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IL MONDO È CAMBIATO. E LA “DIPLOMAZIA DEL GALLEGGIAMENTO” NON BASTA PIÙ – Quaderno 13/2020 della Fondazione PER, 26 settembre 2020

La politica estera non sembra rientrare tra preoccupazioni del governo. A ben guardare, l’Italia sembra aver ormai rinunciato ad avere un ruolo di primo piano. L’atteggiamento rinunciatario degli ultimi governi dipende probabilmente dal fatto che i nostri leader politici sanno benissimo che non riuscirebbero a giustificare agli elettori niente di più di una «diplomazia di galleggiamento» (così l’ha chiamata Daniele Raineri).

Larte del meno peggio non è riformismo

E visto che non siamo disposti ad investire e ad assumere rischi, la nostra non può che essere la politica estera di un paese di seconda fila. Perciò il governo è perlopiù inerte, passivo (consacrato, verrebbe da dire, all’arte del meno peggio), e si limita a stendere qualche comunicato ampolloso. La Libia è un esempio evidente.

Ma l’arte del meno peggio, anche in questo caso, non ha molto a che fare con il riformismo. Anche perché non possiamo far finta che «gli altri» non esistano. La politica estera viene, infatti, prima di ogni altra cosa. Se si sbagliano la politica economica o la politica interna si rischiano, certo, il conflitto sociale, la disoccupazione (e la miseria); si rischiano anche l’instabilità, la corruzione e perfino la tirannia, ma se si sbaglia la politica estera si rischia di compromettere un bene supremo come la pace; un paese rischia addirittura di scomparire (e gli esempi sono parecchi) o di essere «declassato», con serie conseguenze sulla sua economia, sulla sua politica interna ed anche sul mantenimento dei suoi valori.

La politica estera viene prima di ogni altra cosa

Niente di nuovo, a dire il vero. Non è passato molto tempo da che nascere dalla parte sbagliata della Cortina di ferro, nell’Europa orientale sotto il controllo di Mosca, era una sventura. Inoltre, non è un mistero per nessuno che al Pci fosse interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica; e sebbene il Partito socialista governasse in molti comuni e regioni con il Partito comunista, non si è mai sognato di farlo a livello nazionale.

Del resto, il primo governo Prodi cadde alla vigilia della partecipazione italiana alle operazioni militari della Nato contro la Serbia (per il ritiro dell’appoggio esterno deciso da Rifondazione Comunista); e le cose non cambiarono con il secondo governo Prodi: il 21 febbraio 2007 la risoluzione dell’Unione in appoggio alla politica estera del governo non raggiunse il quorum per la defezione di due senatori della sinistra radicale (il nodo era quello sul mantenimento delle truppe italiane in Afghanistan).

Il sistema internazionale? Irriconoscibile

I riformisti, quelli che vorrebbero cambiare le cose, non possono perciò infischiarsene della politica estera,  in primo luogo perché il mondo è cambiato. Oggi il sistema internazionale – com’è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale – è irriconoscibile. Le cause? L’ascesa delle potenze emergenti (la Cina, l’India, ecc.), la globalizzazione dell’economia, il trasferimento, storicamente senza precedenti, di ricchezza relativa e di potere dall’Ovest all’Est del mondo (quello che Fareed Zakaria ha chiamato “The rise of the rest”) e l’influenza crescente dei nonstate actors (mondo degli affari, tribù, organizzazioni religiose e perfino network criminali).

Tra non molto, dunque, il sistema internazionale sarà un sistema globale multipolare con un divario di potenza sempre più contenuto tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. Inoltre, non cambiano soltanto i protagonisti, ma cambia anche la portata delle questioni transnazionali decisive per la prosperità globale: l’invecchiamento della popolazione nei Paesi sviluppati, i limiti crescenti nell’energia, nel cibo, nell’acqua e le preoccupazioni circa il cambiamento climatico rischiano di limitare quella che rimane un’epoca di prosperità senza precedenti.

