red line» sull’uso delle armi chimiche – sia stato invece uno dei suoi momenti migliori: la presa di distanza più risoluta da quello che Obama ha definito il «Washington playbook». Nel football americano, il playbook è il libretto con le strategie e gli schemi di gioco; per capirci, una sorta di manuale. «C’è un manuale a Washington che si suppone che i presidenti debbano seguire – spiega Obama -, ed il manuale prescrive le risposte alle diverse situazioni, e queste risposte tendono ad essere risposte militari. Dove l’America è direttamente minacciata, il manuale funziona. Ma il manuale può anche rivelarsi una trappola e condurre a pessime decisioni». Goldberg descrive quel giorno, nell’opinione di Obama, come «il giorno della liberazione, il giorno in cui ha sconfitto non solo l’establishment della politica estera ed il loro manuale fatto di missili cruise, ma anche le richieste degli alleati (sconfortanti e costosi da mantenere) dell’America nel Medio Oriente».
Naturalmente, l’intervista ha suscitato una valanga di critiche che prendono di mira quella combinazione di avversione al rischio e di parole ispirate che molti considerano una caratteristica (negativa) della presidenza Obama. Resta però il fatto che da più parti (anche sorvolando sulle uscite di Trump o sulle posizioni di Sanders), comincia a farsi strada l’idea che la grande strategia che gli Stati Uniti hanno perseguito dal crollo della potenza sovietica «non è necessaria, è controproducente, costosa e inefficiente». Lo spiega in un libro Barry Posen, professore di scienze politiche al MIT. Posen auspica un diverso approccio; e il titolo del libro, «Restraint», esprime in modo stringato la sua esortazione. Gli Stati Uniti, egli sostiene, devono smetterla di cercare di fare sempre di più. Devono, invece, fare meno. Anche perché «gli sforzi per difendere tutto finiscono per non difendere nulla». La cosa, ovviamente, ci riguarda da vicino.
Barry Posen introduce due concetti di buon senso. Primo: gli ostinati tentativi di impiegare, dalla fine della guerra fredda, una grande strategia di «egemonia liberale» sono falliti, principalmente a causa della «forza inesauribile del nazionalismo e della propensione della gente a resistere ai soprusi degli estranei». Ad eccezione della missione finalizzata ad intrappolare e a distruggere al-Qaeda in Afghanistan, le spropositate ambizioni che hanno spronato la politica degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, pretendevano di mettere in piedi società liberali all’interno di contesti illiberali e arretrati. L’amministrazione Bush ha scommesso tutto sul fatto che, dopo il successo illusorio a Kabul, le trasformazioni sarebbero venute come conseguenza, naturalmente; e, tristemente, gli Stati Uniti hanno speso sangue e denaro in grande quantità inseguendo un sogno improbabile. Senza peraltro contribuire a salvaguardare quello a cui tenevano di più: il benessere e i valori americani, il loro potere e la loro la sicurezza.
Secondo: gli Stati Uniti devono abbracciare la «grande strategia» che si possono davvero permettere. C’è chi dice che gli Stati Uniti possono anche non badare agli alti costi delle traversie in politica estera perché, in fondo, l’America se lo può permettere. A differenza di altre grandi nazioni, il paese è molto ricco, resiliente, e può attendere che si presenti la prossima opportunità senza preoccuparsi troppo del nemico della porta accanto. Ma ora, scrive Posen, siamo a un punto critico: la grande strategia della «egemonia liberale» non è più alla portata degli USA.
Anche perché, sostiene Posen, gli alleati degli Stati Uniti sono di due generi. Ci sono i «cheap riders» – per capirci, gli scrocconi di cui ha parlato Obama, quelli che salgono sull’autobus senza comprare il biglietto o che beneficiano dei beni comuni con un contributo e uno sforzo minimi – e i «reckless drivers», i guidatori spericolati e incoscienti. Tra i primi ci sono i paesi che beneficiano dell’ampio ombrello di sicurezza degli Stati Uniti (i membri della Nato ed il Giappone, per esempio) e che hanno in comune con gli americani le stesse preoccupazioni circa la sicurezza, ma che malauguratamente, spendono per la difesa risorse molto al di sotto delle loro necessità, in genere attorno al 1% del Pil (la spesa per la difesa degli Stati Uniti è all’incirca del 4,8%).
