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Formiche.net, 1 ottobre 2016 – Le sfide degli Usa e del mondo secondo Barack Obama

Torno, all’indomani del primo dibattito presidenziale (nel quale Hillary Clinton ha sbaragliatoDonald Trump), sul discorso (l’ultimo) che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tenuto, la scorsa settimana, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. È stato uno dei suoi discorsi migliori sulla politica mondiale. E la sua importanza sta proprio nella consapevolezza che sia le tendenze più incoraggianti sia quelle più preoccupanti dell’ultimo quarto di secolo hanno la stessa origine.

L’integrazione economica globale, ha rilevato Obama, ha migliorato la vita di miliardi di persone; l’incidenza della povertà estrema si è ridotta da più del 40% dell’umanità a meno del 10%; Internet ha messo la totalità della conoscenza umana nelle mani di chiunque abbia accesso ad un computer o ad uno smartphone; il crollo del colonialismo e del comunismo ha raddoppiato il numero delle democrazie, consentendo ad altri milioni di persone di scegliere i propri leader.

Eppure, al tempo stesso, la rapida crescita economica ha approfondito le diseguaglianze. Il divario tra ricchi e poveri non è certo una novità, ma oggi la tecnologia permette di “vedere” come vivono i più fortunati tra di noi ed il contrasto tra le loro vite e quelle degli altri. Il che accresce le aspettative ad “un ritmo così rapido che i governi non sono in grado di soddisfare” e “un senso di ingiustizia dilagante mina la fiducia della gente nel sistema”. E mentre i governi sono“male equipaggiati” per gestire queste domande, visioni alternative di ordine si fanno avanti:“fondamentalismo, tribalismo, nazionalismo aggressivo e rozzo populismo”.

Fred Kaplan ci ha ricordato, su Slate, che da tempo gli storici hanno riconosciuto questa dinamica. Crane Briton, nel suo The Anatomy of Revolution del 1938, l’ha definita “la rivoluzione delle aspettative crescenti”. Il che spiega perché le persone le cui vite di recente sono migliorate moltissimo si stanno improvvisamente ribellando. Ma si tratta di una matassa difficile da sbrogliare. Per questo l’intervento di Obama è così insolito e coraggioso.

La pace, sostiene insomma il presidente americano, non deriva semplicemente dall’aumento della ricchezza (che aiuta, ovviamente, ma acutizza anche i contrasti interni), conta anche la sua diffusione. Per questo, ha rivendicato Obama, gli Stati Uniti hanno lavorato con altre nazioni“per mettere un freno agli eccessi del capitalismo”. Non per “condannare la ricchezza”, ha precisato, “ma per prevenire il ripetersi di crisi che la possono distruggere”, poiché, ha aggiunto,“una società che pretende meno dagli oligarchi che dai cittadini comuni si decompone dall’interno”. E vale anche per il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; un gap che “i paesi ricchi devono fare di più per colmare”. Per questo, ha detto, “abbiamo lavorato per raggiungere intese commerciali che alzassero gli standard del lavoro e quelli ambientali, come abbiamo fatto con la Trans-Pacific Partnership, in modo che i vantaggi siano condivisi in modo più ampio“. Certo che, ha riconosciuto il presidente americano, è arduo politicamente (non per caso, nel dibattito presidenziale Donald ha messo Hillary Clinton in difficoltà proprio sulle intese commerciali). Ed è difficile spendere in aiuti internazionali. Ma non si tratta di carità, è nel nostro interesse.

Non ci sono, ammette Obama, “risposte facili”. Sebbene l’integrazione globale generi inevitabilmente uno “scontro di culture”, ha invitato i suoi colleghi a respingere fondamentalismo e razzismo, a propugnare un orgoglio etnico che non implichi il dominio di una parte e a sperimentare insieme libero mercato e società civile (anziché accettare solo il primo senza quest’ultima, come avviene in Cina).

Ha convenuto che “la storia ci racconta oggi una realtà diversa” da quella che vorremmo. C’è“una visione della storia più cupa e più cinica” nella quale gli uomini “sono motivati dall’avidità e dal potere”, i grandi paesi calpestano quelli più piccoli, e le tribù o gli Stati nazione definiscono se stessi non solo in rapporto alle idee che li uniscono ma, più ancora, “da quello che odiano”. Molte volte nella storia, ha detto, gli uomini hanno pensato di essere giunti all’età della Ragione,“solo per ripetere fasi di conflitto e di sofferenza” e “forse è questo il nostro destino”. Ma, ha proseguito, “le scelte degli individui” che ci hanno condotto alle guerre mondiali, ci hanno condotto anche alle Nazioni Unite, che sono state create proprio per prevenire queste guerre.“Ognuno di noi come leader, ogni nazione, può scegliere di respingere quanti fanno appello ai nostri impulsi peggiori e sostenere quanti incoraggiano i nostri impulsi migliori”, ha detto Obama. “Poiché abbiamo dato prova di poter scegliere una realtà migliore”.

