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Washington come Montegrano. La democrazia in crisi e il ritorno su scala globale del familismo amorale – Linkiesta, 12 novembre 2021

Il mondo occidentale non è in difficoltà per colpa delle élite, come dicono i populisti. Nel suo ultimo libro Il nemico dentro”, Tom Nichols richiama la famosa ricerca sociologica di Banfield sulle dinamiche di un paesino della Basilicata, ai cui abitanti non importava della vita pubblica, e perciò erano incapaci di progredire economicamente e politicamente.

Se la democrazia liberale è in difficoltà, la colpa, sostengono i populisti illiberali, è delle élite: globalisti, burocrati, giornalisti, intellettuali, politici. Al contrario, scrive Tom Nichols, che quest’estate ha dato alle stampe “Our Own Worst Enemy” (pubblicato da Luiss University Press con il titolo “Il nemico dentro”), la più grande minaccia per la democrazia americana è rappresentata dal narcisismo e dal nichilismo della gente comune. In altre parole, il nostro peggior nemico siamo noi (e Fedez ce lo meritiamo).

Visto che oggi comincia il Linkiesta Festival “Contro il bipopulismo” (e la discesa in campo del rapper sembra imminente) non sarebbe male tenerlo a mente. Anche perché nel suo ultimo libro, l’autore del bestseller “La conoscenza e i suoi nemici”, ci ricorda – guarda caso, dopo una tornata elettorale caratterizzata dall’astensionismo più alto di sempre – che la democrazia liberale non si riduce al conteggio dei voti il giorno delle elezioni. È molto di più. Le scelte affidate alle urne riflettono i valori e le convinzioni delle persone che esprimono il voto. Ed il più delle volte, l’Election Day è meno importante di quel che succede in tutti i giorni che lo precedono. Se i cittadini si approcciano al voto con una concezione puramente egoistica del proprio interesse personale e priva di qualsiasi senso di responsabilità civica, la democrazia liberale non può durare a lungo.

Per spiegarlo, Nichols richiama l’esempio di Montegrano (e le tesi elaborate da Edward Banfield in un libro, “Le basi morali di una società arretrata”, che è diventato un classico della ricerca sociale e della scienza politica) che oggi, a suo avviso, dovrebbe suonare come un monito per i cittadini delle odierne democrazie, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Si tratta, ovviamente, della condizione di un luogo e di un tempo lontani, eppure, avverte Nichols, che è professore ad Harvard e ha insegnato al Naval War College, la vita di quel «paesino annidato tra i monti appena sopra la caviglia dello stivale dell’Italia negli anni ’50» ci appare oggi così familiare da destare una giustificata apprensione.

Montegrano (dietro cui si nasconde Chiaromonte, in Basilicata, alla metà degli anni ’50) era, ovviamente, un luogo pieno di persone simpatiche e accoglienti. Ma agli abitanti del paese della democrazia non importava nulla e non erano perciò in grado di far progredire il loro piccolo centro economicamente e politicamente. A loro importava moltissimo dei propri figli, ma pochissimo di quelli degli altri. E per lavorare in campagna erano più propensi ad affittare un mulo che a dare lavoro ai compaesani, anche se costava uguale.

Banfield coniò un termine ormai celebre per spiegare questo genere di disimpegno civico e l’arretratezza, o meglio la mancanza di reazione all’arretratezza, di Montegrano: il «familismo amorale». Avverso allo spirito di comunità, disposto a cooperare solo in vista di un proprio tornaconto, il familista amorale si comporta secondo una regola aurea: «Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo».

Una chiave interpretativa assai discussa, che si è dimostrata tuttavia di persistente efficacia nell’indicare i guasti provocati dalla cronica carenza di senso civico, al punto che l’espressione è diventata di uso corrente. Sarebbe, infatti, questa particolare etica dei rapporti familiari la causa dell’arretratezza.