Anziché incrementare le risorse, gli scrocconi non di rado mettono in dubbio la credibilità americana. Secondo il direttore del Security Studies Program al MIT, è una forma di scaricabarile, usata per rimproverare agli Stati Uniti di non essere affidabili. Il problema, sostiene Posen, non è che gli USA manchino di credibilità, ma che ne hanno troppa. I guidatori spericolati perseguono invece politiche che danneggiano gli interessi degli Stati Uniti, e spesso loro stessi. Come gli scrocconi, scommettono sul fatto che gli Stati Uniti manterranno la promessa di fornire una sorta di garanzia militare di ultima istanza. Secondo Posen, il modello è rappresentato da Israele. Egli ritiene che l’occupazione brutale di Israele e la ripresa della costruzione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, una strategia di esproprio territoriale e di «apartheid», rendano molto difficile per gli Stati Uniti perseguire i propri, più ampi, interessi, nella regione, incluso il contenimento dell’Iran e la lotta ad al-Qaeda. Inoltre, Posen ritiene che l’acquiescenza degli Stati Uniti nei confronti delle politiche di Israele, spesso per ragioni di politica interna, lasci l’impressione che lo sforzo americano di diffondere la democrazia nel Medio oriente suoni ipocrita. Secondo il professore del MIT, anche molti dei «partner» degli americani nel nation building, in particolare i governi di Maliki e di Karzai, sono più interessati a mettere al sicuro il loro potere e le loro prerogative che a vincere la battaglia per i cuori e per le menti. Gli amici, quelli veri, non permettono ai loro compagni di guidare ubriachi. Gli Stati Uniti lo fanno, offrendo loro un sostegno incondizionato quando invece dovrebbero portare via loro le chiavi dell’auto.
Che cosa dovrebbero fare, allora, gli americani? Barry Posen raccomanda agli Stati Uniti di investire in quello che sanno fare meglio, e cioè nel controllo dei beni comuni globali attraverso la forza aerea e marittima, riducendo le forze militari sul terreno; e immagina una riduzione nella spesa per la difesa fino al 2.5% del Pil, la maggior parte della quale ottenuta riducendo l’esercito e l’ampia presenza americana oltremare.
Ovviamente, si posso fare diversi rilievi. Si può contestare che quel che propone Posen è una vera e propria strategia di disimpegno. Il che ha i suoi pericoli. Si può obiettare che, in realtà, un’America più moderata – «sotto freno», per così dire – sarebbe un’America legata più strettamente (e non meno) alla comunità internazionale attraverso l’esercizio della leadership delle istituzioni e delle alleanze globali. Tutto vero. Ma il professore del MIT non è un isolazionista. Egli incoraggia gli Stati Uniti a perfezionare la loro capacità, in quanto unica vera potenza globale, di muovere velocemente le risorse di cui hanno bisogno nel caso fosse necessario contenere eventuali aspiranti egemoni regionali. Inoltre, sostiene che una politica di graduale ma unilaterale trasferimento del «fardello» militare, sia l’unico modo per convincere gli alleati (a cominciare dagli europei) ad aumentare la spesa per la sicurezza. Gli Stati Uniti hanno bisogno di partner capaci, ma finora si sono limitati soltanto a qualche rimprovero che non ha prodotto risultati. Ora bisogna cambiare, proclama Posen.
A ben guardare, per l’Europa è l’occasione per accelerare il decollo della difesa comune. Specie se si considera che oggi la nuova sfida della UE è quella di impostare una nuova politica di sicurezza e cooperazione diretta verso Sud che, pur nella diversità degli strumenti, punti ad essere almeno altrettanto efficace di quella condotta con lo strumento dell’allargamento verso Est. Sempre che l’Unione europea riesca a non dividersi. Sempre che gli europei riescano a guardare in faccia la realtà. Savvy?, direbbe il capitano Jack Sparrow.