Obama non ha ignorato la scelta che sta oggi di fronte ai cittadini americani. Non basta un muro per impedire che l’estremismo condizioni le nostre società: il mondo è troppo piccolo. Ed ha aggiunto: “una comunità circondata da mura finirebbe solo con l’imprigionare se stessa”. Ma, appunto, le scelte che affrontano gli Stati Uniti non sono diverse da quelle che stanno di fronte al mondo intero. E si tratta, anzitutto, di riconoscere la natura delle scelte da compiere.

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Messaggero Veneto, 22 settembre 2016- BICAMERALISMO SUPERATO DALLA STORIA

Sono ormai passati 27 anni dalla caduta del Muro di Berlino. È da allora che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Fu voluto dalla Costituente, infatti, un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; e un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato un freno utile a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. Difatti, la presenza di due Camere che fanno esattamente le stesse cose non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Come dimostrano i lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, è quasi impossibile trovare argomenti a difesa dello status quo. Ma per i critici della riforma, una seconda Camera eletta dai Consigli regionali e non dai cittadini sarebbe un’istituzione non democratica; eppure in Europa quella dell’elettività diretta non è affatto una regola ma tutto l’opposto: la maggioranza dei Paesi dell’Unione (15 su 28) non hanno una seconda Camera; tra i 13 che hanno una seconda Camera solo in cinque Paesi i suoi membri sono direttamente eletti dai cittadini e tra questi cinque Paesi solo in Italia, Polonia e Romania la seconda Camera ha dei poteri rilevanti e solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera. La combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbe poi un attentato alla democrazia, come se solo una Camera eletta con un sistema proporzionale fosse compatibile con un Senato non eletto direttamente dal popolo. Con questo metro di giudizio il Regno Unito sarebbe un sistema ben poco democratico: Toni Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35 per cento dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55 per cento dei seggi. La stessa cosa in Francia, dove, con il 29 per cento dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Hollande ha conquistato il 53 per cento dei seggi. Le soluzioni individuate dal Parlamento per il Senato delle Autonomie possono non piacere, ma perché mai innalzare Regioni e governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sarebbe inadeguato e perfino sacrilego? Si tratta di autorità democratiche elette dai cittadini e dall’azione di Regioni e Comuni dipende la gran parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi, delle politiche statali, della spesa pubblica. Inoltre, proprio la mancanza del luogo parlamentare di coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori, è il principale punto critico della riforma del Titolo V che, nel 2001, ha modificato la parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali. Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. E il Governo deve affrontare la riforma della giustizia e della burocrazia, con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. Ma non c’è da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario. Sono a confronto due concezioni della democrazia: l’una è assembleare, fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli esecutivi. Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. È da allora che è iniziata una transizione che, a 27 anni dal crollo del Muro di Berlino, è tempo di portare a compimento.

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l’Unità, 9 settembre 2016 – La strategia di Obama

Mentre, come vuole la tradizione, lunedì scorso, con la festa del Labor Day, è cominciato lo sprint finale della campagna presidenziale americana, Barack Obama sta completando il suo ultimo viaggio in Asia come presidente. Dopo aver partecipato al G20 in Cina, Obama è volato in Laos per incontrare i membri dell’Asean, l’associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico.

Uno degli scopi della visita del presidente americano è quello di rilanciare uno dei suoi progetti più importanti: il cosiddetto «pivot dell’Asia», l’idea, cioè, che sia l’Asia oggi il cuore delle dinamiche mondiali e che sia necessario riorientare la politica estera americana verso la regione Asia-Pacifico. Il «rebalancing», si basa sulla consapevolezza che gran parte della storia politica ed economica del XXI secolo verrà scritta nella regione Asia-Pacifico. E per beneficiare di questo spostamento nelle dinamiche geopolitiche globali e rivitalizzare la propria economia, gli Stati Uniti stanno costruendo con la regione vasti legami diplomatici, economici, nel campo della sicurezza, dello sviluppo e delle relazioni tra le persone.

Uno dei compiti degli Stati Uniti è, ovviamente, quello di prevenire il dominio cinese. Si tratta di un’impresa facilitata dalle recenti mosse espansionistiche di Pechino che, in modo particolare nel Mar cinese meridionale, hanno suscitato l’ostilità degli altri paesi asiatici. Ma la politica di Washington non è il contenimento. La Cina non è l’Unione sovietica, bensì il partner commerciale più importante per ogni paese asiatico. Ed il progetto americano punta a rafforzare quelle intese che hanno garantito per decenni la prosperità e la sicurezza della regione: dalla libertà di navigazione e del commercio alle istituzioni multilaterali e alla risoluzione pacifica delle dispute. Per questo, la Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio con undici paesi della regione, è la struttura portante del «pivot asiatico»: sostiene la crescita, puntella le alleanze degli Stati Uniti, manda un potente segnale alla Cina e, come si affanna a ripetere Obama, scrive le regole del XXI secolo, secondo criteri che sono sostanzialmente quelli occidentali.

