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«Dovremo ripensare le relazioni con Pechino (e il nostro atteggiamento)»- Il Riformista, 25 maggio 2020.

Ieri la polizia di Hong Kong ha arrestato almeno 150 manifestanti e usato gas lacrimogeni, spray urticanti e cannoni ad acqua per disperdere le migliaia di persone scese in strada per protestare contro la nuova legge sulla sicurezza nazionale che la Cina si sta preparando ad imporre all’ex colonia britannica per sanzionare il tradimento e la sedizione contro il governo continentale.

La legge all’esame del Congresso nazionale del popolo a Pechino, si annuncia come il colpo più duro inferto all’autonomia della città dal suo passaggio alla sovranità cinese nel 1997. La Basic Law (la legge fondamentale che regola il rapporto tra Pechino e Hong Kong) prevede che l’approvazione di una legge sulla sicurezza nazionale spetti al governo della città autonoma. Nel 2003 ci provò il governatore Tung Chee-hwa, ma fu costretto a ritirare la proposta di legge dopo che 500 mila persone scesero in piazza denunciando le limitazioni alla libertà di espressione che sarebbero derivate dalla sua approvazione. Ma le rivolte dello scorso anno contro la proposta di legge sull’estradizione, degenerate in mesi di scontri tra manifestanti e polizia, hanno persuaso Pechino dell’urgenza di un giro di vite. Di fronte all’impotenza del governo locale, le autorità comuniste hanno perciò deciso di aggirare l’ostacolo approvando la norma a livello centrale per poi inserirla nell’Allegato 3 della Basic Law, senza bisogno di ratifiche da parte del parlamento dell’ex colonia britannica. Inoltre, a occuparsi dell’applicazione della legge sarà un apposito Ufficio per la sicurezza nazionale che la Cina aprirà a Hong Kong. Si tratta del culmine delle misure di repressione cinesi nei confronti della città (semi)autonoma: in base alla nuova legge, ogni critica a Pechino, ogni richiesta di maggiore democrazia e ogni tentativo di veder riconosciuta l’autonomia di cui la città deve godere fino al 2047 potrebbe essere criminalizzata. Con una legge del genere, tutte le proteste dello scorso anno potrebbero essere, infatti, classificate come atti di sedizione e i manifestanti processati come tali.

Non per caso, il filo comune che lega le diverse reazioni all’offensiva di Pechino raccolte dalla Hong Kong Free Press (incluse le opinioni conculcate degli attivisti e dei legislatori di Hong Kong a favore della democrazia), è proprio la convinzione che una tale mossa manderebbe definitivamente in soffitta la formula «un paese, due sistemi», coniata dall’ex leader cinese, Deng Xiaoping, che regola i rapporti tra Hong Kong e la Cina e che prevede il riconoscimento di un’unica sovranità all’interno della quale possono tuttavia coesistere diverse realtà amministrative, con un differente ordinamento istituzionale e contraddistinte da un diverso sistema economico.

Con la pandemia la Cina è diventata senza dubbio più aggressiva, ma il coronavirus non ci ha rivelato nulla che già non si sapesse; ci ha messo semplicemente davanti a gli occhi una verità che preferivamo schivare. Che le autorità cinesi, come scriveva qualche tempo fa la redazione del Guardian, abbiano occultato la portata del focolaio e punito i whistleblower, è scandaloso ma non è strano per un paese con gli apparati addetti alla censura più sofisticati del mondo e nel quale la censura si estende fino ad «avvolgere» tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla stampa al cinema, dalla televisione al web. Che poi le autorità cinesi possano essere spietate era altrettanto assodato: nel Xinjiang, più di un milione di uiguri sono stati ammassati in campi di detenzione, eppure le proteste internazionali sono state molto limitate.

La differenza – questo è il punto – è che «stavolta le ripercussioni sono state avvertite al di fuori dei suoi confini». Per questa ragione, i paesi di tutto il mondo sono sul chi va là. Sono molti, infatti, i paesi che stanno «riconsiderando» le relazioni con Pechino e in tutti gli schieramenti politici sta maturando una visione meno bendisposta nei confronti della Cina. Certo, tanto per fare un esempio, negli Stati Uniti la cosa è fomentata per ragioni elettorali dai falchi dell’amministrazione Trump. Resta tuttavia il fatto che «le speranze che la Cina possa un giorno perseguire riforme politiche sono svanite a causa dell’inasprirsi della repressione al proprio interno e delle strategie aggressive allestero». Il Regno Unito si è già allontanato dalla «golden relationship» che David Cameron e George Osborne avevano perseguito apparentemente senza curarsi dei costi; e mentre ai piani alti del Partito conservatore reclamano un reset di fondo, anche le agenzie di intelligence, più cautamente, chiedono un «riesame» della relazione.

Certo, la Gran Bretagna «ha il particolare dovere di pronunciarsi su Hong Kong», ma abbiamo tutti il dovere di non voltare la testa dall’altra parte. Infatti, come ha sottolineato il quotidiano inglese, l’aspetto più delicato e scottante del problema, la domanda più importante, non riguarda la nostra percezione della Cina, come, insomma, vediamo Pechino. Il punto è piuttosto «se siamo disposti a riconsiderare noi stessi», se siamo disposti cioè a mettere in discussione il nostro atteggiamento. Infatti, «il comportamento peggiore della Cina è stato incoraggiato dall’avidità, dall’accondiscendenza, dalle divisioni e dalla visone a breve termine degli altri».

Naturalmente, c’è una bella differenza tra «chiamare la Cina a rispondere» e usarla per distogliere l’attenzione dai propri fallimenti, come cerca di fare il presidente americano Trump. C’è anche «un mondo di differenza tra il riconsiderare il ruolo delle società cinesi nelle infrastrutture essenziali, come il 5G, e le assurde richieste di risarcimento per la pandemia o, negli Stati Uniti, l’idea di bandire tutti gli studenti cinesi dalle facoltà scientifiche». Il virus, stando al Guardian, «ha dimostrato quanto il nostro futuro sia legato» e che «le cose sarebbero andate molto peggio se la Cina avesse occultato le notizie della pandemia per mesi, come fece con la Sars, invece di comunicarlo rapidamente all’Organizzazione Mondiale della Sanità». Ma quel che serve, al posto di atteggiamenti macho o scaricabarile, è «una azione attenta, informata, ponderata e unitaria». Forse bisognerebbe citofonare a Di Maio per dirgli di scendere.

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