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GIORNALI2016

Messaggero Veneto, 11 marzo 2016 – Contrattacco di Maran al collettivo Wu Ming: «Menzogne in serie»

Fossa comune, dura replica alle accuse degli scrittori
«Pronto a querelare gli autori delle frasi diffamatorie»
di Mattia Pertoldi
Alessandro Maran va al contrattacco, smonta, tesi dopo tesi, il j’accuse lanciato dal collettivo di scrittori Wu Ming sulla sua collaborazione con la Lega Nazionale sul caso delle presunta foiba di Rosazzo e preannuncia l’intenzione di rivolgersi alla magistratura per tutelare la propria immagine contro chi «ha diffuso una notizia falsa». Poco importa, infatti, al senatore Pd che la formulazione errata contenuta nella prima versione del post – quella che parlava di finanziamento diretto – sia stata corretta – spostando l’asse di critica sulla presunta collaborazione fornita da Maran – considerato come «anche l’ultima versione del post insinua (subdolamente) nel lettore una attività illecita che avrei posto in essere, avendo, di fatto, favorito due ricercatori (Salimbeni e Buttignon ndr) a discapito di altri studiosi». Il problema, per il vicepresidente “dem” a palazzo Madama, non è soltanto di forma, ma di sostanza. «I giornali hanno reso noto da tempo in che cosa sia consistito il supporto che ho dato ai ricercatori – ha tuonato –. Posto che questi raggiungevano Roma da Gorizia, ho cercato unicamente di facilitare il loro lavoro. E avrei fatto lo stesso per chiunque mi avesse chiesto aiuto. Come? In maniera indebita? Neanche per idea. L’archivio della Farnesina è fruibile da ogni cittadino che ne faccia richiesta. Naturalmente, con lo stesso trattamento. Un mio collaboratore ha girato la loro richiesta all’archivio, ha preannunciato l’oggetto della ricerca e, una volta giunti nella capitale, ha indicato ai ricercatori la strada per raggiungerlo. Punto». Dal punto di vista politico, poi, Maran si chiede se la mentalità del collettivo di scrittori sia quella di «vietare o rifiutare l’accesso agli archivi alle persone semplicemente perchè non piacciono le loro idee» e sottolineando come certe affermazioni siano assurde visto che «Buttignon lavora per l’Anpi» spiega che «le porte – tutte le porte – devono essere aperte e che tutte le informazioni devono essere disponibili: poi, se la vedranno gli storici». Ma c’è un’accusa, per quanto velata, che porta il senatore «a riservarsi di agire in ogni sede a tutela della mia persona e immagine», cioè quella, per quanto indiretta, di essere vicino ad ambienti neofascisti. «Proprio perché resto un antifascista (ormai di vecchia data) resto convinto della necessità di aprire gli archivi a tutti – ha concluso –. Sono stato compagno e amico di “Vanni” Padoan, di Vincenzo Marini “Banfi” (pronunciandone anche l’orazione funebre) e di parecchi altri partigiani, e non dimentico che hanno continuato a combattere non per chiudere le porte, ma per aprirle. E non dimentico che l’antifascismo è un orientamento di cultura politica che valorizza la Resistenza come momento fondante del nuovo patto costituzionale e che si oppone a tutti gli atteggiamenti – antidemocratici, autoritari e intolleranti – riconducibili al fascismo».
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GIORNALI2016

LIBERTÀeguale, 3 marzo 2016 – Siria: a Putin serve un “victory speech”

Il cessate il fuoco negoziato dal segretario di stato John Kerry e dalla sua controparte russa, il ministro degli esteri Sergei Lavrov, tra il governo del presidente Bashar al-Assad e una moltitudine di gruppi di insorti che gli si oppongono (e che comprende quelli sostenuti dagli Stati Uniti e dai loro alleati), sembra reggere. Anche se l’intesa non include le operazioni contro due delle formazioni ribelli più forti, lo Stato Islamico e la «succursale» di Al Qaeda, Jabhat al-Nursa.