Senza questa intesa, bisognerà aspettarsi che la Cina cominci a scrivere queste regole con criteri che saranno molto diversi dai nostri.

In altre parole, la strategia americana punta ad includere l’Europa (Ttip) e le altre democrazie asiatiche (Tpp) in un’alleanza anche economica grande abbastanza per imporre standard occidentali ad un sistema mondiale nel quale emergono nuovi poteri globali e regionali. E imporre alla Cina il rispetto di standard di non aggressività esterna e di ordine democratico interno non è solo un obiettivo morale; serve anche ad evitare che l’Impero di Mezzo finisca per implodere, con un impatto globale devastante.

Eppure, negli Stati Uniti, come ha scritto Fareed Zakaria, «il Tpp è sotto attacco da ogni parte. Bernie Sanders e Donald Trump lo contrastano ad ogni costo. Hillary Clinton e Paul Ryan hanno detto che non risponde più ai loro standard. Anche se non hanno spiegato quali siano questi standard e sebbene Robert Lawrence, dell’Harvard Kennedy School, abbia rilevato che, per lavoratori, i vantaggi del Tpp superano di gran lunga le perdite». Insomma, «Obama è sempre più solo in una Washington che trabocca populismo, protezionismo e isolazionismo». È così dappertutto, si dirà. E le barricate dell’Europa (indirizzata da leadership deboli che lisciano il pelo agli istinti anti-mercato) contro il Ttip, l’accordo commerciale transatlantico, ne sono l’esempio.

Eppure, solo se l’Europa e gli Stati Uniti saranno capaci di lavorare insieme per diffondere e far rispettare delle norme comuni in tutto il mondo, i servizi e le industrie americane ed europee potranno prosperare e garantire posti di lavoro ben pagati. Quando gli attuali focolai di crisi saranno solo un ricordo, il fenomeno più importante del nostro tempo rimarrà l’ascesa dell’Asia. Il negoziato transatlantico è forse l’ultima occasione politica per l’Occidente, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. Senza contare che l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica. Basterebbe ricordare il monito che due personalità molto diverse come John Kennedy e Richard Nixon, in momenti diversi, hanno rivolto agli europei: «Non possono avere entrambe le cose. Non possono avere la partecipazione e la cooperazione degli Stati Uniti nel campo della sicurezza e poi passare allo scontro e perfino all’ostilità sul terreno economico». Con l’aria che tira a Washington non sarebbe male tenerlo a mente.

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Il Gazzettino, 13 agosto 2016 – Autonomia a prova di voto

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l’Unità, 5 agosto 2016 – Elezioni USA, un nuovo mondo

Non sono elezioni come le altre. Lo ha scandito Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione democratica di Philadelphia. Trump non è un avversario come gli altri, non rientra nella dialettica tra Repubblicani e Democratici che ha fatto crescere l’America. È, invece, un candidato cinico che vuole speculare sulle paure. Lo ha ribadito anche l’Economist: le convenzioni hanno messo in luce un una nuova frattura politica, non tra sinistra e destra, ma tra apertura e chiusura. E anche per Thomas L. Friedman, lo scontro non è tra Democratici e Repubblicani, ma tra «Wall People» e «Web People», tra costruttori di muri e costruttori di reti (cioè di legami).

L’obiettivo principale dei primi è quello di scovare qualcuno in grado di placare i venti impetuosi del cambiamento che non ci danno requie: nel nostro posto di lavoro, dove le macchine stanno minacciando le occupazioni di colletti bianchi e tute blu; nel nostro quartiere, dove si stanno riversando immigrati di diverse religioni, razze e culture; e globalmente, dove parecchia gente rabbiosa uccide innocenti con preoccupante regolarità. «Vogliono un muro per fermare tutto questo», scrive il columnist del New York Times. Sia Donald Trump che Bernie Sanders sono due candidati che vanno a pennello ai «Wall People»: entrambi fanno appello alla pancia del paese; il primo, si vanta di essere in grado di fermare il vento con un muro e il secondo promette di fare lo stesso stracciando i grandi accordi commerciali globali e facendo abbassare la cresta ai ricchi e alle grandi banche.

