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«LA COSCIENZA DI UN LIBERAL» – Il Foglio, 11 febbraio 2019

«Nell’Italia di oggi esiste lo spazio, sul terreno dell’apertura e della modernità, per una risposta al pensiero unico sovrasta e al tentativo di mettere in discussione le alleanze la democrazia liberale. Se il Pd non ce la fa, bisognerà provare con qualcos’altro».

Sarà come dice Steve Bannon che, in questo momento, l’Italia è «il centro dell’universo politico», il «cuore della rivoluzione» del nazional-populismo; staremo anche «ridefinendo la politica nel ventunesimo secolo», fatto sta che i due partiti espressione della «rivolta dei disagiati» invece di portarci nella nuova età del boom economico annunciata da Luigi Di Maio, sono riusciti a portare l’Italia in recessione dopo quattordici trimestri consecutivi di crescita. Esattamente come avevano detto i «poteri forti». E non poteva andare diversamente, avendo buttato dalla finestra un mare di soldi per provvedimenti sbagliati e inutili che abbiamo finanziato con clausole di salvaguardia da 25 miliardi. Quota cento ci costerà 40 miliardi, da qui al 2026. E bisognerà trovare i soldi mentre dovremo aumentare le tasse o tagliare da qualche parte. Ma facciamocene una ragione: è quello che vuole il popolo. Basta fare una riunione di condominio per vedere come siamo combinati. E persino a cena con gli amici, sarà l’età, si finisce sempre per parlare di pensione o di sussidi, dipende dalla latitudine.

Certo, abbiamo imparato che il nazional-populismo gravita intorno ad una serie di profondi cambiamenti sociali che sono motivo di preoccupazione crescente tra milioni di persone in Occidente. Roger Eatwell e Matthew Goodwin si riferiscono a questi cambiamenti di portata storica, che difficilmente svaniranno in tempi brevi, come alle «4 D». Abbiamo appreso che la natura elitaria della democrazia liberale ha favorito la sfiducia (distrust) nei confronti dei politici e delle istituzioni e alimentato tra un gran numero di cittadini la sensazione di non avere più voce in capitolo; che l’immigrazione e l’impressionante cambiamento etnico stanno alimentando forti paure circa la possibile distruzione (destruction) dell’identità storica, la cultura ed il tradizionale stile di vita della comunità nazionale; che l’economia globalizzata ha suscitato un sentimento particolarmente intenso che gli psicologi chiamano deprivazione relativa (deprivation), in conseguenza delle crescenti disuguaglianze di reddito e di ricchezza in Occidente e della perdita di fiducia in un futuro migliore; che i legami tra la gente e i partiti tradizionali si stanno spezzando e che questo de-alingment sta rendendo i sistemi politici in tutto l’occidente più instabili, frammentati ed imprevedibili di qualsiasi altro momento nella storia della democrazia di massa.

Sappiamo, inoltre, come anche stavolta (ce lo ha spiegato Friedrich von Hayek a proposito del fascismo e del nazionalismo) «nessun singolo fattore economico abbia contribuito, nel favorire siffatti movimenti, più dell’invidia del professionista senza successo, dell’ingegnere o dell’avvocato che hanno studiato all’università e in generale del ‘proletariato dal colletto bianco’»; che «il risentimento degli strati più bassi della classe media» allora «venne acuito dal fatto che la loro educazione e il loro addestramento in molti casi li aveva fatti aspirare a posizione direttive e che essi si consideravano come aventi diritto ad essere membri della classe dirigente. E se i membri della generazione più giovane, con il disprezzo per il profitto – disprezzo favorito dall’insegnamento socialista – disprezzavano le occupazioni indipendenti che comportano rischi e si accalcavano in numero sempre più crescente attorno a posti, più sicuri, da impiegato stipendiato, dall’atra parte essi chiedevano posti in grado di offrire loro il reddito e il potere cui, secondo loro, avevano diritto in base alla loro preparazione»; che il fascismo e il nazionalsocialismo «crebbero sull’esperienza di una società sempre più regolata» e che «ebbero successo, innanzi tutto, perché offrirono una teoria e una Weltanschauung, che sembrava una giustificazione dei privilegi promessi ai loro sostenitori».

Insomma, sappiamo un sacco di cose sul populismo al potere, eppure non sono in molti a riconoscere, come ha fatto Vauro, di aver «sbagliato a non capire immediatamente che la polpetta del grillismo era una polpetta avvelenata» e che, come ha detto Eugenio Scalfari, «i populisti sono i plebei al potere».

