GIORNALI2019

Il Foglio, 16 luglio 2019 – «L’APERTURA VINCERÀ»

«La maggior parte dei paesi fa a gara per demolire le barriere e il libero scambio cresce. Guida anti fake news»

Non è un caso che il rifiuto della globalizzazione, economica e culturale, sommato al sospetto esplicito verso la società aperta, sia il filo conduttore che unisce populismi di matrice diversa. La gente è smarrita, ha paura, rifiuta le novità e rimpiange il bel tempo andato. Come ha spiegato Thomas Friedman, tre grandi forze stanno accelerando simultaneamente (la tecnologia, la globalizzazione e il cambiamento climatico) rimodellando il lavoro, l’istruzione, la geopolitica, l’etica e le comunità. E c’è uno sfasamento tra la rapidità del cambiamento e la nostra capacità di adeguare all’oggi i nostri sistemi di apprendimento, di formazione, di gestione, le reti di sicurezza sociale e le nostre leggi, in modo tale da permettere ai cittadini di ottenere il massimo da queste accelerazioni ed attutirne gli effetti negativi. Questo sfasamento è all’origine di gran parte dei fermenti e delle inquietudini che oggi stanno scuotendo la politica e la società sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo; e costituisce probabilmente la sfida più importante che abbiamo di fronte.

Ora, non c’è dubbio che il capitalismo debba essere riformato, migliorato e «civilizzato». Come sempre. La funzione della socialdemocrazia nel Novecento è stata appunto quella di dare una organizzazione, un contesto ordinato, alla «distruzione creatrice» del capitalismo (Prem Shankar). Non si è trattato solo di redistribuire a favore dei più deboli i frutti di quella spinta poderosa, ma di fornire un contesto (fatto di istituzioni, regole, iniziative economiche, sociali, culturali) in grado di sostenere il dinamismo economico riducendo il disordine e le sofferenze prodotti da quello stesso dinamismo. Allora si è trattato di governare la distruzione creatrice, attraverso l’iniziativa politica e sociale alla dimensione nazionale. Ora, come si affanna a ripetere Enrico Morando, si tratta di agire alla dimensione globale. Non c’è dubbio, inoltre, che il sistema internazionale (com’è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale) oggi sia ormai irriconoscibile. La causa? «The rise of the rest», come sappiamo. L’ascesa, cioè, delle potenze emergenti (della Cina, dell’India, ecc.), la globalizzazione dell’economia, il trasferimento, storicamente senza precedenti, di ricchezza relativa e di potere dall’Ovest all’Est del mondo e l’influenza crescente dei nonstate actors (mondo degli affari, tribù, organizzazioni religiose e perfino network criminali). E non c’è dubbio che il sistema internazionale si avvia a diventare un sistema globale multipolare con un divario di potenza sempre più contenuto tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Il che ci dice anche che se, come sembra, il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano (e se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica), all’Europa non resta altra strada che quella di provare davvero a realizzare un’unità significativa.

Ma, detto questo, la globalizzazione è viva e vegeta. A ritirarsi, a mettersi a bordo campo, per ora è solo Trump. Certo, l’improvviso ritirarsi dell’America al riparo del vecchio protezionismo, l’assalto frontale di Washington alla World Trade Organisation e alle regole che per decenni hanno sostenuto l’ordine commerciale mondiale, possono suscitare il timore (o la speranza) che la globalizzazione sia morta. Ma, in realtà, ad eccezione degli Stati Uniti, la maggior parte dei paesi fanno a gara per demolire le barriere ed abbracciare il libero scambio con una sollecitudine che non si vedeva da anni.