Dall’altra parte ci sono i «Web People», i difensori di un mondo aperto, che, scrive Friedman, «si rendono conto che sia i Democratici che i Repubblicani hanno costruito le loro piattaforme in gran parte in risposta alla rivoluzione industriale, al New Deal e alla Guerra fredda, e che oggi un partito del XXI secolo ha bisogno invece di costruire la propria piattaforma in risposta alle accelerazioni imposte dal progresso scientifico e tecnologico, alla globalizzazione, al cambiamento climatico, che sono le forze che stanno trasformando i luoghi di lavoro, la geopolitica e lo stesso pianeta». Sanno che quel che conta davvero è concentrarsi nel sostenere le persone, gli individui, «per permettere loro di competere e collaborare in un mondo senza muri»; che «i sistemi aperti sono più flessibili, resilienti e capaci di imprimere una spinta in avanti e offrono l’opportunità di sentire e reagire per primi al cambiamento. Perciò preferiscono più espansione commerciale, lungo le linee della Trans-Pacific Partnership, più immigrazione regolata per attrarre le menti più acute e le persone più dinamiche, e più strumenti per un apprendimento lungo tutta la durata della vita. E capiscono anche che bisogna prevenire gli eccessi di irresponsabilità a Wall Street, senza però strozzare chi assume dei rischi, perché questo è il motore della crescita e dell’imprenditorialità».

Hillary Clinton sa perfettamente che l’America deve costruire il suo futuro su questa piattaforma; sa che gestire la globalizzazione (mantenendo i benefici dell’apertura cercando di attenuare gli effetti negativi) non vuol dire rinunciarvi; sa che un mondo di costruttori di muri sarebbe più povero e più pericoloso. Ma invece di sfidare i «Wall People» del suo partito, sta cercando un accordo con loro, opponendosi a cose che lei stessa ha contribuito a negoziare, come l’accordo commerciale del Pacifico, offrendo più sussidi statali e, scrive Friedman, «astenendosi dal dire alla gente la dura verità: per restare nella classe media, limitarsi a lavorare duro rispettando le regole non basta più. Per avere un lavoro che duri tutta una vita bisogna apprendere per tutta una vita, cercando di migliorarsi costantemente».

L’America (ma anche il vecchio mondo) ha bisogno disperatamente di una coalizione in grado di governare efficacemente in tempi di rapido cambiamento. Non per caso, Thomas Friedman si augura che i pro-global repubblicani, che ora si tengono in disparte, si uniscano al Partito Democratico per formare un partito per il XXI secolo. Un partito «sensibile ai bisogni della gente che lavora, che valorizza la funzione stabilizzante di comunità solide e in buona salute, ma che sta dalla parte del capitalismo, dei mercati liberi e del libero commercio, in quanto motori vitali della crescita per una società moderna e per dotare ogni americano degli strumenti di apprendimento per realizzare il proprio potenziale». Vale anche per noi (a proposito, il PD non era nato per questo?).

Hillary Clinton ha la possibilità di rompere, oltre al soffitto di cristallo per le donne, anche il muro che ha diviso i due grandi partiti americani. Ma deve promuovere l’apertura con coraggio e senza ambiguità. Dal suo successo, dipende il futuro dell’ordine mondiale liberale.

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Messaggero Veneto, 28 giugno 2016 – L’ITALICUM E LA LEZIONE SPAGNOLA

«Triste victoria del Pp en un escenario desolador», scrive El País a proposito delle elezioni spagnole che, dopo sei mesi di inutili trattative, non hanno sciolto il rebus che attende una soluzione dalle precedenti elezioni del dicembre scorso: i quattro partiti principali si sono spartiti i seggi senza lasciar intravedere alcun governo possibile. Il rischio è che si ripropongano le stesse dinamiche sterili che hanno portato al fallimento dei negoziati nei mesi scorsi. Come sei mesi fa, il leader di Podemos, Pablo Iglesias, cercherà di convincere i socialisti a dare vita, insieme a lui, ad un «governo del cambiamento», mentre il leader dei Popolari Mariano Rajoy chiederà responsabilità per la formazione di un governo di larghe intese che garantisca la governabilità del paese. Anche il voto spagnolo, insomma, dimostra come in una situazione che non è più bipolare (come quella che aveva caratterizzato la Spagna fin dal suo approdo alla democrazia), se non si individua un sistema elettorale che consenta ai cittadini di scegliere da chi essere governati, come avviene col doppio turno, o si aprono le porte a larghe intese o si condanna la democrazia all’impotenza. L’esito del voto per i sindaci aveva, del resto, già mostrato come il ballottaggio sia indispensabile per dare al paese un governo stabile, sorretto dal voto di una maggioranza. Cosa sarebbe successo, in un sistema partitico tripolare (o quadripolare) com’è ormai il nostro, se nei giorni scorsi, i sindaci fossero stati scelti, non dai cittadini, come avviene dal 1993, ma eletti dai consigli comunali come avveniva un tempo, quando erano le trattative tra i partiti a decidere sindaco e giunta, magari a mesi di distanza dalle elezioni, e quando il mandato amministrativo nei comuni rappresentava una sorta di intermezzo tra una crisi e l’altra? E cosa sarebbe accaduto se avessimo votato per il Parlamento (con due Camere con due legge elettorali diverse) senza il ballottaggio? Come in Spagna ci sarebbero tre o quattro “poli”, ciascuno tra il 20 e il 30 per cento dei voti, che si guardano in cagnesco, e non ci sarebbe modo di dar vita ad un governo in grado di durare per più di sei mesi. Il pericolo per l’Italia non è la dittatura (il vento cambia con facilità e, come abbiamo visto, le autonomie locali sono un contrappeso formidabile al governo centrale) ma l’impossibilità di un governo stabile. E il ballottaggio e il premio di maggioranza sono assolutamente necessari. Quella spagnola è una lezione che sarebbe bene tenere a mente quando, in autunno, voteremo il referendum costituzionale. Se voteremo “sì” alla riforma avremo un sistema che consente ai cittadini di decidere chi debba governare. Si supera, infatti, il bicameralismo paritario, si assegna alla sola Camera il potere di dare e togliere la fiducia al governo e si prevede (in coerenza con il testo costituzionale), una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, l’Italicum appunto. Se invece vinceranno i “no”, ci terremo il Senato attuale, un «inutile doppione» della Camera (come sosteneva Mortati) e prenderà corpo uno scenario spagnolo. In queste condizioni, è probabile che alle prossime elezioni non vinca nessuno, che addirittura si determinino maggioranze diverse in ciascuna Camera, e che l’unica prospettiva percorribile resti quella di governi di coalizione tra forze eterogenee o quella di governi tecnici, deboli, instabili e non decisi dagli elettori. Diciamoci la verità: in un momento difficile come quello che, con tutta l’Europa, stiamo attraversando, non è proprio il massimo.

