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Medio Oriente: tra guerra infinita e rinascita diplomatica – Il Riformista, 17 maggio 2020

Da giorni, tra Hamas e Israele è (di nuovo) guerra aperta.

Su Deutsche Welle, gli aggiornamenti in diretta hanno mostrato con grande efficacia, secondo la successione temporale, come le polemiche sullo sfratto delle famiglie palestinesi a Gerusalemme Est (dopo una sentenza di tribunale che però è stata impugnata e al momento è discussa davanti alla Corte Suprema), siano sfociate in manifestazioni nel quartiere Sheikh Jarrah, violenti scontri tra la polizia israeliana e i palestinesi sulla Spianata delle Moschee, fuori e dentro la moschea di al Aqsa, fino al lancio di razzi su Gerusalemme da parte di Hamas e alla risposta israeliana con attacchi aerei nella Striscia di Gaza.

Le principali potenze dell’area non hanno accolto con favore il riacutizzarsi del conflitto. Come ha scritto Tom Friedman, il celebre columnist del New York Times, i paesi arabi preferirebbero di gran lunga fare affari con Israele sotto l’ombrello protettivo dei nuovi accordi sulla piena normalizzazione dei rapporti diplomatici promossi l’anno scorso da Donald Trump. Ma questi accordi si basavano sull’idea che la causa palestinese fosse «la notizia di ieri» e invece «i titoli di oggi dimostrano quanto quell’idea fosse sbagliata». Rimettersi a fare opera di mediazione per appianare il nuovo conflitto israelo-palestinese, è «l’ultima cosa» che passa per la testa anche all’amministrazione americana di Joe Biden, dato che «il suo principale obiettivo nella regione è quello di rilanciare l’accordo nucleare con l’Iran, che sta già causando enormi tensioni con Israele».

Resta però il fatto che, come ha osservato Shlomo Ben-Ami su Project Syndicate, gli scontri della scorsa settimana hanno infranto le speranze di Israele e dei paesi arabi di poter semplicemente lasciarsi alle spalle le richieste palestinesi di statualità e pari diritti.

Secondo Ben-Ami il nazionalismo palestinese sopravvive e «Israele non può certo cantare vittoria» dopo il bombardamento aereo delle posizioni di Hamas a Gaza. «La fragile convivenza tra ebrei e arabi all’interno dei suoi confini è stata scossa. Il consenso prevalente tra gli israeliani sul fatto che il nazionalismo palestinese fosse stato sconfitto (e che quindi una soluzione politica al conflitto non fosse più necessaria) è andato in frantumi. E anche se la violenza aumenta, è diventato chiaro per entrambe le parti che l’era delle guerre e delle vittorie gloriose è finita».

Su Foreign Policy, Yousef Munayyer rileva, tuttavia, che le speranze di una soluzione a due Stati sono state ulteriormente deluse, in quanto la violenza di questa settimana chiarisce, una volta di più, che israeliani e palestinesi sono costretti a convivere in un unico luogo alle prese con problemi profondi e intrattabili.

Eppure, per quanto le recenti violenze tra israeliani e palestinesi siano preoccupanti, sul Washington Post, David Ignatius riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno e si sofferma su una tendenza incoraggiante per il resto del Medio Oriente. Gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Turchia sembrano aver aperto canali diplomatici nella regione e stanno mostrando meno entusiasmo per le guerre per procura e l’avventurismo militare, scrive Ignatius, che sottolinea, in particolare, i progressi verso un accordo in Yemen tra le fazioni sostenute dall’Iran e quelle sostenute dall’Arabia Saudita.

Ignatius scrive che, a ben guardare, il ritiro degli Stati Uniti dal Medio Oriente ha spinto i paesi a prendere le distanze dal militarismo e a guardare al loro interno. «Forse stiamo assistendo ad una versione mediorientale del motto del Presidente Biden secondo il quale la migliore politica estera è quella di ‘build back better’ a casa propria. Se è così, si tratta di una gradita rivelazione» scrive Ignatius. «Queste nazioni stanno ora cercando di disinnescare le tensioni e ricostruire le loro economie dopo la pandemia». Incrociamo le dita.

Alessandro Maran

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