Nei giorni scorsi, mentre in America faceva notizia il fatto che Trump, una volta tanto, si trattenesse dal versare ulteriore benzina sul fuoco della guerra commerciale con la Cina (pur mantenendo dazi su beni cinesi del valore di centinaia di miliardi di dollari), l’Unione europea ha sottoscritto due accordi commerciali fondamentali che apriranno nuovi popolosi mercati (si tratta di centinaia di milioni di persone). Dopo vent’anni di tentativi, l’Unione europea e quattro paesi latinoamericani che compongono l’unione doganale del Mercosur (l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay) hanno concluso un ampio accordo commerciale per un valore di quasi 100 miliardi di dollari l’anno di commercio bilaterale. Inoltre, nonostante l’amministrazione Trump abbia detto peste e corna del Vietnam definendolo «addirittura peggiore della Cina» e abbia colpito Hanoi con nuovi dazi doganali, anche la UE ed il Vietnam hanno siglato un accordo commerciale di libero scambio che prevede la quasi completa (99%) eliminazione (graduale) dei dazi doganali tra i due blocchi. Senza dubbio, l’intesa «più ambiziosa» dell’Europa con un’economia emergente.
Propio nei giorni scorsi, a proposito dell’accordo con il Mercosur, la commissaria al commercio della UE Cecilia Malmstrom ha twittato: «Rafforziamo le intese multilaterali mentre qualcun altro le riduce in brandelli». L’Europa, infatti, è tra i concorrenti più attivi degli Stati Uniti. Da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, oltre ai due accordi menzionati, l’Unione europea ha sottoscritto accordi di libero scambio con il Canada, il Messico, il Giappone e Singapore; ed è in trattative avanzate con l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Cile. In una certa misura, infatti, lo sforzo europeo per rafforzare il libero scambio nel mondo è una risposta al protezionismo americano; un modo, cioè, per mettere l’Europa nelle condizioni di sorreggere l’edificio del commercio internazionale, anche se l’architetto dell’ordine globale dovesse piantare in asso la propria costruzione.
Lo ha sottolineato Maria Demertzis, il vice direttore di Bruegel, fra i più importanti think tank europei con sede a Bruxelles. Di fronte all’aggressione tariffaria e commerciale degli Stati Uniti, «l’Europa sta premendo sull’acceleratore degli accordi commerciali in modo da compensare, almeno in parte, le perdite che dovremo sostenere a causa della guerra commerciale americana». Il che spiega perché dopo due decenni di stallo, l’Europa e i paesi del Mercosur abbiano raggiunto un’intesa stipulando una sorta di «polizza assicurativa».

Ma non è solo l’Europa a darsi da fare per salvare il libero scambio. Dopo che Trump ha abbandonato la Trans-Pacific Partnership (TPP), un accordo commerciale imponente tra 12 nazioni che originariamente abbracciava il 40% del Pil globale, gli altri 11 paesi hanno portato comunque a termine l’intesa che è entrata in vigore l’anno scorso. Inoltre, all’interno del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (ora si chiama così), paesi come l’Australia, il Canada e il Giappone stanno lavorando a parecchi altri patti commerciali bilaterali e multilaterali. L’Australia ha in corso di definizione accordi commerciali con l’Indonesia, il Perù e Hong Kong ed è in trattative avanzate con altri raggruppamenti, inclusa l’Europa. Il Canada sta lavorando ad intese commerciali con il Giappone, Singapore, l’India e molti paesi dell’Africa e dell’America centrale. Il Giappone ha sottoscritto un accordo con il Messico ed è in trattative per un ampio accordo che comprende la Corea del Sud e la Cina. E i paesi del Mercosur che hanno appena sottoscritto una intesa con l’Europa, stanno puntando a concludere accordi con il Canada e la Corea del Sud. Inoltre, proseguono le trattative tra 16 paesi asiatici per formare una partnership economica regionale complessiva che approfondirebbe i legami economici tra le nazioni dell’Asia sudorientale e giganti economici come l’India e la Cina; e anche le nazioni africane hanno perfezionato il loro raggruppamento commerciale. La firma del Trattato di libero commercio continentale africano da parte di Benin e Nigeria (il Paese più popoloso e ricco del continente) è arrivata domenica 7 luglio, dopo 4 anni di negoziati; e ora i paesi del continente africano ad aver sottoscritto l’AfCFTA sono 54 su 55. Ad oggi solo l’Eritrea rimane fuori, per via del conflitto con l’Etiopia (sembra, tuttavia, che il recente avvio del processo di pace stia spingendo Asmara a chiedere di aderire). Il trattato mira a creare una zona priva di tariffe doganali per prodotti e servizi analoga a quella dell’Unione Europea e, come ha sottolineato subito Radio Vaticana, è «impossibile non pensare alle conseguenze che un aumento della ricchezza e la stabilizzazione di alcune aree potrebbe avere sul fenomeno migratorio».