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Messaggero Veneto, 23 giugno 2016 – Maran: la rottamazione deve continuare

Il renzismo non è morto e il Pd per rialzare la testa deve proseguire, con ancora maggiore forza, nel percorso di rinnovamento e di “rottamazione” inaugurato dal premier rifiutandosi di ritornare ad arroccarsi sui “valori di riferimento” della sinistra tradizionale. Parola di Alessandro Maran, vicecapogruppo Pd al Senato e renziano della prima ora, che si rifiuta di suonare le campane a lutto dopo la scoppola delle Comunali e invita a ritornare con coraggio all’essenza del progetto che ha portato l’ex sindaco di Firenze a guidare prima il partito e poi il Paese.
Senatore si è fatto un’idea dei perché della vostra sconfitta alle elezioni?
«Il voto non è affatto omogeneo. E anche il risultato del M5s non è ancora un risultato nazionale. Dunque nulla di irreparabile o di compromesso. Si tratta di fare tesoro della lezione. In molte città un certo modello di governo locale si era esaurito da tempo. Andava ripensato e abbiamo mancato di progettualità. Si è dovuta gestire anche una riduzione significativa delle risorse senza aver dato vita a un modello più efficiente di spesa e di servizio ai cittadini. Poi ci sono situazioni in cui paghiamo il fallimento del governo locale, come a Roma, o la lunga permanenza al governo, come a Torino. E c’è anche la mancata apertura del Pd, il ritardo del rinnovamento della classe dirigente, lo scontro profondo tra un’idea di partito a vocazione maggioritaria e quello dei territori a vocazione correntizia».
In Fvg le sconfitte a Pordenone e Trieste pesano più che altrove. Quali errori avete compiuto?
«Bisognerà interrogarsi sugli sbagli commessi senza perder tempo con i necrologi e le autocommiserazioni. Gli italiani hanno preso molto sul serio la scommessa di Renzi e da lui si aspettano innovazione e discontinuità anche nelle amministrazioni locali. Quando non c’è, si rivolgono altrove».
Secondo lei si è sottovalutato il valore del centrodestra?
«Probabilmente sì. Ma la capacità del centrodestra di ristrutturarsi, dal punto di vista del sistema politico, non è una cattiva notizia».
Quali “colpe” ha – se ci sono – Debora Serracchiani nelle sconfitte alle amministrative in Fvg?
«Quando si perde nessuno può chiamarsi fuori. Ma se vuole risolvere i problemi, e non aggravarli, il Pd deve dimostrarsi solido e non avvitarsi in una spirale autodistruttiva. Inoltre, si paga sempre un prezzo quando si fanno le riforme. Ma si paga il doppio se non le si porta a termine. Un partito deve mostrare attenzione e umiltà nei confronti del Paese, ma anche una certa fermezza. La rivoluzione renziana si vince o si perde sul terreno dell’innovazione, della ripartenza dell’Italia».
È plausibile, secondo lei, che Serracchiani lasci la vicesegreteria per concentrarsi maggiormente sulla Regione?
«Non spetta a me dare consigli. Soprattutto se non sono richiesti».
Visto il risultato finale, a Trieste aveva ragione Russo quando ha preteso le primarie?
«È evidente che ci fossero dei problemi. Ma sbarazzarsi del sindaco uscente, peraltro una brava persona, è un escamotage, come dimostra Pordenone. Se qualcosa non ha funzionato nell’esperienza di governo, chi l’ha sostenuta non può pensare di chiamarsi fuori. Forse dovremmo imparare un approccio più capace di ascolto e a sostenere le nostre ragioni nel confronto con la gente».
In vista delle regionali e delle politiche 2018 da cosa deve ripartire il Pd per non perdere?
«Continuare a rivoluzionare geneticamente la sinistra italiana, con un mix fatto di riforme strutturali (meno tasse, spesa pubblica, debito, minore timidezza sulla giustizia e sulla Pa) e ricambio generazionale, schivando la tentazione di tornare ai “valori di riferimento” della sinistra tradizionale».
Ma saranno possibili aperture nei confronti della minoranza?
«Immagino di sì. Verrà chiesto al segretario del Pd qualche intervento sul partito, ma allo stesso tempo i dati sul ballottaggio (e quelli in Europa) ci dicono anche che la famosa sinistra che fa la sinistra non arriva lontano».
Insomma il vento rottamatore non si è placato…
«La notizia della morte del renzismo è ampiamente esagerata, come scriveva Twain. Ed è tempo di dimostrarlo. Al referendum mancano 100 giorni e non possiamo fallire, per il bene del Paese».