Meno Stati Uniti, meno governo

Il guaio è che, storicamente, i sistemi multipolari emergenti sono stati sempre più instabili di quelli bipolari o unipolari. In altre parole, è probabile (ed augurabile) che le rivalità strategiche continuino a ruotare attorno al commercio, agli investimenti, all’innovazione e all’acquisizione tecnologica, ma non è da escludere una corsa agli armamenti, all’espansione territoriale e alle rivalità militari simile a quella del XIX secolo. Questa nuova realtà non ha un esito scontato. Anche perché sebbene gli Stati Uniti siano destinati a rimanere il Paese più potente, saranno, tuttavia, meno dominanti. E le declinanti capacità economiche e militari americane faranno emergere (com’è evidente da tempo) le contraddizioni tra le priorità interne e quelle di politica estera. Ovviamente, se gli Stati Uniti, che hanno agito per anni come il governo di fatto del mondo, ora si comportano come un Paese qualunque, il mondo avrà meno governo. Non è detto, infatti, che la Cina e «il resto» abbiano i soldi e l’inclinazione per rilevare le responsabilità americane.

Effetto Trump

Inoltre, proprio l’ultimo numero di Foreign Affairs analizza il modo in cui il presidente Trump ha cambiato le cose e ospita l’intervento del presidente del Council on Foreign Relations, Richard Haass. Haass ricorda che mentre Dean Acheson, il segretario di stato del presidente Truman che ha preso parte alla formazione dell’ordine mondiale successivo alla Seconda guerra mondiale, ha scritto un libro intitolato «Presente alla Creazione», ogni resoconto relativo all’era Trump dovrebbe intitolarsi «Presente al Cataclisma». Raccontando il modo in cui Trump ha premiato l’unilateralismo rispetto al multilateralismo e ha lavorato per distruggere le norme e aggirare le strutture internazionali, Haass scrive che «non c’è modo di tornare come prima. Quattro anni possono non essere un periodo di tempo molto lungo nel corso della storia, ma è abbastanza lungo perché le cose cambino in modo irreversibile. La Cina è più ricca e più forte, la Corea del Nord ha più armi nucleari e migliori missili, il cambiamento climatico è più avanzato, l’ambasciata degli Stati Uniti è stata trasferita a Gerusalemme e, in Venezuela,  Nicolás Maduro è più stabile, come Bashar al-Assad in Siria. Questa è la nuova realtà». Gli alleati dell’America pensano, a proposito di Trump, che «se è potuto accadere una volta, potrebbe accadere di nuovo», scrive Haass, senza contare che Trump ha già messo in discussione alcuni dei parametri fino ad ora costanti del comportamento statunitense. Se a novembre dovesse perdere, forse l’era di Trump verrà vista come una anomalia, in quanto gli Stati Uniti si ritroveranno negli accordi internazionali e cercheranno di riprendere il loro vecchio ruolo. Ma se dovesse vincere, predice Haass, Trump probabilmente insisterà sul suo approccio «raddoppiando» la posta e «sarà visto come un presidente davvero importante».

Lordine mondiale liberale è una anomalia”

L’America, si sa, ha avuto un ruolo centrale nella creazione dell’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 e al quale l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee. Ma quell’ordine, che ha garantito un periodo di pace, prosperità e libertà senza precedenti, non è stato un fenomeno naturale, il frutto dell’inevitabile evoluzione del genere umano. Gli ultimi settant’anni di commercio relativamente libero, di crescente rispetto dei diritti individuali, e di cooperazione relativamente pacifica tra le nazioni (gli elementi fondamentali dell’ordine liberale) sono stati, come sostiene Bob Kagan, una «historical aberration», una deviazione, un’anomalia che ha rappresentato un «atto di sfida alla storia e persino alla natura umana».

Fino al 1945 la storia dell’umanità è stata una lunga storia di guerra, di sopraffazione e miseria. I momenti di pace sono stati fugaci, la democrazia così rara da sembrare quasi casuale e il benessere il lusso dei pochi potenti. Va da sé che la nostra epoca non si è fatta mancare orrori, genocidi e vessazioni, ma dal punto di vista storico, è una sorta di paradiso. Quell’ordine, ovviamente, gli americani non lo hanno costruito da soli, hanno collaborato con gli altri. Ma è stata l’abilità degli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, a mettere fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. Erano gli unici in grado di poterlo fare. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero. Ed è stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse l’ordine «anomalo» nel quale siamo vissuti. In fondo, come ha ricordato Robert Kagan nel suo bellissimo saggio, «The Jungle Grows Back», in retrospettiva, «la più significativa rivoluzione negli affari internazionali del dopoguerra non è stato il nuovo confronto determinato dalla Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma la graduale trasformazione della Germania e del Giappone dalle potenze ambiziose, autocratiche, militari che sono state alle potenze pacifiche, democratiche, economiche che alla fine sono diventate».

