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«Ecco perché Trump ha promesso di ignorare il Medio Oriente, ma non c’è riuscito» – linkiesta.it, 13 gennaio 2020

Gli americani, di destra e di sinistra, non vorrebbero più occuparsi di quella regione, ma è un’impresa impossibile anche per un presidente isolazionista come l’attuale. E intanto gli altri paesi competitor, a partire dalla Cina, continuano a crescere. Tutti, tranne l’Europa

«Adesso che credevo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro!». Il lamento di Michael Corleone (nel capitolo finale del Padrino), che non ce la fa a sottrarsi alle attività criminali della famiglia, calza a pennello, come ha spiegato Fareed Zakaria nel corso della puntata di domenica scorsa del suo programma di politica internazionale sulla Cnn, all’America impelagata in Medio Oriente.

Trump è entrato in carica con l’idea (bipartisan) che gli Stati Uniti avessero sprecato più di un decennio (e risorse incalcolabili e vite umane) per fare la guerra in Medio Oriente; che il Paese avesse trascurato, nel frattempo, i propri problemi, dalle infrastrutture fatiscenti alla sua classe lavoratrice «dimenticata»; e che, in politica estera, l’America avrebbe dovuto concentrarsi sulla vera sfida, rappresentata dall’ascesa di un avversario come la Cina.
Invece, a distanza di qualche anno, la guerra continua, i vecchi conflitti sono ancora irrisolti e il candidato che aveva promesso di tirare finalmente fuori l’America dalle «endless war» del Medio Oriente e di riportare i soldati a casa, sta andando verso una escalation militare (ci sono più soldati americani adesso in Medio Oriente di quanti ce ne fossero quando ha assunto l’incarico).

Nessuno sentirà certo la mancanza di Suleimani, «un sicario dei mullah al potere a Tehran» e, come ha scritto Jacob Heilbrunn (direttore del National Interest, il bimestrale pubblicato da un think tank conservatore come il Center for the National Interest), «il regime dispotico di Tehran è un tumore nel Medio Oriente». «Ma perché – si è chiesto Heilbrunn – usare la fiamma ossidrica per estirpare le cellule maligne?».

Non è un mistero per nessuno che la politica di Trump nei confronti dell’Iran sia stata fin dall’inizio contrassegnata dall’ideologia piuttosto che dal buon senso. Ha ereditato una situazione strategica gestibile. La marcia di Tehran verso un arsenale nucleare era stata fermata e secondo tutti i servizi di intelligence (compreso quello di Israele), l’Iran stava rispettando l’accordo nucleare. Insomma, quando Trump divenne presidente, la politica del containment stava funzionando. Stracciando l’accordo nucleare (stringendo inoltre il cappio economico al collo dell’Iran e accusando la Guardia rivoluzionaria di essere dei terroristi) Trump ha finito invece per confezionare una nuova crisi in Medio Oriente.
E ora, con l’uccisione del generale Soleimani, qualunque prospettiva di intesa sul nucleare e qualunque trattativa con gli iraniani è sfumata. Può darsi anche che, come sostiene Giuliano Ferrara, sia il disimpegno che porta alla guerra e che il pasticcio cominciò quando furono poste le premesse della grande ritirata non strategica del potere unilaterale americano in Medio Oriente con i suoi obiettivi di trasformazione dell’area. Ma il Trump «restrainer» non è uscito di scena per far posto al Trump «neocon» e la sua posizione non ha niente a che fare con la «guerra di civiltà in corso». L’approccio di Trump «non è strategico». Come sostiene l’ex sottosegretaria alla difesa Michèle Flournoy, il suo è un approccio «tattico, impostato sulla transazione, impulsivo»; «un mix interessante» che mescola «la volontà di apparire il tizio duro con il quale nessuno fa il furbo (ecco spiegata la bellicosità e la retorica)» con «una genuina venatura isolazionista che dice: Che ci facciamo in Medio Oriente? Non voglio stare per sempre in guerra. Voglio riportare a casa le truppe». E non si tratta di un tic personale. Il paradosso è radicato nel carattere stesso dell’«America first» di Trump che produce sia isolazionismo sia una tendenza a reagire a quelli che ritiene affronti alla nazione. Un esempio è la minaccia di Trump di sanzionare l’Iraq se dovesse costringere le truppe americane ad andarsene, un risultato che lo stesso Trump sembrava volere. «È bastato – ha scritto Janas Ganesh sul Financial Times – un taglio un po’ insolente di quella stessa idea, da parte di un parlamento sovrano, per fargli prendere misure severe per salvare la faccia». Va da sé che, come osserva Ganesh, il nativismo, «può coltivare il suo auto-celebrativo senso dell’onore o può coltivare i suoi sogni di vita pacifica in un mondo di Stati sovrani che badano ai loro affari», ma non può avere entrambi.