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l’Unità, 8 giugno 2016 – Quei «18 milioni di crepe» pronti a rompersi

Quando, nel 2008, Hillary Clinton, prendendo atto della sconfitta, chiuse la sua campagna presidenziale, fece un discorso che è rimasto nella memoria di molti americani ed in particolare di moltissime donne. Alla folla raccolta al National Building Museum a Washington, Hillary disse: «Sebbene questa volta non siamo riusciti a mandare in frantumi il soffitto di cristallo più importante e più resistente, grazie a voi, ha ormai circa 18 milioni di fessure, attraverso le quali la luce risplende come mai prima d’ora, riempiendoci di speranza e della consapevolezza che il cammino la prossima volta sarà un po’ più facile». Sono passati otto anni da allora e Hillary Clinton sta per fare la storia e diventare la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Dovrebbe assicurarsi la nomination, una volta chiusi i seggi nel New Jersey, indipendentemente dal risultato in California. L’Associated Press, sulla base di una propria indagine, ha annunciato infatti che Hillary Clinton si è già assicurata i 2383 delegati necessari.

Certo, non si è ancora insediata nell’ufficio ovale, ma è più vicina a rompere «quel soffitto più importante e più resistente» di quanto sia mai stata una donna negli Stati Uniti. Ed è probabile che, nel proclamare finalmente la sua vittoria nella contesa prolungata e inaspettatamente aspra contro Bernie Sanders, farà riferimento proprio al suo discorso di commiato, puntando a ristabilire l’unità del partito. Sebbene il discorso di Hillary Clinton sia celebre per il riferimento a quei «18 milioni di crepe», la cosa più importante che andò in pezzi quel giorno è stata la barriera di sfiducia tra lei e Obama. Nel suo discorso pronunciò il nome di Obama 15 volte, incoraggiando i propri sostenitori a «fare tutto quel che possiamo per aiutare ad eleggere Barack Obama». La domanda oggi in circolazione – che cosa farà Bernie? – otto anni fa, non venne in mente a nessuno. Ed è probabile che, giovedì sera, Hillary Clinton lancerà un appello all’unità del partito accennando alla propria storia. Proprio perché allora si impegnò a riunificare il partito, oggi può dire credibilmente di conoscere quel che Sanders e i suoi sostenitori stanno passando e che, nel 2008, scelse quel che davvero conta: eleggere un presidente democratico.

Non sarà una passeggiata. Ma per Hillary non lo è mai stata. La sua è stata una generazione di femministe che ha deciso che, per loro, niente era impossibile. Non tutto è andato secondo i piani. E anche quando le cose sono andate per il verso giusto, il conto è stato salato. E, nella sua carriera, ogni volta la sequenza è stata la stessa: si propone, cade, si rialza, va avanti e lavora sodo. Quando la sua prima campagna presidenziale si concluse con la sconfitta, fece quel che hai fatto molte altre volte. Si tirò sù e colse l’opportunità di lavorare per il presidente che l’aveva battuta. Non è mai stato in discussione che ci avrebbe riprovato, perché è questo il suo modo di fare. È determinata a fare la storia e l’ha fatta. Quel che non farà mai è farla sembrare facile. Nel suo recente esplosivo discorso sulla politica estera a San Diego ha rivolto un duro attacco a Trump. E la più devastante accusa che gli ha rivolto è che Trump non crede nell’America. Nella contesa il patriota è lei, è lei il credente.

 

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Formiche.net, 3 giugno 2016 – Cosa (non) farà in politica estera il prossimo presidente degli Stati Uniti

L’analisi di Alessandro Maran, senatore Pd

Nel suo primo discorso articolato sulla politica estera, Donald Trump ha detto che “America First (l’America prima di tutto) sarà il tema principale della sua amministrazione” e che il suo obiettivo sarà quello di “togliere la ruggine” a una politica estera che ha fallito. Chiacchiere? Non proprio.