Come cambia lAmerica

Sfortunatamente, gli Stati Uniti si stanno allontanando sempre di più da quello che finora era stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. Senza dubbio, la politica estera di Trump, come ha scritto il Washington Post, è «il trionfo della pancia sul cervello». Ma questo problema non ha a che fare solo con Trump. È da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla «normalità» e che, una dopo l’altra, le amministrazioni USA fanno a gara per rassicurare gli americani che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Specie dopo i fallimenti in Afghanistan e in Iraq. Che gli Stati Uniti non siano disposti a «mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero», Obama, tanto per capirci, lo ha ripetuto fino alla noia. E anche tralasciando le uscite di Trump (o le posizioni di Bernie Sanders o di Elisabeth Warren) ormai c’è un ampio consenso attorno all’idea che la «Grand Strategy» di impegno globale che gli Stati Uniti hanno perseguito dal crollo della potenza sovietica non sia «necessaria» e sia anzi «controproducente, costosa e inefficiente».

Lo ha spiegato in un libro che auspica un diverso approccio Barry Posen, professore di scienze politiche al MIT; e il titolo del libro, «Restraint», esprime in modo stringato la sua esortazione. L’America, egli sostiene, deve smetterla di cercare di fare sempre di più, deve, invece, fare meno (anche perché «gli sforzi per difendere tutto finiscono per non difendere nulla») e raccomanda perciò di investire in quello che gli Stati Uniti sanno fare meglio, e cioè nel controllo dei beni comuni globali attraverso la forza aerea e marittima (e il dominio dello spazio), riducendo le forze militari sul terreno; e immagina una riduzione nella spesa per la difesa fino al 2.5% del Pil, la maggior parte della quale ottenuta riducendo l’esercito e l’ampia presenza americana oltremare.

E se vince Biden? Non cambierà molto: ecco perché 

Dunque, è improbabile che le cose possano cambiare se, dopo Trump, alla Casa Bianca dovesse arrivare Joe Biden, come ormai ci auguriamo tutti. Per diverse ragioni.

Primo. Gli Stati Uniti sono diventati, per dirla con Michael Mandelbaum, una «Frugal Superpower». Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, un debito enorme, sanità, pensioni e diritti crescenti intestati a baby boomers incanutiti. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico, tanto per fare un esempio, supererà l’intero budget della difesa. Il risultato è una leadership con mezzi molto limitati.

Secondo. «Il futuro della politica sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o in Iraq», aveva detto HIllary Clinton annunciando la strategia asiatica americana sancita dal «pivot to Asia», e in Asia è in atto una corsa agli armamenti. Laggiù la situazione oggi è più instabile e molto più complessa degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. I cinesi stanno costruendo basi per i sommergibili nell’isola di Hainan e sviluppando missili antinave. Gli americani hanno rifornito Taiwan di missili per la difesa aerea e sistemi avanzati di comunicazione militare. Giapponesi e sudcoreani sono impegnati nell’ammodernamento delle loro flotte – in particolare dei sommergibili. E l’India sta costruendo una flotta d’alto mare considerevole. Sono tutte misure per cercare di aggiustare a proprio vantaggio i rapporti di forza ed è questo il mondo che attende gli USA quando se ne saranno andati dall’Iraq e dall’Afghanistan.

Terzo. L’America non è più un’isola, protetta dall’Atlantico e dal Pacifico. A ricondurla più vicino al resto del mondo non è solo la tecnologia, ma la pressione della demografia messicana e centroamericana. E, per gli Usa, sistemare il Messico è più importante che riordinare l’Afghanistan. Solo l’offensiva contro i signori della droga è costata migliaia di morti.