Il conflitto in Siria, si sa, è degenerato da un protesta pacifica contro il governo nel 2011 in una violenta ribellione che ha coinvolto molti paesi. É, in parte, una guerra civile del governo contro il proprio popolo; in parte, è una guerra di religione che contrappone la setta Alawita minoritaria di Assad (schierata con i combattenti sciiti  dell’Iran e gli Hezbollah in Libano), ai gruppi di insorti sunniti; in misura crescente è anche una guerra per procura che vede Russia e Iran contro gli Stati Uniti e i suoi alleati sunniti (Turchia, stati del Golfo, ecc.).

In queste condizioni, l’accordo sul cessate il fuoco è destinato a tenere? Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che l’accordo potrebbe trasformare «radicalmente» la situazione in Siria, gettando le basi per i negoziati veri e propri. Il presidente Obama è stato più cauto, ma ha detto di sperare che la tregua possa fare risorgere i negoziati di pace tra il governo siriano e i gruppi ribelli e aiutare a riportare l’attenzione sulla necessità di sconfiggere l’ISIS. Le organizzazioni umanitarie sperano invece che la pausa negli scontri possa consentire loro di distribuire cibo e medicine in un paese in cui 400 mila persone sono assediate in zone di guerra e sono minacciate dalla fame e più di cinque milioni di persone vengono regolarmente nutrite dal World Food Programme delle Nazioni Unite.

In circostanze così tragiche come quelle in Siria – mezzo milione di morti, metà della popolazione costretta a lasciare la propria casa – ogni accordo, per quanto limitato, che offra sollievo ed aiuto a chi soffre, dovrebbe essere accolto festosamente. Eppure, è difficile vedere nella tregua parziale qualcosa di più della ratifica dello status quo che si è determinato con l’intervento militare russo ordinato da Putin nel settembre scorso. All’epoca, la guerra era finita in una situazione di stallo e c’erano segnali che il regime di Assad, perfino con l’aiuto significativo dell’Iran e degli Hezbollah, stesse vacillando. Il regime, che dipende dalla minoranza Alawita del paese, non aveva più neppure soldati a sufficienza per puntellare tutto il territorio.

Lo sforzo militare russo, dirigendo la potenza di fuoco principalmente sui gruppi degli insorti sostenuti dagli Stati Uniti, ha consentito al governo di Assad di serrare la presa sulla striscia di città che si allunga da Damasco ad Aleppo e a Latakia, l’area della base russa in Siria. La campagna aerea contro l’ISIS e al-Nusra è stata lasciata sostanzialmente agli Stati Uniti (i cui alleati sono rimasti perlopiù a bordo campo). I funzionari delle organizzazioni umanitarie sostengono che le offensive appoggiate dalla Russia abbiano creato almeno 100 mila nuovi profughi siriani e un numero incalcolabile di sfollati all’interno del paese. Molti rifugiati si sono diretti in Europa, il che, secondo alcuni, somiglia molto ad una vendetta per la sanzioni economiche imposte alla Russia dopo il suo intervento militare in Ucraina.