Secondo Banfield, in una società di familisti amorali nessuno, ad esempio, perseguirà l’interesse comune, a meno che non riesca a trarne un vantaggio personale e chiunque affermerà di agire nell’interesse pubblico sarà ritenuto un truffatore. In un posto come Montegrano, osserva Banfield, valori diversi dal proprio tornaconto e di quello della famiglia sono perlopiù irrilevanti perché non c’è alcun collegamento «tra i principi astratti, politici o ideologici» e «il comportamento concreto quotidiano».

Perciò il voto verrà usato per assicurarsi vantaggi materiali di breve termine, più precisamente per ripagare vantaggi già ottenuti, non quelli semplicemente promessi; oppure il voto verrà usato per punire coloro da cui ci si sente danneggiati nei propri interessi, anche se quelli hanno agito per favorire l’interesse pubblico, e così via.

Non è un caso, osserva Nichols, che la versione più estrema di questo modo di pensare sia alla base della mentalità della mafia, nella quale il clan è più importante di ogni altra cosa. La celebre scena finale del “Padrino – Parte II” (del 1974), scritto da Mario Puzo e da Francis Ford Coppola, entrambi italo-americani discendenti da famiglie di immigrati, offre infatti un ritratto eccellente del «familismo amorale».

La scena è ambientata nel 1941 e il figlio più giovane della famiglia mafiosa Corleone, Michael, sta parlando con suo fratello maggiore Sonny dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Sonny non è un codardo e anzi esibisce spesso un grande coraggio fisico, ma pensa che gli uomini che affollano i centri di reclutamento militare siano dei «fessi». Michael, nato e cresciuto negli Stati Uniti, chiede a Sonny perché la pensi così. «Sono fessi perché rischiano la loro vita per degli estranei», risponde Sonny. Quando Michael dice che stanno rischiando la vita per il loro paese, Sonny replica: «Il tuo paese non è il tuo sangue. Ricordalo». Quando poi Michael rivela che ha lasciato Dartmouth e si è arruolato nei Marines, Sonny è così arrabbiato che lo aggredisce.

Ovviamente, in quegli anni, Banfield non vide nel paese italiano molte somiglianze con gli Stati Uniti. Al contrario, mise a confronto Montegrano con St. George, una comunità dello Utah, dove quelle relazioni civiche tra le persone che gli studiosi definiscono «capitale sociale», che costituiscono delle riserve di fiducia e di buona volontà che permettono ai cittadini non solo di crescere insieme ma anche di sopportare gli inevitabili tempi di magra senza rivoltarsi l’uno contro l’altro, erano all’ordine del giorno, dalla Croce Rossa allo sportello per gli agricoltori. Il contrasto, in quel tempo, era impressionante. Inoltre, la maggior parte delle associazioni (dalle associazioni benefiche e di categoria, ai consigli scolastici e alla Camera di commercio) e dei comportamenti di St. George sarebbero stati familiari a chiunque fosse cresciuto in qualunque comunità americana della seconda metà del XX secolo.

Montegrano, invece, di associazioni non ne aveva nessuna. Perfino la chiesa e le funzioni religiose, in un paese teoricamente cattolico, erano perlopiù ignorate, fatta eccezione per un piccolo gruppo di donne e qualche uomo che rimaneva in piedi accanto al portone d’ingresso. I giornali li leggevano in pochissimi. E l’unica associazione del paese era costituita da un club i cui membri (25 uomini «facoltosi») chiacchieravano e giocavano a carte.

Non c’erano, del resto, organizzazioni di volontariato sociale a Montegrano. Un ordine di suore faticava a mantenere un orfanotrofio per bambine in quel che restava di un antico monastero, ma la gente di Montegrano non contribuiva in nessun modo al suo sostegno, sebbene le bambine venissero dalle famiglie del luogo. Non c’era abbastanza cibo per le bambine, ma nessun contadino o proprietario terriero ha mai donato un maialino all’orfanotrofio.

Il dottore, sebbene avesse chiesto al governo di aprire un ospedale, non ha mai allestito una sala di emergenza o attrezzato il suo ufficio. Il farmacista offriva un servizio minimo a prezzi estremamente alti.

Nessuno a Montegrano era particolarmente animato verso il bene comune e per molti l’idea stessa di senso civico era incomprensibile. Il maestro del paese era perfino più schietto (e disperato): «Non ho trovato nessuno interessato al benessere comune. Al contrario, so che c’è una tremenda invidia sia dei soldi che dell’ingegno».