Quarto. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) sta portando ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e può darsi che una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero riesca a fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo.

LEuropa non può eludere le politiche di difesa

Tutto questo, ovviamente, ci riguarda da vicino. Perché, se così stanno le cose, quando il mondo lamenta “Qualcuno deve fare qualcosa!”, la reazione più immediata e disinteressata non verrà più da Washington e anche altre politiche di interesse internazionale (come appunto l’accesso globale al petrolio), possono soffrirne.

Ma se così stanno le cose, non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa? Non sarebbe ora di affrontare il negoziato transatlantico su commercio e investimenti con piena coscienza della posta in gioco? E quel che dovrebbe farsi strada è proprio la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. Non si tratta solo di zucchine e lenticchie.

E ancora: se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, vogliamo accelerare la transizione dell’Europa al rango di unità regionale, si o no? Come si fa, ad esempio, a prendere sul serio la posizione europea sulla Siria? In apparenza l’Europa ritiene che una presenza militare occidentale sul terreno nel nord della Siria sia necessaria per la propria sicurezza. Ma non è disponibile a schierare (e non sarebbe neppure in grado di farlo) le proprie forze armate. Eppure la Turchia e la Siria sono vicine all’Europa, non agli Stati Uniti, e se le violenze dovessero intensificarsi di nuovo, sarà l’Europa a subirne le conseguenze e non gli Stati Uniti. Insomma, per una volta, non si può rimproverare Trump quando sostiene che gli europei devono assumersi maggiori responsabilità.

LEuropa deve badare a se stessa

L’America, certo, assisterà l’Europa attraverso la Nato in caso di attacco al nostro territorio. Ma dalla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno segnalato più e più volte che tocca agli europei far fronte ai problemi relativi alla sicurezza nello spazio europeo. Gli Stati Uniti non lo faranno al nostro posto. Finora, si sa, abbiamo fatto orecchie da mercante, convinti che in fondo non è così urgente rafforzare le nostre capacità difensive perché tanto, qualunque cosa succeda, la cavalleria degli Stati Uniti arriverà a toglierci dai guai. Ma ora che gli americani appaiono sempre di meno come tutori affidabili dell’ordine internazionale, saremo costretti, con le buone o con le cattive, a badare sempre di più a noi stessi. Per l’Europa è l’occasione per accelerare il decollo della difesa comune.

Ovviamente non è un caso se, quando si cerca di identificare le strade che consentirebbero di rilanciare l’integrazione europea, una delle prime proposte che vengono avanzate sia sempre quella di dar vita a una «difesa comune». «Oro e ferro», la moneta e la difesa, sono da sempre alla base di ogni costruzione statale. L’Unione europea ha già sottratto alla responsabilità degli stati membri la gestione della moneta. E se si vuole fare sul serio, dopo l’oro, tocca al ferro diventare patrimonio comune a tutti i membri della Ue, superando il monopolio dei singoli Stati. Nel cantiere per ristrutturare l’Unione europea che, di fatto, si è aperto nei mesi scorsi, i lavori potrebbero dunque concentrarsi anche sulla costruzione del fondamentale pilastro della difesa comune. Specie se si considera che ormai sono in tanti, a cominciare dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, ad essersi convinti della necessità di trasformare l’Europa (e dunque la Germania) da semplice potenza economica in un attore militare e diplomatico decisivo nel mondo.

Verso la difesa comune

Al solito, per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo. Ogni federalista che si rispetti è convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ma non mancano quanti (non solo a Londra) inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma la Germania fa sul serio ed il governo tedesco si sta dimostrando disposto a procedere verso l’integrazione militare europea.

Negli anni scorsi, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito UE, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. Come ha documentato qualche anno fa Foreign Policy, «l’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun Paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81esima Brigata meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle forze di risposta rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di dispiegamento rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima divisione blindata tedesca. Così facendo, seguiranno le orme di due brigate olandesi, una delle quali è già entrata a far parte della Divisione delle forze di risposta rapida, mentre l’altra è stata integrata nella Prima divisione blindata della Bundeswehr». Insomma, «sotto la blanda etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato a qualcosa di molto più ambizioso: la creazione di quella che sostanzialmente è una rete di mini-eserciti europei, guidata dalla Bundeswehr». Oggi, insomma, è già in corso una «rivoluzione silenziosa sulla Difesa, in parte fuori dagli schermi radar dell’opinione pubblica».