«La plebe è una cosa brutta assai e se uno vuole restare plebe non si merita niente», spiega a Lenù la maestra Oliviero nella prima puntata de «L’Amica Geniale», la serie Tv basata sul romanzo di Elena Ferrante. «Cos’era la plebe lo seppi in quel momento – ricorda poi Elena Greco, mentre assiste al matrimonio di Lila –  e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo». Non è una forzatura. Basta pensare alle penose giustificazioni di Di Maio e Di Battista sulle irregolarità nelle aziende di famiglia, al «chi se ne frega di andare a Lione» del ministro Toninelli o ai leoni da tastiera che ridono e scrivono «uno di meno».

Il termine, si sa, indica la parte del popolo più arretrata dal punto di vista culturale, sociale ed economico, in tono spregiativo o polemico, e in contesti ormai non più attuali. Ma forse calza di più il paragone con i Lazzari. É il nome usato spregiativamente dagli Spagnoli, per indicare a Napoli i popolani del quartiere Mercato, che parteciparono alla sollevazione di Masaniello. Il nome, esteso a indicare la plebe in rivolta di altre città meridionali, si perpetuò a Napoli e di Lazzari si parla in occasione delle sollevazioni popolari contro il generale Championnet. Piuttosto famoso fu il ruolo da loro svolto nella difesa sanfedista della città contro gli insorti della Repubblica napoletana del 1799 sostenuta dalla Francia rivoluzionaria (c’è sempre di mezzo la Francia). I Lazzari, è risaputo, combatterono contro l’esercito napoleonico (dunque giacobino), in nome della tradizione cattolica, e difesero Ferdinando IV quale legittimo re. A  determinare la loro reazione furono certo le voci delle violenze e dei sacrilegi perpetrati dalle truppe francesi e dai loro alleati giacobini in altre parti d’Italia. Ma l’arrivo di un nuovo dominatore fu vissuto anche come l’arrivo di nuovi gendarmi e nuove leggi che avrebbero potuto minacciare il loro modo di vivere (a volte non proprio legale). I Lazzari incarnavano, sotto certi aspetti, il rifiuto delle regole imposte dallo straniero, lo spiegano anche su Wikipedia. In effetti, benché miseri, riuscivano a sopravvivere senza doversi preoccupare eccessivamente del cibo o del vestiario, adattandosi a compiere qualsiasi mestiere che si presentasse loro occasionalmente, non disdegnando talvolta di compiere qualche piccolo furto o raggiro e, più spesso, mendicando. Nei vicoli della città, la vita del popolino continuò come sempre tra miseria e ignoranza, quasi a costituire un mondo a se stante, con proprie leggi e regole, con ruoli ben definiti e con le attività che da sempre lo caratterizzarono.

Insomma, «a Napoli la rivoluzione pochi la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la desidera», ha scritto Enzo Striano nel celebre romanzo storico nel quale racconta la vita di Eleonora de Fonseca Pimental sullo sfondo della rivoluzione napoletana. E a proposito dei Lazzari Striano aggiunge: «Si batteranno da belve, come già hanno fatto, per cacciar da Napoli Francesi e Giacobini, estranei, scocciatori emeriti, fastidiosi perturbatori d’un mondo quieto, fantastico, bene ordinato secondo i primordiali principi della vita: padre Dio, padre re comandano, provvedono alle cose grandi e noiose. Per il resto, li hanno sempre lasciati fare a mio loro, a celebrare i riti fanciulleschi, nell’esistenza indipendente e saggia». In definitiva, come scrisse proprio Eleonora Pimentel Fonseca sul suo “Monitore”, fu la consacrazione di uno stile di vita.

Secondo Loris Zanatta, infatti, l’idea di comunità cara ai populisti, «non è una mera costruzione astratta, bensì la ricorrente riformulazione di un immaginario sociale antico, sempre latente nelle società moderne, occidentali e non, e sempre pronto ad essere richiamato in vita» e la natura del populismo è incomprensibile se non si considera che «il suo immaginario comporta un’idea di democrazia assai differente, per non dire opposta, a quella rappresentativa derivata dal costituzionalismo liberale. L’immaginario populista «si richiama ad una visione del mondo che precede e contrasta la tradizione illuminista di cui il costituzionalismo liberale e lo Stato di diritto sono frutti storici. È cioè agli antipodi della tradizione illuminista in cui l’individuo liberato da vincoli d’ogni natura partecipa all’istituzione della comunità politica su una base contrattuale stabilità tra cittadini uguali dinanzi alla legge. Il populismo infatti si basa, come s’è visto, sulla visione contraria, quella dell’uomo subordinato alla sua comunità d’appartenenza». Nel ‘nucleo’ del populismo ritroviamo in sintesi un orizzonte ideale che non solo rigetta l’ethos della democrazia di tipo liberale, ma «ne fa la più robusta corrente antiliberale dell’era democratica». Insomma, come scrivono i «patrioti europei» nel manifesto-appello promosso da Bernard-Henry Lévy, è di questo che si tratta: «dietro la strana sconfitta dell’Europa che si profila all’orizzonte, dietro a questa nuova crisi della coscienza europea che si accanisce a demolire tutto ciò che ha reso le nostre società grandi, nobili e prospere, vi è il tentativo – a cui dagli anni Trenta in poi non si era mai assistito – di mettere in discussione la democrazia liberale e i suoi valori».

