Mentre, come vuole la tradizione, lunedì scorso, con la festa del Labor Day, è cominciato lo sprint finale della campagna presidenziale americana, Barack Obama sta completando il suo ultimo viaggio in Asia come presidente. Dopo aver partecipato al G20 in Cina, Obama è volato in Laos per incontrare i membri dell’Asean, l’associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico.
Uno degli scopi della visita del presidente americano è quello di rilanciare uno dei suoi progetti più importanti: il cosiddetto «pivot dell’Asia», l’idea, cioè, che sia l’Asia oggi il cuore delle dinamiche mondiali e che sia necessario riorientare la politica estera americana verso la regione Asia-Pacifico. Il «rebalancing», si basa sulla consapevolezza che gran parte della storia politica ed economica del XXI secolo verrà scritta nella regione Asia-Pacifico. E per beneficiare di questo spostamento nelle dinamiche geopolitiche globali e rivitalizzare la propria economia, gli Stati Uniti stanno costruendo con la regione vasti legami diplomatici, economici, nel campo della sicurezza, dello sviluppo e delle relazioni tra le persone.
Uno dei compiti degli Stati Uniti è, ovviamente, quello di prevenire il dominio cinese. Si tratta di un’impresa facilitata dalle recenti mosse espansionistiche di Pechino che, in modo particolare nel Mar cinese meridionale, hanno suscitato l’ostilità degli altri paesi asiatici. Ma la politica di Washington non è il contenimento. La Cina non è l’Unione sovietica, bensì il partner commerciale più importante per ogni paese asiatico. Ed il progetto americano punta a rafforzare quelle intese che hanno garantito per decenni la prosperità e la sicurezza della regione: dalla libertà di navigazione e del commercio alle istituzioni multilaterali e alla risoluzione pacifica delle dispute. Per questo, la Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio con undici paesi della regione, è la struttura portante del «pivot asiatico»: sostiene la crescita, puntella le alleanze degli Stati Uniti, manda un potente segnale alla Cina e, come si affanna a ripetere Obama, scrive le regole del XXI secolo, secondo criteri che sono sostanzialmente quelli occidentali.
Senza questa intesa, bisognerà aspettarsi che la Cina cominci a scrivere queste regole con criteri che saranno molto diversi dai nostri.
In altre parole, la strategia americana punta ad includere l’Europa (Ttip) e le altre democrazie asiatiche (Tpp) in un’alleanza anche economica grande abbastanza per imporre standard occidentali ad un sistema mondiale nel quale emergono nuovi poteri globali e regionali. E imporre alla Cina il rispetto di standard di non aggressività esterna e di ordine democratico interno non è solo un obiettivo morale; serve anche ad evitare che l’Impero di Mezzo finisca per implodere, con un impatto globale devastante.
Eppure, negli Stati Uniti, come ha scritto Fareed Zakaria, «il Tpp è sotto attacco da ogni parte. Bernie Sanders e Donald Trump lo contrastano ad ogni costo. Hillary Clinton e Paul Ryan hanno detto che non risponde più ai loro standard. Anche se non hanno spiegato quali siano questi standard e sebbene Robert Lawrence, dell’Harvard Kennedy School, abbia rilevato che, per lavoratori, i vantaggi del Tpp superano di gran lunga le perdite». Insomma, «Obama è sempre più solo in una Washington che trabocca populismo, protezionismo e isolazionismo». È così dappertutto, si dirà. E le barricate dell’Europa (indirizzata da leadership deboli che lisciano il pelo agli istinti anti-mercato) contro il Ttip, l’accordo commerciale transatlantico, ne sono l’esempio.
Eppure, solo se l’Europa e gli Stati Uniti saranno capaci di lavorare insieme per diffondere e far rispettare delle norme comuni in tutto il mondo, i servizi e le industrie americane ed europee potranno prosperare e garantire posti di lavoro ben pagati. Quando gli attuali focolai di crisi saranno solo un ricordo, il fenomeno più importante del nostro tempo rimarrà l’ascesa dell’Asia. Il negoziato transatlantico è forse l’ultima occasione politica per l’Occidente, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. Senza contare che l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica. Basterebbe ricordare il monito che due personalità molto diverse come John Kennedy e Richard Nixon, in momenti diversi, hanno rivolto agli europei: «Non possono avere entrambe le cose. Non possono avere la partecipazione e la cooperazione degli Stati Uniti nel campo della sicurezza e poi passare allo scontro e perfino all’ostilità sul terreno economico». Con l’aria che tira a Washington non sarebbe male tenerlo a mente.