Oggi però, questo terribile scenario sembra familiare anche agli americani, scrive Nichols. Il crollo della fiducia nelle istituzioni e nella politica è una realtà ben conosciuta negli Stati Uniti. Gli elettori americani, che si classificano tra i meno attivi del mondo, hanno cessato da tempo di avere fiducia nelle istituzioni di governo e molti americani sono arrivati a credere che queste istituzioni e le élite che le abitano, siano ostili alle persone comuni.

Le molte associazioni civiche e benefiche del Paese, i corpi intermedi che forniscono le basi sociali al governo democratico, stanno declinando in numero e attività in modo impressionante. I livelli di fiducia in ogni cosa e in ognuno (ad eccezione delle forze armate, il che, in democrazia, dovrebbe essere un campanello d’allarme), sono caduti al minimo storico.

Al giorno d’oggi, candidarsi alle elezioni in America significa tirarsi addosso lo stesso discredito che si otteneva in Italia negli anni ’50. Gli americani hanno sempre una montagna di scuse per il loro cinismo. È troppo difficile votare; i ricchi diventano sempre più ricchi; in ogni caso non conta nulla. Gli italiani di allora (come quelli di oggi, ovviamente) avevano pronte le stesse scuse.

Certo che la gente disprezzava le autorità, erano le élite a mantenerla in povertà. Certo che la gente non si fidava della chiesa cattolica, frati e preti avevano accumulato terre, ricchezza e potere nelle loro mani per secoli. Certo che la comunità non voleva saperne della politica, non molti anni prima, quegli sbruffoni dei fascisti si erano gettati in una guerra folle che aveva devastato il paese. Ma secondo Banfield, queste spiegazioni non spiegavano molto.

Banfield osservò in modo caustico, ad esempio, che l’abitante tipico del paese usava la sua povertà come scusa per non fare quello che non avrebbe fatto comunque. Nessuno degli abitanti di Montegrano faceva niente per il paese, neppure per l’orfanotrofio, i cui muri stavano crollando in testa alle bambine che vi erano ospitate. Nessuno dei tanti muratori semi-disoccupati aveva mai dedicato una giornata del suo tempo per ripararli, osservava Banfield, nonostante non ci fosse un uomo a Montegrano che non potesse dedicare parte del suo tempo a qualche progetto della comunità senza rimetterci nulla.

Si dirà che sono gli italiani ad essere fatti così. Eppure, spiega Nichols, oggi le democrazie, e perfino gli Stati Uniti che una volta sembravano di un altro pianeta, somigliano sempre di più a quel paese dell’Italia meridionale di tanto tempo fa. Per questo la storia di Montegrano è un campanello d’allarme: potrebbe essere il futuro americano.

Ad esempio, molti americani, racconta Nichols, ritengono che il principale difetto del sistema politico degli Stati Uniti derivi da un mix composto dall’incompetenza degli elettori e dai fallimenti morali dei politici votati da quegli stessi elettori. Nichols riporta uno studio realizzato anni fa da due professori dell’Università del Nebraska che ha scoperto che quasi metà degli intervistati dei focus group nazionali «riteneva che il paese starebbe molto meglio se fossero i politici e non la gente a decidere delle questioni politiche». E a sconcertare i ricercatori era il numero elevato dei partecipanti ai focus group convinti «che gli americani generalmente non avessero il tempo, la motivazione, l’inclinazione, la conoscenza e neppure l’intelligenza necessaria per aggiornarsi sulle questioni politiche del momento, a meno che queste questioni non fossero di importanza vitale per la singola persona».

Erano, infatti, «molto rare le voci che ritenevano che il popolo americano fosse disposto ad assumersi la responsabilità di decidere riguardo a questioni politiche difficili». E tuttavia, fino al 40% degli intervistati, credeva che «le soluzioni di buon senso ai problemi del paese fossero lì pronte per essere usate» e che la principale ragione per cui queste soluzioni ovvie non venivano utilizzate era perché «i politici sono corrotti o egoisti o dediti a faide partitiche inutili».