E il giro di rumba con Maduro (e Putin) e contro Guaidó è davvero «una campana a morto per i parametri, le coordinate, gli impegni e le alleanze del nostro stato costituzionale, della nostra nazione europea  occidentale». La storia d’Italia è storia d’Europa. È l’armata francese di Napoleone a rappresentare e diffondere gli ideali rivoluzionari di libertà. Senza l’esercito francese e la flotta inglese non avremmo completato la nostra unità nazionale. E la nostra repubblica deve parecchio al barbiere di Baltimora e all’idraulico di Auckland della VII armata americana del generale Patton e dell’VIII armata britannica del generale Montgomery. Con l’Unione europea (la cui l’idea originaria è quella di un sistema nuovo in cui alla nozione di interesse nazionale si sostituisca, a vantaggio di tutti, quella di interesse comune) e le sue direttive è lo stesso. E le resistenze sono le stesse.

Si è adoperato, non per caso, il concetto di rivoluzione passiva. E senza scomodare Gramsci, proprio Vincenzo Cuoco ha chiamato rivoluzione passiva quella che si è avuta in Italia per contraccolpo delle guerre napoleoniche. Vincenzo Cuoco collocava la Rivoluzione francese iniziata nel 1789 fra le attive e quella napoletana del 1799 fra le passive. «La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva – scriveva nel «Saggio sulla rivoluzione di Napoli del 1799» -, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti, e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quella istessa formò nel principio della nostra repubblica il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napoletana si poteva considerare come divisa; due popoli, divisi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata su modelli stranieri, così la sua natura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che poteva sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà».

È lì che ci siamo schiantati con Renzi e con tutti i precedenti tentativi di riforma. Ovviamente, ci sono stati parecchi errori e i moderni samurai della burocrazia italiana, la corporazione che maggiormente si oppone al cambiamento del Paese, ci hanno messo del loro. Ma ancora una volta «le vedute de’ patrioti, e quelle del popolo non erano le stesse». Il guaio è, scrive Cuoco, che «una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo da cui l’umanità non si libera se non quando le sue idee saranno di nuovo al livello coi governi suoi (…) Ma talora passano de’ secoli, e si soffre la barbarie prima che questi tempi ritornino, ed il genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non a traverso degli estremi de’ mali».

Sperando che ci vengano risparmiati «gli estremi de’ mali» e il trascorrere dei secoli, ora l’Italia ha urgente bisogno di un partito che sappia valorizzare il potenziale economico esistente nel nostro paese scommettendo sull’innovazione, gli investimenti privati, i capitali stranieri, la ricerca, la produttività, la concorrenza, il commercio internazionale, la lotta per avere salari più alti. Se il Pd non ce la fa, bisognerà riprovare con qualcos’altro. La partita è persa solo quando smettiamo di provare. Bisogna avere chiara la direzione di marcia e «guadagnare l’opinione del popolo». Volumnia spiazza Coriolano nel celebre dramma di Shakespeare con un argomento difficile da controbattere: gli ricorda che lui stesso ha detto che in guerra «onore e astuzia» procedono insieme. Perché non possono farlo in tempo di pace? Parli dunque al popolo!

Nell’Italia di oggi lo spazio per una risposta al pensiero unico sovranista, al tentativo di mettere in discussione le alleanze, la collocazione dell’Italia nel mondo e la democrazia liberale e i suoi valori, esiste eccome. Ma bisogna scegliere con coraggio di ribellarsi al bipolarismo populista e presidiare il terreno dell’apertura e della modernità. Bisogna battersi. Parlare al popolo. Chiamando tutti a raccolta. Poi verranno i francesi, presto sbarcheranno gli americani e gli alleati entreranno a Roma. È quasi primavera.

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