Nel suo saggio più recente (“Mission Failure: America and the World in the Post-Cold War Era”), Michael Mandelbaum, il direttore dell’American Foreign Policy program alla Johns Hopkins University, sostiene che gli ultimi decenni della politica estera americana sono stati un’aberrazione, una deviazione dalla norma. Un periodo in cui l’America è diventata così potente da prendersi una sbronza geopolitica colossale. Una sbornia che l’ha portata a dismettere i panni del poliziotto che si limita a tutelare la sicurezza dei propri cittadini, per indossare quelli dell’assistente sociale, dell’architetto e del carpentiere che si preoccupa del nation-building lontano dal proprio paese. Il tutto, ovviamente, con le migliori intenzioni. Ma nessuno degli sforzi profusi dagli americani in questi anni (che in più di un caso hanno salvato davvero delle vite), ha ottenuto quel tipo di ordine democratico capace di autosostenersi che era nei loro obiettivi. Il che spiega perché Obama non voglia più sentir parlare di “boots on the ground”. E spiega anche perché il presidente che verrà non si discosterà molto dalla sua “dottrina”. Che poi l’America possa davvero chiamarsi fuori, come si è chiesto Thomas Friedman sul New York Times, è un altro paio di maniche. Ma andiamo per ordine.

Dal 1991, e cioè dalla decisione della prima amministrazione Bush di intervenire nell’Iraq settentrionale e creare una no-fly zone per proteggere i curdi iracheni da Saddam Hussein, “le principali iniziative internazionali degli Stati Uniti” per i due decenni successivi “hanno riguardato la politica e l’economia interna anziché il comportamento esterno degli altri paesi”, scrive Mandelbaum. “Il fulcro principale della politica estera americana si è spostato dalla guerra alla governance, da quel che gli altri governi facevano al di là dei loro confini, a quel che facevano e a come erano organizzati al loro interno” prosegue lo studioso, riferendosi alle operazioni americane in Somalia, Haiti, Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan e nei confronti della politica cinese dei diritti umani, della democratizzazione russa, dell’allargamento della Nato e del processo di pace israelo-palestinese. “Gli Stati Uniti dopo la Guerra Fredda sono diventati l’equivalente di una persona molto ricca, una specie di multimiliardario tra le nazioni”, sostiene l’autore. “Hanno abbandonato il regno della necessità nel quale sono vissuti durante la Guerra Fredda e sono entrati nel mondo delle possibilità. E hanno scelto di spendere una parte delle loro ampie riserve di potere nell’equivalente geopolitico dei beni di lusso; per rifare altri paesi”. In ognuno di questi casi, “gli Stati Uniti hanno cercato di modellare la governance interna dei paesi con i quali si sono impelagati in modo simile al loro ordine democratico costituzionale e a quello dei loro alleati occidentali”, aggiunge Mandelbaum. “Nel corso della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno puntato al contenimento; nel post-Guerra Fredda (il succo) era il cambiamento. La Guerra Fredda implicava la difesa dell’Occidente; la politica estera post-Guerra Fredda aspirava all’estensione politica e ideologica dell’Occidente”. Queste missioni, osserva lo studioso, sono tutte mirate “a convertire non semplici individui ma interi paesi”, e hanno tutte un’altra cose in comune: “hanno tutte fallito”.

Ovviamente, è fuori dubbio che gli Stati Uniti abbiano respinto diversi pessimi soggetti in Bosnia, Somalia, Kosovo, Iraq e Afghanistan e dopo in Libia. “Le missioni militari che gli Stati Uniti hanno intrapreso hanno avuto successo. Sono state le missioni politiche che sono seguite, gli sforzi per trasformare le politiche dei luoghi dove le forze armate americane hanno avuto la meglio, che sono fallite”. Perché? Per la semplice ragione che il successo politico non dipendeva dagli americani, non era nelle loro mani. Trasformazioni normative di questa natura possono avvenire solo dall’interno, dalla volontà dei soggetti locali di cambiare le abitudini assimilate da tempo, superare inimicizie antiche o restaurare tradizioni politiche perdute da tempo. In ciascuno di questi casi, sostiene Mandelbaum, il cambiamento politico “spettava a loro – e loro non erano in grado di produrlo”.

È una conclusione difficile da contestare, che però pone parecchie domande. Chi manterrà l’ordine in questi luoghi?, si è chiesto Thomas Friedman. In epoche storiche precedenti, il mondo poteva contare su poteri imperiali in grado di intervenire e controllare aree di debole governance, come hanno fatto gli Ottomani per 500 anni nel Medio Oriente. Poi ha contato sulle potenze coloniali. Poi per mantenere l’ordine ha scommesso su re, colonnelli e dittatori cresciuti in casa. Ma ora che siamo in un’epoca post-imperiale, post-coloniale e post-autoritaria, si chiede il columnist del New York Times, che si fa? I re, i colonnelli e i dittatori di un tempo non avevano a che fare con cittadini “potenziati” e continuamente connessi tra loro e con il mondo con gli smartphone. I vecchi autocrati avevano anche ampie risorse di petrolio o aiuti dalle superpotenze durante la Guerra Fredda per “persuadere” la loro gente. E se adesso hanno a che fare invece con l’incremento della popolazione, proventi del petrolio in diminuzione e non possono più “comprare” il consenso del loro popolo e neppure zittirlo?

