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Quale sarà l’approccio di Biden con la Cina? – Il Riformista, 3 dicembre 2020

Il rapporto con Pechino è sicuramente il problema (geopolitico ed economico) più grande che dovrà affrontare la nuova amministrazione americana.

Prima di Donald Trump, i presidenti americani guardavano alla Cina perlopiù con fiducia. Barack Obama, Bill Clinton ed anche i due George Bush hanno cercato di integrare la Cina nell’economia e nel sistema politico globale. Così facendo, pensavano, avrebbero persuaso la Cina ad accettare le norme internazionali e a diventare più democratica.

Ma quella strategia è sostanzialmente fallita. La Cina ha usato l’accesso ai mercati mondiali per arricchirsi alle loro spalle; ha rifiutato molte delle regole internazionali (ad esempio, quelle sulla proprietà intellettuale) e, al tempo stesso, è diventata più autoritaria al proprio interno. Inoltre, come ha raccontato di recente il New York Times, la Cina ha adottato «politiche sempre più aggressive e a volte punitive», per costringere i paesi «a uniformarsi alle sue regole».

Trump non è certo un grande studioso di affari esteri, ma indiscutibilmente ha compreso appieno le ambizioni della Cina, che evidentemente ai suoi predecessori erano sfuggite; e l’ha trattata per quello che quasi certamente è: la minaccia più seria per l’America dai tempi dell’Unione sovietica.

Piuttosto, agli occhi di molti esperti e diplomatici, la politica di Trump nei confronti della Cina ha un altro difetto. Anziché costruire una coalizione con il Giappone, l’Europa, l’Australia e gli altri, si è inimicato gli alleati che sono anch’essi molto preoccupati per l’ascesa della Cina. Al punto che, come ha scritto Keyu Jin, un economista cinese della London School of Economics, Trump si è rivelato una sorta di «regalo strategico» per la Cina.

Tra non molto, sarà il turno di Joe Biden (che pochi giorni fa ha presentato la squadra che si occuperà di politica estera) e dovrà dimostrare di riuscire a gestire il rapporto con la Cina più efficacemente di quanto abbiano fatto i presidenti americani che lo hanno preceduto.

È probabile che la sua amministrazione adotti un approccio diverso nei confronti della Cina e anche su parecchie altre questioni. Ad esempio, per quel che riguarda il cambiamento climatico e l’assistenza sanitaria, Biden cercherà sicuramente di invertire la rotta rispetto alle politiche del presidente americano uscente. Sulla Cina, Biden sembra invece pronto ad accettare la diagnosi di base di Trump, ma anche a battersi per trovare una terapia più efficace. La critica del team di Biden in merito all’attuale politica nei confronti della Cina riguarda «più i mezzi che i fini», ha scritto Walter Russell Mead in un recente intervento sul Wall Street Journal.

Biden ed i suoi collaboratori hanno fatto sapere che non torneranno alle politiche utopistiche e irrealizzabili del periodo precedente a Trump (anche se molte di esse hanno contraddistinto la politica dell’amministrazione Obama). «Gli Stati Uniti devono diventare severi con la Cina», ha scritto Biden su Foreign Affairs, il celebre magazine americano, nel gennaio scorso.

Per farlo, useranno la diplomazia. Anthony Blinken, la persona scelta da Biden come segretario di Stato, ha detto quest’estate: «Siamo in competizione con la Cina… Dobbiamo riprenderci i nostri alleanti invece di allontanarli, proprio per affrontare alcune delle sfide che pone la Cina». Jake Sullivan, il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto (in collaborazione con lo storico Hal Brands) che il modo migliore per tenere a freno le ambizioni da superpotenza della Cina e mantenere l’influenza americana è quello «interrompere» l’attuale tendenza autolesionista.

Insomma, Biden eviterà i toni ostili di Trump (a cominciare dalle cadute di stile a sfondo razziale a proposito del Covid-19), ma cambierà registro anche rispetto alla retorica dell’era Obama che metteva in rilievo la cooperazione sino-americana. Uno dei risultati dell’amministrazione Trump, come ha fatto notare l’Economist, è stato proprio quello «di riconoscere la minaccia autoritaria proveniente dalla Cina», ora «il compito dell’amministrazione Biden sarà quello di capire come porvi rimedio». Il che dovrebbe includere un ritorno al multilateralismo, suggerisce il magazine inglese, che consiglia a Biden di radunare una sorta di G7 delle democrazie per stabilire norme e regole internazionali per quel che riguarda l’Intelligenza artificiale, il 5G, il riconoscimento facciale, il calcolo quantistico, in modo da evitare che sia l’autoritaria Pechino a stabilire come si devono usare.

A proposito delle persone che faranno parte del team che si occuperà di politica estera, Biden ha detto: «Incarnano la mia convinzione di fondo che gli Stati Uniti sono più forti se collaborano con gli alleati». In termini concreti, per gli Stati Uniti, ciò potrebbe significare concludere un maggior numero di accordi in merito alla restrizione dell’uso della tecnologia cinese, come Huawei; e creare nuove alleanze economiche (in modo da investire nei paesi in via di sviluppo solo se questi acconsentono al rispetto della proprietà intellettuale e dei diritti umani), cercando nel frattempo di isolare la Cina.

Più in generale, l’obiettivo di Biden è quello di convincere gli altri paesi che gli Stati Uniti non faranno più tutto da soli. Intanto, Michael Green del Center for Strategic and International Studies ha detto al New York Times che la «narrazione» prevalente in Asia è che l’America è ormai fuori dai giochi; e sempre sul Times un funzionario cinese ha scritto della possibilità di una «competizione cooperativa». Insomma, il «Grande gioco» è cominciato.

Alessandro Maran

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