Va da sé che mentre le aziende e i consumatori in Europa, Canada, Giappone vedranno crollare i dazi e aumentare il commercio bilaterale, i consumatori americani dovranno pagare prezzi più alti a casa loro e le aziende americane si troveranno a gareggiare con uno svantaggio crescente in mercati a lungo bramati. I coltivatori e gli allevatori americani, per esempio, avevano sempre sognato l’accesso al Giappone offerto dal TPP; invece, saranno gli allevatori australiani a godere di quei vantaggi mentre, nel frattempo, gli stessi coltivatori americani avranno perso gran parte del mercato cinese. Con l’accordo tra UE e Mercosur, i coltivatori e gli allevatori latinoamericani avranno accesso al mercato europeo (che resta una strada in salita per l’America) mentre l’Europa otterrà un accesso preferenziale per le esportazioni industriali, come automobili e macchinari. L’accordo UE-Mercosur «significa grandi opportunità per le nostre aziende e i nostri lavoratori» ha sottolineato infatti Malmstrom su Twitter: «Un mercato di quasi 300 milioni di persone aperto a noi ma precluso ai nostri concorrenti».

Certo, come lamenta Keith Johnson su Foreign Policy, per ora negli Stati Uniti le prospettive per un ritorno al libero scambio non sembrano affatto rosee. Il protezionismo è diventato improvvisamente la posizione di default della maggior parte degli elettori Repubblicani, anche se non ancora dei legislatori Repubblicani; mentre i Democratici sono tradizionalmente più diffidenti dei Repubblicani nei confronti del libero scambio: Bernie Sanders, si sa, usa il commercio come uno spauracchio e la senatrice Elisabeth Warren sostiene una variante del «nazionalismo economico» di Trump. Inoltre, una recente ricerca del Peterson Institute for International Economics rammenta che la sbandata verso il protezionismo deve meno alle preoccupazioni per la globalizzazione ed il commercio e più all’isolamento e alla xenofobia. Il che significa che i rimedi economici per far fronte alle preoccupazioni in merito alla globalizzazione (dagli adeguamenti commerciali alla riqualificazione professionale) non potranno fare davvero la differenza.

«In pratica – osserva l’inviato di Foreign Policy – ciò significa che mentre grandi porzioni dell’economia globale continuano ad abbattere le barriere al commercio, alimentando la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi relegati al ruolo di semplice spettatore. Proprio come la Gran Bretagna, che ha guidato la carica per il libero scambio nel XIX secolo, per poi ritirarsi qualche decennio dopo, mentre il mondo andava avanti, dietro il muro della «Imperial preference» – la politica doganale preferenziale per le merci dei paesi del Commonwealth britannico concessa dalla Gran Bretagna su base di reciprocità -, anche gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi da soli a resistere testardamente in controtendenza». Ma non c’è ragione di seguirli. Se anche il centrosinistra prende fischi per fiaschi e anziché assumere (com’è necessario) la dimensione europea come teatro della propria iniziativa («Europa prima di tutto», altro che «No Euro»), comincia a parlare di crisi irreversibile della società occidentale, mentre i nazional-populisti lavorano alla costruzione di muri, alle guerre commerciali, al protezionismo, allora sì che la situazione diventa pericolosamente simile a quella degli anni Trenta del Novecento.

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