Ci attendiamo tutti che, come ha detto il presidente Mattarella, nei prossimi giorni anche «il Consiglio dei capi dei governi nazionali» assuma, come hanno fatto la Banca Centrale e la Commissione, le «indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente». Ma accreditare l’idea che i nostri problemi dipendano semplicemente dall’Europa (concludendo, come fa Salvini, che il problema è l’Europa e che tanto vale uscirne), significa cercare disgrazie. Dovrebbe essere evidente a tutti che l’Italia non può farcela «da sola».
La Bce (che ci sta finanziando in modo massiccio: si tratta di almeno 220 miliardi, oltre il 12% del Pil, di acquisti di titoli di Stato italiani da qui alla fine dell’anno) la sua parte l’ha fatta. Il Consiglio Direttivo ha approvato un programma aggiuntivo di acquisti 2020 per ben 750 miliardi; e, soprattutto, ha deciso di cancellare il vincolo che limitava gli acquisti di titoli di ciascun Paese in proporzione alla dimensione relativa dell’economia del Paese stesso (per l’Italia, il 13%). In sostanza, nel Consiglio della Bce si è formato un ampio consenso sulla necessità di lasciarci alle spalle un vincolo che avrebbe impedito, nel caso in cui le difficoltà si fossero concentrate sul debito di un Paese membro, di incrementare il volume degli acquisti Bce di titoli di quel Paese, «per quanto necessario e per tutto il tempo necessario». Si tratta di una svolta: anche i più riottosi membri del Consiglio hanno preso finalmente atto del fatto che, in un contesto generale di recessione, l’intero edificio dell’euro può rovinare su se stesso se si abbandona al suo destino anche uno solo dei Paesi membri.
Sottolinearlo, non è vuota retorica europeista.
Piuttosto, l’attivazione della clausola sospensiva – questa è la domanda che dovremmo porci – è la prima, indispensabile scelta in direzione della creazione di un bilancio (con uscite proprie ed entrate proprie) dell’area dell’euro, si o no? In questi anni è mancata proprio una politica di bilancio «comune» che spingesse nello stesso senso espansivo della politica monetaria. Quest’ultima, magari con qualche ritardo, è arrivata a sostenere l’economia. Ma la politica di bilancio nell’area euro non ha potuto fare lo stesso (come fanno appunto gli stati «federali») proprio perché il «disegno» è incompleto e manca un bilancio comune (da finanziare con risorse aggiuntive degli stati aderenti e adottando, in questo contesto, gli eurobond, un asset tutelato da un impegno collettivo di tutti i paesi, un po’ come i titoli emessi dal tesoro Usa). Tuttavia, si può parlare di bond comuni solo a condizione di accettare di trasferire nuove competenze economiche e sociali (e dunque componenti del bilancio nazionale) all’Unione: si chiama cessione di sovranità.
Il nodo che resta da sciogliere è quello della creazione di un vero e proprio bilancio europeo. «Se c’è la volontà politica di aggredirlo, si troverà certamente la soluzione adeguata: in ultima analisi, dovranno essere le entrate proprie dell’Euroarea a garantire i debiti accesi sul merito di credito dell’Area stessa, non dei singoli stati» ed è chiaro che «non potrà trattarsi in nessun caso dei debiti contratti dagli stati membri in passato. Quelli, dovranno essere ripagati da ciascuno, senza eccezioni e furbizie. In questo senso, l’Italia deve dimostrare consapevolezza degli errori compiuti in passato (che spiegano la diffusa diffidenza nei nostri confronti), ma anche assoluta determinazione nel perseguire le scelte che sono indispensabili, nell’interesse di tutti i cittadini europei». Insomma, vonde monadis.