Nessun contadino italiano degli anni ’50 avrebbe descritto meglio questa situazione senza via d’uscita. Gli elettori sperano che, in un modo o nell’altro, si facciano avanti dei leader in grado di «mettere da parte i politici codardi e gli interessi particolari» e di «portare a termine le scelte attese da tempo»; eppure, il motivo per il quale non riescono mai a trovare queste creature leggendarie, simili agli «unicorni», non viene mai analizzato.

Si, certo, gli americani sono in genere gente motivata, che lavora sodo; non invidiano il successo, cercando di emularlo. «Crediamo nel merito e nel talento e incoraggiamo chiunque a fare del proprio meglio», scrive Nichols. Niente a che fare con gli abitanti del paesello italiano degli anni ’50 «che tramano e alimentano risentimento l’uno con l’altro». E tuttavia va detto che il dipinto che raffigura una delle «quattro libertà», ispirate al famoso discorso di Franklin D. Roosevelt che Norman Rockwell ha realizzato durante la seconda guerra mondiale, l’immagine, con la quale sono cresciute generazioni di americani, dell’uomo comune che prende la parola nel corso di incontro contando sull’attenzione dei suoi concittadini, è il ritratto di un’epoca passata.

Sono ormai decenni che negli Stati Uniti gli elettori annebbiati dalla televisione stanno cercando celebrità, gladiatori, non governanti. Nel 2016, il New York Times ha riportato l’opinione di un elettore della California che ha detto di preferire di gran lunga Trump alla Clinton. Non condivideva alcune delle politiche di Trump, ma aveva guardato «The Apprentice» e si aspettava, con Trump, una presidenza più elettrizzante di una «barbosa» amministrazione Clinton: «Il lato oscuro dentro di me vuole vedere che cosa succede con Trump (…) È come un reality televisivo. Non vuoi vedere tutti felici l’uno con l’altro. Vuoi vedere qualcuno che combatte».

Insomma, le politiche non contano. A contare davvero, per l’elettore californiano, era che Trump fosse una star televisiva e che Clinton fosse «pallosa». Gli abitanti di Montegrano non ci avrebbero visto nulla di strano. Per una mentalità transazionale e centrata unicamente sul proprio tornaconto, i politici sono del tutto indistinguibili.

Eccezion fatta per la loro personalità (la piattaforma che presentano è ovviamente irrilevante). L’unica cosa che importa, è fare in modo che il candidato faccia le cose che vuoi tu, o impedirgli di fare cose che «altre» persone potrebbero volere.

Va da sé che l’interesse personale è il (normale) motore del comportamento umano di ogni giorno, e non c’è niente di sbagliato. Anche perché tutti dobbiamo pagare le bollette. La politica ha sempre a che fare con «chi ottiene qualcosa, quando e come» e le diverse culture e società risolvono il problema in modo diverso. Ma quando non c’è nient’altro oltre al mero interesse egoistico, la democrazia liberale è impossibile. Specialmente se il nostro «interesse» include la gratificazione psichica di sconfiggere le tribù nemiche per spartirsi il bottino. Senza la basilare convinzione che il bene della famiglia e della società sono intrecciati e si rafforzano reciprocamente, le istituzioni democratiche diventano vulnerabili e i valori democratici una seccatura.

Ma in questo modo, quando avremo bisogno di queste istituzioni e di questi valori – specialmente quando i nostri diritti saranno minacciati – ci troveremo da soli ad affrontare la muta di sciacalli che si sarà radunata contro di noi, senza nessuna possibilità di rivolgerci alla legge o di ricorrere alle urne. Del resto, è bastato l’arrivo della pandemia per costringere gli americani (e tutti noi) a chiedersi se l’interesse personale si sia trasformato in un pericoloso egocentrismo.

