Alle prese con il virus, anche la Germania se la passa male. Lo Spiegel ha parlato addirittura di «un paese a pezzi». Lodata per la sua risposta iniziale al Covid-19, inconfondibilmente equilibrata, organizzata e basata sulla scienza, da allora la Germania ha penato per i contrasti sulle misure di lockdown e gli approcci contraddittori e spesso inconciliabili adottati dai leader dei diversi Länder. Il tutto, come ha recentemente ha spiegato la corrispondente del New York Times da Berlino, Melissa Eddy, nel corso della trasmissione Gps (Global Public Square) sulla CNN, in un contesto caratterizzato dalla pressione politica di un anno elettorale.
Il conflitto è proseguito nelle ultime settimane. E mentre la polizia usava spray al peperoncino per disperdere una protesta davanti al Bundestag, i parlamentari approvavano il «freno d’emergenza» voluto dal governo di Angela Merkel, una serie di misure restrittive uniformi per tutto il territorio nazionale nelle aree in cui maggiore è il rischio di contagio, che scattano quando in un determinato distretto si registra un’incidenza settimanale superiore ai 100 casi per 100.000 abitanti per tre giorni consecutivi.
Il bello è che, nel frattempo, la Serbia è diventata un inaspettato «hub» europeo per i vaccini.
«C’è un paese in Europa i cui cittadini possono scegliere liberamente quale vaccino contro il Covid-19 vogliono ricevere, sia che si tratti del Pfizer-BioNTech o di AstraZeneca realizzati in Occidente, sia che si tratti del cinese Sinopharm o del russo Sputnik V», ha scritto Nikola Mikovic su The Interpreter, il blog del Lowy Institute.
«La Serbia – una nazione senza sbocco sul mare dell’Europa sudorientale – è diventata inaspettatamente, al culmine della ‘diplomazia dei vaccini’ contro il Covid-19, un centro di vaccinazione regionale. Alla fine di marzo, migliaia di persone provenienti dai paesi vicini, tra cui, tra gli altri, la Macedonia del Nord, il Montenegro e la Bosnia-Erzegovina si sono recati in Serbia per ottenere una inoculazione contro il Covid-19. Ci sono state anche segnalazioni a proposito di un’agenzia di viaggi turca che avrebbe promosso il ‘turismo vaccinale’ con pacchetti a partire da 700 euro, per coloro che desideravano volare a Belgrado per ricevere un vaccino Pfizer».
La Serbia non è membro né dell’Unione europea né dell’OCSE, il club di 37 paesi, prevalentemente ricchi, che comprende gran parte del continente. Sul Financial Times, Valerie Hopkins, la corrispondente per l’Europa sud-orientale del quotidiano inglese, ha scritto che «parecchi nella regione ora vedono il buon esito della campagna vaccinale serba con gratitudine. Ma c’è anche frustrazione poiché hanno dovuto fare affidamento su Belgrado piuttosto che sui loro governi o sulla UE». Questo successo «richiama alla memoria» la posizione di Belgrado come cerniera non allineata tra l’Est sovietico e l’Ovest democratico, quando, scrive Hopkins, la città era capitale della Jugoslavia durante la guerra fredda. Ora, sta donando dosi al vicino Montenegro e alla Macedonia del Nord, mettendo in discussione, insiste Hopkins, il soft power dell’Unione europea ai tempi del Covid-19.
Del resto, sull’American Purpose, Josef Joffe, che è stato publisher-editor del settimanale tedesco Die Zeit, mette insieme i problemi della Germania con quelli della UE. La Germania è nota per la sua efficienza e la sua organizzazione, ma il Covid-19 ha evidenziato il fatto che buona parte dell’autorità è devoluta agli stati; e rispetto al Regno Unito e agli Stati Uniti, sostiene Joffe, la Germania e l’Unione europea hanno sofferto per la loro riluttanza ad accettare un controllo centralizzato.
Alessandro Maran