Il ruolo della Germania

Va da sé che la storia continua a pesare e che il quadro di riferimento per un ruolo militare più attivo della Germania nel mondo non può che essere l’Ue. Del resto anche le scelte e le posizioni in materia di difesa del presidente francese dimostrano che anche Macron vuole fare sul serio. E in materia di difesa e sicurezza, la «volontà politica» è tutto. Anche perché, come ha ricordato il generale Giuseppe Cucchi, per poter dar vita ad una Difesa europea dobbiamo risolvere diversi problemi. A cominciare proprio dall’esistenza di un’altra organizzazione internazionale, la Nato, «che si presenta ormai da decenni come l’incontrastata ed efficace monopolista del mercato della difesa e della sicurezza occidentale»; senza contare gli ostacoli che derivano «dalla presenza in Europa di industrie per la difesa che, al di là di tutti gli accordi di coproduzione e del tentativo di razionalizzarne l’output compiuto anni fa creando in ambito Unione una Agenzia Europea degli Armamenti (Eda), sono rimaste essenzialmente nazionali» e dalla «difficoltà di integrare nel sistema la componente nucleare costituita dalla ‘Force de frappe’ francese, ultima risorsa atomica rimasta all’Europa dopo la secessione del Regno Unito». Niente, tuttavia, di insormontabile. Secondo Cucchi, «col tempo la Germania potrebbe infatti crescere e, prendendo coscienza di se stessa, assumere in ambito europeo lo stesso ruolo che gli Stati Uniti svolgono in sede Nato. All’Agenzia per gli armamenti potrebbero essere affidati poteri di razionalizzazione del contesto produttivo generale, cercando magari di compensare con una maggiore aggressività sul mercato internazionale ciò che le nostre industrie perderebbero su quello europeo. La dottrina del nucleare francese, come già indicato, dovrebbe nel contempo esser fatta evolvere verso il concetto di ‘dissuasione condivisa’».

La cooperazione internazionale è sempre più necessaria

Il vero ostacolo rimane però l’assenza di una politica estera comune dell’Unione. Ma ci arriveremo, anche perché, per dirla con Angela Merkel, «i tempi in cui potevamo fidarci completamente degli altri sono passati da un pezzo. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani».

Inoltre, i riformisti non possono accontentarsi del meno peggio perché, molto semplicemente la cooperazione internazionale è sempre più necessaria. In fondo, nonostante tutta la retorica (interessata) che strombazza le virtù del «fare da soli» anche in politica estera, la cooperazione con le altre nazioni (in varie forme) resta essenziale, dal contrasto al terrorismo al contenimento della pandemia.

«L’8 maggio del 1980, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò che il vaiolo era stato debellato», ha ricordato qualche mese fa Helen Branswell su STAT. «Quel traguardo, raggiunto mentre ancora infuriava la Guerra Fredda, è un esempio di quel che può ottenere il mondo della sanità pubblica quando lavora insieme». Parliamo di un virus che si ritiene abbia infettato per la prima volta gli uomini che, circa 3000 anni fa, prosperavano nella Valle del Nilo dell’Antico Egitto e che si ipotizza abbia ucciso 300 milioni di persone nei primi 80 anni del XX secolo, racconta a Helen Branswell l’attuale Assistant Director-General for General Management dell’OMS, Stewart Simonson. Ed è stato sconfitto grazie alla cooperazione internazionale, con l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti che collaboravano attraverso l’OMS, riferisce William Foege, che ha diretto i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), un importante organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, dal 1977 al 1983. (Come ha sostenuto di recente l’editor-in-chief di Science journals, Holden Thorp, la comunità scientifica oggi sembra fare l’opposto, posto che gli Stati Uniti hanno preso di mira l’OMS e tagliato i finanziamenti; e sottolineando l’importanza di lavorare insieme, Thorp si è chiesto se questo sia davvero il momento migliore per incolpare qualcuno).