Si sa che quando la democrazia arriva per la prima volta in un posto come Montegrano, dove la gente è povera e la vita è dura, le probabilità che possa attecchire non sono molte. La democrazia è un sistema che deve contare su una cooperazione continua e faticherà sempre alle prese con gli imperativi della sopravvivenza. In circostanze difficili, la gente farà ciò che è meglio per se stessa, poco interessata alle nobili astrazioni della politica, anche se ciò, paradossalmente, la manterrà in miseria. Come è successo a Montegrano.

Banfield, va ricordato, non stava cercando di spiegare la democrazia, stava cercando di spiegare la povertà. Ma, per la democrazia, una cosa è affrontare le difficoltà a mettere radici in un posto come Montegrano, ed è un’altra cosa deperire dove funziona da tempo ed è fiorita per secoli tra persone istruite e benestanti.

Gli americani si stanno rinchiudendo in se stessi non perché sono poveri o preoccupati che i loro figli possano finire in qualche orfanotrofio. Al contrario, gli americani stanno regredendo alla mentalità di paese perché sono liberi dalle preoccupazioni materiali, hanno una visione materialistica della vita e sono ossessionati da se stessi. Per quel che riguarda la sfera pubblica, scrive Nichols, «sono ispirati non dagli esempi di virtù, ma dalla celebrità. Sono motivati a competere l’uno con l’altro non perché stanno lottando per gli avanzi ma perché vantano i loro diritti. E insistono sui loro diritti non per una questione di principio ma come un mezzo per conculcare i diritti degli altri. L’America sta diventando Montegrano, ma con automobili migliori, aria condizionata a buon prezzo, Internet, e 200 canali televisivi via cavo». Forse Montegrano non ha mai avuto una chance. Ma il resto di noi, insiste Nichols, che scusa ha?

Il libro di Nichols si conclude con alcune «modeste proposte». E la prima è quella di rendere più forti i partiti politici. Ai più, l’esaltazione dell’importanza dei partiti politici, al giorno d’oggi, sembrerà un ragionamento controintuitivo, al limite della follia. Ma il fatto è che i partiti sono diventati semplici strumenti o brand per imprenditori politici e gruppi di interesse. E al contrario, quando esercitano un controllo sui candidati ed i programmi, i partiti sono una garanzia che le elezioni non degenerino in coalizioni temporanee di cittadini arrabbiati che si mettono insieme solo per il tempo necessario per sconfiggere una qualche altra coalizione temporanea di cittadini arrabbiati per poi dividersi di nuovo.

I partiti devono tornare ad essere organizzazioni che accolgono tutti ma che restano fondate su principi identificabili. Nel 2020, racconta Nichols, negli Stati Uniti il Partito repubblicano non si è neppure curato di presentare una piattaforma programmatica, ma ha affermato semplicemente che quel che voleva Trump avrebbe costituito il programma del partito. Eppure i partiti una volta significavano qualcosa e possono significare qualcosa di nuovo. Anche George Packer nel suo ultimo libro, “Last Best Hope”, avanza proposte simili (in America è in corso una discussione interessante sulla crisi della democrazia e i possibili rimedi) e, ad esempio, sostiene che bisogna ripartire dal sindacato.

Le organizzazioni dei lavoratori dell’industria potevano bilanciare il potere dei trust e portare le masse di immigrati ad esercitare la cittadinanza. Poiché solo attraverso il sindacato il lavoratore salariato può partecipare al controllo dell’industria e solo attraverso il sindacato può sviluppare la disciplina necessaria all’auto-governo.

«Un ingranaggio della macchina, privato dell’ultima oncia di libero arbitrio, non può acquisire le abitudini e le competenze – negoziare, cooperare, decidere – di cui hanno bisogno i cittadini per realizzare compiutamente le loro potenzialità. Valeva un secolo fa per la Steel Trust, con la sua timbratura dei cartellini, e vale oggi per Amazon, con i suoi algoritmi di programmazione», scrive Packer.

Insomma, per difendere la democrazia facendo risorgere le virtù dell’altruismo, del compromesso, della cooperazione, riconoscendo quel che di buono c’è nel mondo moderno, forse bisogna partire da qui. Forse, per prima cosa, bisognerà trovare il modo di riattivare quelle agenzie educative che un tempo costruivano con più efficacia la cittadinanza democratica.

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