Anche altri aspetti della tregua sembrano problematici: i leader della Turchia, un membro della Nato, hanno dichiarato che non rispetteranno la tregua in relazione alle forze curde in Siria, che considerano un ramo dell’insurrezione curda nel loro paese. E finora, i curdi in Siria sono stati gli alleati più efficaci degli Stati Uniti nella lotta contro l’ISIS. Inoltre, stando ai funzionari delle organizzazioni umanitarie, molti dei siriani che hanno bisogno di cibo vivono in aree sigillate dall’esercito. Stando all’accordo, ai convogli umanitari dovrà essere garantito pieno accesso a tali aree, ma non c’è nessuna garanzia che sarà davvero consentito loro di passare. E quel che più conta, non è chiaro se la «cessazione delle ostilità» sia davvero attuabile e se il regime di Assad e i suoi alleati abbiano davvero l’intenzione di sottostare ai termini dell’intesa. Fin dall’inizio della rivolta, Assad si è riferito a quanti gli si opponevano definendoli «terroristi» e ha trattato tutti, perfino i bambini, con la stessa sanguinaria determinazione. E non c’è nessun indizio che faccia pensare che ora comincerà a distinguere tra l’ISIS e al-Nusra e le formazioni che invece sono parte dell’intesa. É più probabile che tanto Assad quanto i suoi alleati proseguano con le operazioni militari nello stesso modo di prima. Ed è difficile immaginare che qualcuno in Occidente li possa fermare.

Con l’eccezione della campagna aerea contro lo Stato islamico, l’amministrazione Obama si è rifiutata di accrescere la pressione militare, nella forma di una no-fly zone per proteggere i civili o di qualcosa di più di una assistenza simbolica agii insorti anti-Assad più moderati. Le ragioni che il presidente Obama ha addotto per questo rifiuto non sono campate in aria, in particolare su un punto cruciale: non ci sono formazioni abbastanza credibili da lanciare una seria minaccia ad Assad. Ma, in assenza della forza, dei mezzi, delle capacità americane, il campo di battaglia in Siria sarà rimodellato da altri. Infatti, Assad e i suoi complici restano al potere ed è improbabile che il nuovo round di negoziati e perfino un parziale cessate il fuoco cambino questo dato di fatto.

A meno che le cose non stiano come ha scritto recentemente Dominic Tierney su The Atlantic. Secondo Tierney i russi stanno cercando una via d’uscita dal pantano siriano (ora la Russia non esclude un futuro «federale» per la Siria e sarebbe pronta ad uno «scenario bosniaco»). Dunque, «l’opportunità migliore per un accordo di pace potrebbe essere una situazione in cui Putin si convinca che un trionfo decisivo non è possibile, ma può ancora salvare la faccia spacciando il risultato per un successo. In altre parole, ha bisogno di una storia da raccontare al popolo russo sui risultati positivi della missione. Questa narrazione non deve per forza essere vera, ma ha bisogno di avere una certa truthiness, o una apparente credibilità. E così, per riportare Putin fuori dalla Siria, gli Stati Uniti devono far finta di niente evitando rivendicazioni vanagloriose su una debacle russa». Se così stanno le cose, «Putin ha bisogno di un victory speech. E Washington dovrebbe aiutarlo a scriverlo».

 

