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L’elefante nella stanza della politica viennese: un terzo della popolazione in età di voto non può votare.

Nei giorni scorsi, il presidente francese Emmanuel Macron ed il cancelliere austriaco Sebastian Kurz si sono incontrati a Parigi per pianificare nuove strategie europee per «affrontare l’estremismo islamista», in un vertice antiterrorismo che si è trasformato in un summit digitale con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ed altri importanti leader europei (l’esclusione di Italia, Spagna e Grecia ha fatto, ovviamente, discutere).

Dopo la recente ondata di attentati che ha scosso nuovamente l’Europa, Macron ha chiesto un salto di qualità europeo nella lotta al terrorismo islamico e nuove modalità comuni di reazione e di prevenzione: dalla formazione di imam europei fino alla revisione del trattato di Schengen (in modo di non avere «buchi» nella gestione dei confini esterni), passando per la condivisione delle informazioni che circolano attraverso i social network e le app di messaggistica. Dalle pagine del Corriere, il viceministro francese Beaune (Affari europei) ha sollecitato: «Più controlli alle frontiere esterne. Condivisione di informazioni e di banche dati. Maggiore collaborazione tra le polizie. Solidarietà per aiutare i Paesi di primo arrivo come l’Italia. Un Consiglio per la sicurezza che riunisca i ministro dell’Interno, come l’Ecofin per quelli delle Finanze».

Su Limes, Federico Petroni ha fatto anche notare che Francia e Austria sono due tra i paesi d’Europa dall’approccio «più duro» nei confronti dell’influenza straniera sulle loro comunità musulmane: «Entrambi cercano di ridurre i finanziamenti dall’estero a moschee e predicatori; Vienna dal 2016 ha messo fuori legge gli imam espressi da paesi terzi. Nel 2019 l’Austria è stato il terzo paese d’Europa per arresti di sospetti jihadisti (il primo è la Francia). Le autorità hanno individuato più di 300 persone che sono andate in Mesopotamia a combattere per l’Is o che volevano farlo (94 hanno fatto ritorno in patria)». Petroni ha sottolineato, inoltre, che la posizione di cerniera dell’Austria fra il cuore del Vecchio Continente e la penisola balcanica «la rende un formidabile snodo per traffici di ogni sorta e per filiere jihadiste, connesse soprattutto alla Bosnia-Erzegovina»; che le origini macedoni dell’attentatore «non sono evidentemente un fatto isolato. Aggiungeranno urgenza alle preoccupazioni europee nei confronti dei Balcani, in particolare a quelle della Germania»; e che «è ricorrente nel pensiero strategico tedesco vedere la periferia Sud-Est del continente come questione principale della sicurezza continentale. Nel 2015 Angela Merkel aprì i confini al milione di rifugiati anche per evitare che questi facessero collassare gli Stati della penisola, riattivando vecchie e mai sopite faglie. Il principe di Metternich sosteneva che i Balcani cominciassero al Rennweg, arteria subito a sud del centro di Vienna. L’attentato di ieri sera lo ribadisce. Anche nella testa della Germania».

Infatti, il ventenne nato a Vienna, autore del primo attentato jihadista in Austria, è anche il primo attentatore jihadista in Europa di origine balcanica, almeno dal 2015 in avanti. Dato che Vienna finora si era risparmiata le esperienze di Parigi, Bruxelles, Londra e Berlino, si era tentati di ritenere la città «immune dai pericoli», ha scritto Simon Garnett sul magazine online di Eurozine, il network di riviste culturali europee (collega oltre novanta pubblicazioni e istituzioni di quasi tutti i paesi europei) e che ha sede proprio a Vienna. «In parte perché lo Stato Islamico aveva considerato l’Austria come un rifugio sicuro piuttosto che come un obiettivo. In parte, per una certa riluttanza a esaminare le cose troppo attentamente».

Ma «era solo questione di tempo». Con un terzo della popolazione austriaca in età di voto esclusa dal diritto di elettorato attivo e passivo a causa della nazionalità (mezzo milione di persone), il senior editor di Eurozine scrive che «un’intera generazione è entrata nell’età adulta senza diritti».

«Sono la nuova classe operaia. Anche le migliori intenzioni di un governo socialdemocratico autenticamente illuminato non possono cambiare il fatto che, per tutta la vita, questa generazione rimarrà l’oggetto passivo del processo decisionale. Il terzo escluso è l’elefante nel salotto della politica viennese. La soluzione del problema richiederebbe una maggioranza parlamentare di due terzi necessaria per le modifiche costituzionali. E poiché nessuno dei partiti ha nulla da guadagnare dall’estensione del diritto di voto (le cui conseguenze sarebbero imprevedibili), ignorano la questione in attesa di tempi migliori». Ovviamente, sostiene Garnett nell’editoriale, «questo non significa che la radicalizzazione islamista sia il risultato diretto dell’esclusione dalla democrazia rappresentativa» o «che la legge elettorale austriaca abbia a che fare con gli eventi del 2 novembre». «Ma è un esempio di come la tendenza a far finta di niente permetta il formarsi, all’interno della popolazione, di compartimenti stagni di cui si parla solo quando questi finiscono periodicamente dal lato sbagliato delle misure di ‘integrazione’. A Vienna, ma non solo, ovviamente. Per gli interessati, è motivo di umiliazione e di risentimento».

È irrealistico, conclude Garnett, pensare che le ultime atrocità provocheranno un cambiamento repentino.

Giustamente, la reazione immediata dovrà cercare di smascherare i collegamenti e le reti dietro agli attacchi terroristici e individuare le falle nella sicurezza. Tuttavia, sebbene le politiche che riguardano il voto non possono essere ritenute responsabili di un atto terroristico, Garnett esorta l’Austria a chiedersi «in che misura c’è simpatia per questo genere di azioni e perché esiste. L’alternativa è continuare a credere che ‘qui non potrebbe mai accadere’». Ovviamente, vale per molti paesi europei.

Alessandro Maran

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