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Come può competere, il pane, con le campagne d’odio? – Il Riformista, 13 agosto 2020

Joe Biden ha scelto Kamala Harris come sua vice nel ticket democratico che proverà a strappare la Casa Bianca a Donald Trump. Va da sé che la riconferma o meno di Trump sarà, come ha scritto giustamente Christian Rocca, «il momento decisivo della nostra epoca»: il 3 novembre sapremo, cioè, se l’esperimento nazionalista sovranista populista continuerà a imperversare di qua e di là dell’Atlantico oppure se finalmente saranno scattate le contromisure per ristabilire la normalità democratica e contrastare lo sgretolarsi della società aperta.

La democrazia, si sa, di questi tempi non se la passa molto bene. Al contrario, i suoi rivali politici globali sembrano prosperare e, soprattutto, sembrano in grado di offrire una valida alternativa. Commentando allegramente poche settimane dopo l’elezione di Donald Trump, Vladimir Putin ha celebrato «il degrado dell’idea di democrazia nella società occidentale». Su Changhe, uno studioso cinese che ha magnificato i successi del suo paese sotto il presidente a vita Xi Jinping, ha rilevato con soddisfazione che «la democrazia occidentale sta già mostrando segni di decadimento». Lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, sovrano di Dubai e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, ha detto di sperare che il suo governo sarà presto «più vicino al suo popolo, più veloce, migliore e più reattivo» della democrazia occidentale; e poiché, a suo dire, la versione della democrazia degli Emirati Arabi Uniti è profondamente radicata nella società locale, secondo «Big Mo» (così viene chiamato in patria), quel sogno è già in fase di realizzazione.

In un saggio illuminante, «The New Dispotism», John Keane sostiene in modo convincente che lo slancio e la forza attuali del «nuovo dispotismo» (in Cina, in Ungheria, in Iran, in Russia, in Arabia Saudita, a Singapore, negli Emirati Arabi Uniti e in molti altri paesi), testimoniano sia la sua vitalità attuale, sia la sua capacità di durare nel tempo. A differenza di quello vecchio, il «nuovo dispotismo» veste i panni della democrazia, nutrendosi delle sue debolezze come un parassita; e quel che è più grave, minaccia di fare breccia anche nelle democrazie di vecchia data, nelle quali il declino politico festeggiato da Putin è più di una fantasia distorta e auto-compiaciuta. Non è infatti un mistero per nessuno che in Italia, ad esempio, come ha ricordato Francesco Cundari, «abbiamo lasciato che una società privata specializzata nelle campagne di demonizzazione e disinformazione riempisse le istituzioni di personaggi senza arte né parte, reclutati al solo scopo di coprirle di fango».

John Keane sfata il mito che i despoti governino solo con la repressione. Certo, nel nuovo dispotismo la violenza non è scomparsa del tutto, ma è molto più discreta e meditata, ed ha rimpiazzato l’intimidazione e la sorveglianza con la seduzione. La forza del nuovo dispotismo deriva, infatti, dall’uso sapiente dei media; un uso che va ben oltre l’abituale diffusione di fake news e la calunnia degli oppositori. Insomma, malgrado le elezioni si tengano regolarmente e i nuovi tiranni ostentino le procedure elettorali come prova della loro legittimità popolare, essi seguitano ad utilizzare una serie aggiornata di nuove (e vecchie) «arti oscure»: perseguitare i candidati avversari, ridisegnare i confini dei collegi elettorali in modo da favorire i propri candidati, «sbagliare» di conteggiare i risultati elettorali scomodi, ecc.

Quel che rimane è una «democrazia fantasma» che, secondo Keane, potrebbe essere più longeva del totalitarismo stalinista o maoista del passato. Mentre allora la sorveglianza di massa e le dure punizioni erano all’ordine del giorno, i despoti di oggi tollerano il dissenso (fino ad un certo punto) e traggono vantaggio dalla parvenza di democrazia, da una classe media compiacente, attirata dalle entrate clientelari del capitalismo di Stato, e da un falso sistema democratico di feedback che permette loro di misurare la temperatura politica, anche se le elezioni non sono reali.

Per i critici del primo ministro indiano Narendra Modi, ad esempio, l’elenco delle sue malefatte continua a crescere. Dopo una critica molto dura e severa della gestione del Covid-19, Edmond Roy ha scritto su The Interpreter, il blog del Lowy Institute, che «in effetti il governo di Modi si è sottratto ai propri doveri» nel fronteggiare la pandemia. «Nel frattempo, ha cercato di mettere a tacere ogni dissenso», intimidendo i media del paese per costringerli «a riportare la versione ufficiale degli eventi».

Ma il Covid-19 è solo uno dei punti dolenti. La settimana scorsa, il primo ministro indiano ha posato la prima pietra della costruzione di un nuovo tempio indù nell’antico sito di una moschea del XVI secolo, nel posto in cui si crede sia nata la divinità indù Rama. L’Economist ha definito il luogo «un tema perenne di campagna elettorale» per il partito di Modi.

Inoltre, in un saggio sul Guardian, la scrittrice indiana (e attivista politica impegnata nel campo dei diritti umani e dell’ambiente) Arundhati Roy, ha elencato pressoché tutti i peccati illiberali che, agli occhi dei suoi oppositori, Modi ha commesso: la risposta alla pandemia, il nuovo tempio, la repressione in Kashmir che è cominciata un anno fa proprio in questi giorni, gli scontri di confine con la Cina, la nuova legge sulla cittadinanza che discrimina i musulmani e le perduranti tensioni con il Pakistan. Nella bordata che ha indirizzato contro la politica nazionalista indù di Modi, Roy scrive: «Soltanto gli ingenui o gli indottrinati senza speranza possono ancora credere che la fame e la disoccupazione possano condurre alla rivoluzione – che i templi e i monumenti non possano nutrire il popolo. Lo possono fare. Il Ram Mandir (il nuovo tempio) è cibo per milioni di anime indù affamate. L’ulteriore umiliazione dei già umiliati musulmani e delle altre minoranze affina il sapore della vittoria sulla lingua. Come può il pane competere?». Già. Vuoi mettere (in India come dappertutto) una bella «campagna d’odio»?

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