Per sconfiggere il virus serve che gli stati collaborino

Il vaccino per il vaiolo fu introdotto nel 1796, ma quando nel 1959 l’OMS diede inizio ad un programma per sradicare il virus, la sua riuscita richiese 21 anni di lavoro accurato simile a quello che gli esperti invocano adesso: identificare i casi, tracciare i loro contatti, isolare e vaccinare quei contatti, il tutto senza l’uso di computer o cellulari. «Nel maggio del 1974, in un solo stato dell’India, venivano identificati ogni giorno 1500 casi di vaiolo» scrive Branswell. «E ciascuno di quei casi implicava una nuova indagine. Cioè 1500 indagini al giorno» ha detto Foege (ed ha aggiunto: «Mi  sorprende che ora, con tutte le nostre comunicazioni e tutti i nostri strumenti, la gente pensi che tracciare il Covid-19 sia troppo difficile»).

Insomma, detto altrimenti, per sconfiggere un virus è necessaria la cooperazione internazionale e bisogna lavorare sodo. Annunciando le misure di contenimento della pandemia in Germania, Angela Merkel aveva parlato, infatti, di questa crisi internazionale in una prospettiva storica, ricordando che è dalla Seconda guerra mondiale che non dipendiamo così tanto dalla solidarietà di tutti.

La fine del sogno sovranista

Volendo spingersi oltre, potremmo azzardare che questa è la fine del sogno sovranista com’è stato concepito fino a ora. Perché tutti hanno visto l’inadeguatezza della risposta sovranista e tutti hanno visto che difendendo l’interesse collettivo, si difende anche l’interesse nazionale: l’elemento su cui si fonda l’ordine liberale. «La chiave del multilateralismo rimane – ha ricordato infatti in questi giorni il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ricordando le risposte coraggiose e innovative messe in campo dall’Unione europea e dai suoi stati membri – lo strumento per costruire un percorso di condivisione dei destini dei popoli del mondo, mettendo in comune saperi, culture, valori. Si tratta di una sfida cui anche l’Italia saprà certamente dare il proprio contributo».

Di fronte al Covid-19, l’Europa all’inizio ha stentato a muoversi in modo deciso, ma la proposta franco-tedesca di finanziare la ripresa permettendo alla Commissione europea di «indebitarsi sui mercati per conto della Ue», potrebbe portare definitivamente l’Unione europea in un territorio nuovo, caratterizzato da un’unione fiscale e da quella mutualizzazione del debito che in molti hanno a lungo contrastato (anche la Merkel si è convertita solo di recente).

L’«Hamilton Moment» dellEuropa

Si tratta di un passo che, si sa, alcuni paesi contestano ancora, ma non è un caso che la proposta sia stata celebrata, fin dal suo apparire, come un «Hamilton Moment», un accordo degno di Alexander Hamilton, alludendo alla creazione dell’unione fiscale tra gli stati americani. Il primo leggendario ministro del tesoro degli Stati Uniti, dopo la Rivoluzione americana, ideò, infatti, splendidamente, un accordo con i suoi irascibili contemporanei per permettere al nuovo governo degli Stati Uniti di assumere i singoli debiti di guerra delle ex colonie e convertirli in obbligazioni comuni dell’unione federale (in modo da prevenire la bancarotta dei singoli stati). Gli storici lo considerano uno dei passi decisivi per la costruzione del sistema di governo americano.

Ovviamente, c’è chi considera il paragone parecchio esagerato, ma l’espressione allude anche ad un momento di presa di coscienza di come stanno realmente le cose (e del nostro ritardo) da parte di un’Europa a volte troppo autoreferenziale. Lo shock stavolta c’è stato. Ora resta da vedere dove ci porterà la reazione europea. Dopo che il virus ha stimolato una azione collettiva così importante, la Ue potrebbe entrare in una nuova fase della sua esistenza e della sua identità. A partire dalla consapevolezza che oggi l’Europa è tenuta a superare la crisi insieme, come un’unione, e non divisa in 27 stati nazione. Tutte cose che non si fanno accontentandosi del meno peggio.

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