Certo, c’è una sola opzione: più governo condiviso e un patto sociale tra cittadini eguali. Ma questo ci riporta alle argomentazioni di Mandelbaum: che succede se dipende da loro e loro non sono in grado di farlo, e il risultato è il crescente disordine e un numero sempre più grande di persone in fuga verso il mondo ordinato dell’Europa e del Nord America? Trovare un modo per aiutarli (a un costo che ci possiamo permettere) non sarà facile. Ma questa sarà una delle più grandi questioni di politica estera che il nuovo presidente americano dovrà affrontare. Assieme a noi, s’intende. Posto che quella cosa chiamata Unione europea, si decida a battere un colpo.

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GIORNALI2016

Formiche.net, 28 maggio 2016 – Perché difendo la riforma Renzi-Boschi della Costituzione

L’intervento di Alessandro Maran, senatore del Partito Democratico

Giorgio Napolitano, ospite domenica scorsa della trasmissione di Rai3 Che tempo che fa, è tornato a ribadire la sua posizione: “Ci vuole libertà per tutti, ma nessuno però può dire: io difendo la Costituzione votando no e gli altri non lo fanno. Dire questo offende anche me. Mi reca un’offesa profonda“.

L’antifascismo e la guerra partigiana non hanno nulla a che vedere con la riforma del Senato. “Ed è allora comprensibile, persino ovvio – ha scritto Il Foglio – che l’antifascista Napolitano, che sul patriottismo costituzionale ha imperniato la sua presidenza della Repubblica, ora si senta insultato, offeso, lui che le riforme le ha sempre sostenute, e da molto prima che Renzi nascesse (non solo politicamente)“. Specie se si considera, come ha scritto Pietro Ichino nella lettera aperta che ha indirizzato al presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia, che “il contenuto essenziale di questa riforma – dipendenza del Governo dalla fiducia della sola Camera dei Deputati e Senato come rappresentanza delle Autonomie locali – è quello che da decenni è stato indicato come necessario da numerosi grandi personaggi che hanno dato vita e voce alla democrazia nel nostro Paese, da Berlinguer a Zaccagnini, da Zanone a Ingrao, da Iotti a Pannella: potrai sostenere che il modo in cui questo mutamento essenziale è stato concretato nella legge di riforma è imperfetto, ma non che proporlo sia intrinsecamente contrario agli intendimenti fondamentali e immutabili della Carta“.

Non per caso, Giorgio Napolitano, intervenendo alla Scuola di politiche di Enrico Letta, è tornato sul punto citando la testimonianza di Giuseppe Dossetti. La “sindrome dell’ipergarantismo” che animò Dc e Pci durante l’Assemblea costituente all’indomani della rottura tra i due partiti legata all’inizio della guerra fredda, ha spiegato il Presidente emerito della Repubblica, generò “le due debolezze fatali della seconda parte della Costituzione repubblicana: la posizione di minorità dell’esecutivo nell’equilibrio dei poteri” e “il bicameralismo paritario su cui si cominciò a discutere il giorno stesso in cui terminarono i lavori dell’Assembela costituente“. In pratica, in vista delle elezioni del 1948, “di fronte al timore di perdere quella sfida, presente tanto nella Democrazia cristiana, quanto nella sinistra (comunisti e socialisti), scattò la sindrome di quello che Dossetti chiamò l’ipergarantismo. Sapendo che può vincere anche l’altro, bisogna garantirsi il più possibile che non abbia la possibilità di fare danni irreparabili“. La preoccupazione fu dunque quella di “garantirsi che non si determinassero situazioni in cui il vincitore potesse con poche cautele, con poche garanzie, esercitare il potere che gli avrebbe garantito il risultato elettorale“.

Nella dichiarazione di voto finale che ho svolto in aula al Senato nella seduta del 8 agosto 2014  ero partito, appunto, da qui: “È dalla scomparsa della divisione del mondo in due blocchi che il Muro ha simboleggiato – dunque, da almeno venticinque anni – che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Non è un mistero per nessuno, infatti, che fu voluto dalla Costituente un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne (…) e la presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari“.

Sul bicameralismo come strumento volutamente “di blocco” della decisione politica, rimando al volume “A colloquio con Dossetti e Lazzati” curato da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, il Mulino editore. Rimando anche alle pagine del programma di governo del PDS del 1994 riapparse su Facebook in questi giorni con la nota: “Ringraziamo il governo Renzi per aver attuato in larga parte il programma di governo del PDS del 1994“. Tanto per ricordare.

Formiche.net, 28 maggio 2016

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