Resta il fatto che in America non c’è un elettorato che reclama altre guerre. Al contrario. L’America non ha più le risorse e neppure il consenso interno per portare il peso del mondo sulle spalle come Atlante. E la volontà di Trump di sganciarsi dal Medio Oriente è in sintonia non soltanto con la sua base ma anche con la maggior parte dei candidati democratici in corsa per le presidenziali che, come Trump, hanno invocato la riduzione delle truppe e perfino il ritiro dalle «guerre infinite» in Afghanistan e in Iraq (che gli Stati Uniti non siano più disposti a «mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero», Obama lo aveva del resto ripetuto fino alla noia).

Non per caso, quando l’Iran ha attaccato gli impianti petroliferi sauditi nel settembre scorso, la riluttanza di Trump a rispondere con qualcosa di diverso dalle frettolose sanzioni ha incontrato l’approvazione bipartisan. Il punto è che da un pezzo gli americani non vogliono più portare sulle loro spalle il peso della responsabilità globale e vogliono tornare a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del vasto mondo (per questo gli Usa si stanno ritirando dall’Europa e dal Medio Oriente; e per questo l’America di Trump si rifugia nel nazionalismo, non parla più di diritti umani e smette di premere sui dittatori). E secondo Suzanne Maloney il 2019 potrebbe essere ricordato come un punto di svolta per il Medio Oriente: l’anno in cui «la violenza e l’instabilità apparentemente irrisolvibili che affliggono la regione alla fine hanno esaurito l’enorme fiducia degli Stati Uniti nella loro capacità di risolvere i problemi».

Cinquant’anni fa, gli Stati Uniti cominciarono a riempire il vuoto lasciato dal ritiro inglese dal Golfo Persico e assunsero il ruolo di «mediatore di pace» della regione. Nonostante i difetti, durante questo periodo la leadership degli Stati Uniti ha ottenuto alcuni risultati storici (gli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele, la liberazione del Kuwait del 1991, la salvaguardia delle esportazioni petrolifere in un’epoca di intensi conflitti, ecc.). Ora, tuttavia, la tesi di un «interesse vitale» degli Stati Uniti nel promuovere la pace e la sicurezza nel Medio Oriente «si sta sgretolando sotto il peso del mutamento dei mercati energetici e dei costi umani e finanziari di guerre apparentemente interminabili». E non c’è «scontro di civiltà» che tenga. Racconta Fareed Zakaria che nel 2007, quando George W. Bush ha annunciato il «surge» spedendo migliaia di soldati in più in Iraq, un amico cinese con gli agganci giusti gli disse: «Ci auguriamo che voi mandiate l’intero esercito americano in Iraq e che ci resti per altri dieci anni. Nel frattempo, continueremo a costruire la nostra economia». Perché stupirsi se ora la stragrande maggioranza degli americani pensa che farsi trascinare di nuovo nella palude e impelagarsi nelle liti degli altri, perdere un altro decennio mentre la Cina e gli altri vanno avanti, sarebbe la strada più sicura per il declino strategico dell’America? Che poi l’America possa davvero appendere le scarpe al chiodo è un altro paio di maniche.

Ma da questo lato dell’Atlantico non possiamo continuare a mettere la testa sotto la sabbia. Il guaio è che all’Europa calza a pennello un altro celebre dramma: la scena al termine del secondo atto della più celebre opera teatrale di Samuel Beckett, quando rientra il ragazzo che avverte che anche oggi il Signor Godot non verrà. Il ragazzo esce e Vladimir ed Estragon rimangono lì mentre dicono «Allora andiamo?» – «Andiamo». Ma l’indicazione scenica che mette fine al dramma recita «Non si muovono».

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