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GIORNALI2016

Messaggero Veneto, 29 febbraio 2016 – RAFFORZARE I DIRITTI CONTRO IL FANATISMO

 «Con il passaggio al Senato di un provvedimento storico che darà riconoscimento legale alle coppie dello stesso sesso per la prima volta nella storia italiana – ha scritto ieri The Guardian – l’Italia ha fatto un passo per unirsi ai principali paesi dell’Europa occidentale». L’Italia, rimarca infatti il quotidiano britannico, è l’unico dei grandi Paesi europei occidentali che non riconosce nessuna forma di unioni delle stesso sesso. È questo il nocciolo della questione. Sappiamo, del resto, che ad essere incostituzionale non è il testo in discussione, ma l’assenza di una legge sulle unioni di persone omosessuali, come ha chiarito la Corte costituzionale con due sentenze chiave (e ha ribadito la Corte di Strasburgo). Sappiamo che proprio la Corte, nella sentenza del 2002, ha dichiarato che «la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti». È a questo, prima ancora che alle piazze, che va data risposta. Il Parlamento è oggi in condizione di farlo. Per questo, dopo la giravolta del M5s (che in nome del “vaffa” pensa evidentemente di godere di una sorta di superiorità morale), ho condiviso l’obiettivo di chiudere il più rapidamente possibile, mettendo al sicuro tutti i punti principali della legge, che altrimenti sarebbero stati a rischio. Emendamenti e voti segreti potevano portare paradossalmente a un risultato peggiore di quello auspicato. Oltretutto, con lo stralcio della stepchild adoption, saranno ancora i giudici ad avere l’ultima parola, in attesa di una nuova legge che modifichi complessivamente le norme attuali sulle adozioni. Sull’onda delle polemiche di questi giorni rischiamo, infatti, di dimenticare due costanti. In primo luogo, nessuno dei Paesi occidentali nei quali la legge ha mosso i suoi passi è stato risparmiato da manifestazioni contrapposte. In secondo luogo, non è mai accaduto che si sia passati, in un colpo solo, dal niente al tutto, dalla mera tolleranza delle coppie di persone omosessuali al matrimonio egualitario: dappertutto i legislatori hanno proceduto per tappe, il più delle volte fermandosi a un livello intermedio, per poi adottare aggiustamenti successivi. Del resto, non c’è modo di trasformare un principio in una realtà senza contraddizioni, con un colpo di bacchetta magica. In vaste porzioni della società continueranno ad esserci pregiudizi, anche dopo che la legge avrà stabilito un migliore trattamento delle minoranze. In altre parti della società si proclameranno ad alta voce principi che non si possono sancire con una norma: avere un padre e una madre non è una cosa che la legge possa garantire a tutti, e ricorrere a sanzioni penali per i comportamenti che disapproviamo spesso crea più problemi di quelli che risolve. Per questo, oltre a cercare di mettersi in sintonia con i propri elettori, bisognerebbe cercare di veicolare questa complessità e, aggiungo, la prospettiva culturale da cui guardare il mondo. Se in Occidente il Ventesimo secolo è stato il tempo dei diritti collettivi, il Ventunesimo si è aperto all’insegna di quelli individuali. Come ha scritto Massino Russo qualche tempo fa, “l’introduzione di una quota sempre maggiore di diritti individuali nell’ordinamento dello Stato fa paura anche perché sembra minare alla base alcuni valori ed elementi costitutivi della nostra identità collettiva: la famiglia, le tradizioni religiose, la cittadinanza, la cultura. È la retorica un po’ lisa di chi vede l’Occidente disgregarsi, ormai vittima del pensiero debole, della società liquida”. Ma è vero il contrario. “Solo un rafforzamento dei diritti e delle libertà individuali ci può salvare. Quel che ci differenzia davvero dal fanatismo, di qualsiasi colore o appartenenza, è l’idea di una società come somma di liberi individui responsabili. È ciò a cui l’Occidente lavora dal Rinascimento e da Galileo in poi. Da qui, con un unico filo, discendono non solo i diritti dei gay, quelli di cittadinanza o la scelta di come morire – le cose che ci separano oggi – ma anche conquiste dalle quali per tutti noi è inconcepibile arretrare, come la liberazione della donna, che non è schiava né dell’uomo né della società”. Diritto individuale non è l’opposto di responsabilità ma ne è la fonte. Libertà e responsabilità sono, aldilà delle diverse convinzioni, l’unico antidoto al totalitarismo. Perciò non bisogna guardare con paura alla contemporaneità o alla lacerazione che porta con se. “Tra un po’ – ha scritto ieri Paola Concia – arriverà il tempo della vita vera, quella che ci metterà di fronte alla realtà che è cambiata. E molti e molte diranno: “però, in effetti!”.
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