I 3 punti della svolta a destra europea e i puntini da connettere del Pd – Il Foglio, 11 aprile 2018
Ora che anche Viktor Orban, teorico della «democrazia illiberale» e modello per tutti i populisti d’Europa, ha stravinto le elezioni politiche in Ungheria, non sarebbe male tornare, con un respiro più ampio, sulle tendenze di fondo emerse nelle elezioni italiane.
Sarà anche tutta colpa di Renzi, sarà che la sinistra deve «tornare tra la gente», ma a ben guardare, più di ogni altra cosa, le elezioni del 4 marzo scorso che hanno trasformato l’Italia nel «cuore della rivoluzione» bannoniana, hanno registrato, come un sismografo, i grandi cambiamenti che si stanno propagando rapidamente in tutti i traballanti sistemi politici europei.
Le tendenze più importanti sono tre anche nella variante italiana dei movimenti tellurici in corso.
La prima è la consacrazione della Lega di Matteo Salvini che ha strappato a Silvio Berlusconi la leadership della destra. La Lega non è un nuovo partito. La Lega Nord è nata nel 1989 come un partito dichiaratamente indipendentista, federalista ed etnonazionalista (arrivò a proclamare l’indipendenza della Padania) ed è stata al governo con Berlusconi in diverse occasioni. Ma, di recente, il suo appeal si è diffuso più a Sud, via via che Salvini metteva la sordina ai temi «nordisti» delle origini e (emulando altri nazional-populisti come Pim Fortuyn e Geert Wilders in Olanda, Marine Le Pen in Francia, Heinz-Christian Strache in Austria e, appunto, Orban in Ungheria) puntava sulle questioni «culturali», enfatizzando la minaccia che viene dall’islam e che molti collegano alla crisi dei rifugiati.
Ma la svolta a destra dell’Italia non è un fatto isolato. E non dovrebbe sorprendere. La rilevanza crescente della destra radicale (caratterizzata da una visione del mondo nazionalista ed autoritaria, dall’opposizione all’immigrazione e dalla retorica populista) è uno degli sviluppi più importanti in tutti i sistemi politici europei degli ultimi 30 anni. Eppure, sono in molti a trascurare la portata e la velocità con la quale questo spostamento a destra si sta compiendo in tutta Europa. E la cosa non ha semplicemente a che fare con la crisi finanziaria post 2008 (che pure un contributo l’ha dato). Uno studio di Markus Wagner e Thomas Meyer dell’Università di Vienna, basato sull’analisi delle piattaforme elettorali di 68 partiti in 17 paesi europei, rivela che dal 1980 l’Europa nel suo insieme si é spostata nettamente a destra e che anche i partiti tradizionali hanno sostituito le politiche liberali con punti di vista più autoritari. L’ampiezza di questo spostamento si riflette nel fatto che nel 2015 la posizione intermedia dei partiti di centro-sinistra su questioni come l’immigrazione e l’integrazione, coincideva in pratica con la posizione dei nazional-populisti del 1980. In settembre si voterà in Svezia, dove i socialdemocratici hanno annunciato una nuova strategia per far presa sugli elettori: posare la carota e prendere il bastone in materia di immigrazione. Non è detto che funzioni, ma resta il fatto che lo spostamento a destra in Europa è conciso con il crollo generale della socialdemocrazia.
Il che ci porta alla seconda tendenza cruciale. In Italia il Pd è crollato al di sotto del 20% dei voti per la prima volta dalla nascita. Sono in molti a ritenere che ciò ha a che fare con le vicende di casa nostra (tutta colpa di Renzi, appunto), ma in realtà è una testimonianza ulteriore del fatto che la socialdemocrazia in Europa attraversa una crisi gravissima. Solo l’anno scorso, i partiti socialdemocratici sono crollati a percentuali a una sola cifra in Francia, nella Repubblica Ceca e in Olanda; in Germania hanno ottenuto la percentuale più modesta dal 1933 e in Austria il numero di seggi più esiguo del Dopoguerra. Sempre più, non è in discussione se i socialdemocratici possano ritornare ad essere elettoralmente competitivi ma se, nel lungo periodo, possano rimanere elettoralmente rilevanti. Con la sconfitta del Pd, oggi ci sono meno di mezza dozzina di partiti di sinistra al governo nell’intera area dell’Unione europea, mentre nel 2000 ce n’erano 15. E le cose possono peggiorare. Sono passati trent’anni da quando Adam Przeworski ha illustrato (in “Capitalism and Social Democracy”) il dilemma centrale che i socialdemocratici devono fronteggiare: “Per avere successo alle elezioni devono rivolgersi a categorie sociali e culturali nuove, ma così facendo i loro sostenitori tradizionali si sentono traditi”. E dal 1980, quel dilemma è stato esacerbato dall’irrompere in tutta Europa (ed anche negli Stati Uniti), di un potente discrimine valoriale tra i liberali della classe media e i lavoratori (perlopiù conservatori o autoritari sul piano sociale), che sta rimpiazzando la vecchia divisione «destra-sinistra». Un discrimine che ha investito il centro-sinistra con nuove questioni (come l’immigrazione, l’integrazione europea e la crisi dei rifugiati) che mettono in subbuglio il proprio elettorato. Fatto sta che il voto dei lavoratori si è indirizzato per due terzi verso i nazional-populisti. L’Europa, per capirci, ha celebrato l’elezione di Emmanuel Macron, ma i lavoratori sono stati l’unico gruppo a votare in maggioranza Marine Le Pen. Questi elettori privilegiano la cultura sugli interessi di classe. E visto che l’immigrazione, l’islam e la crisi dei rifugiati stanno dominando l’agenda (secondo un’indagine di Eurobarometro, in tutto il continente, le due questioni più importanti per la gente restano infatti l’immigrazione e il terrorismo) è facile prevedere un balzo in avanti dei nazional-populisti nelle elezioni del Parlamento europeo del prossimo anno.
L’ascesa del Movimento cinque stelle, che alle elezioni ha sfondato specialmente tra i giovani e i disoccupati e nelle regioni più povere del Sud, riflette (come del resto l’ascesa di Macron in Francia, della AfD in Germania, dei democratici svedesi e di altre nuove formazioni) la terza importante tendenza: una mobilità elettorale crescente e storicamente senza precedenti. Stiamo assistendo ad un cambiamento storico. I partiti tradizionali sono sotto pressione come mai prima d’ora, mentre stanno emergendo nuovi concorrenti (tra il 2004 e il 2015, la percentuale raccolta dai partiti tradizionali è scesa di 14 punti, mentre quella conquistata dai nuovi partiti populisti è più che raddoppiata).
Insomma, il sistema dei partiti europeo è più instabile che mai, con più persone che cambiano il loro voto da una elezione all’altra e non mostrano più la fedeltà partigiana che ha caratterizzato le generazioni precedenti. L’emorragia dei partiti tradizionali e la crescita del peso dei nuovi partiti riflette un processo di crescente volatilità, cominciato negli anni ’70, che si è accelerato durante gli anni ’90 ed ha registrato una impennata durante la recessione, raggiungendo livelli mai riscontrati in precedenza, neppure nel periodo tra le due guerre. La maggiore disponibilità da parte della gente a cambiare il loro voto da un ciclo elettorale all’altro, spiega perché un partito come il Movimento cinque stelle possa nascere e conquistare la maggioranza relativa alle elezioni politiche nello spazio di soli dieci anni.
Insomma, non dobbiamo attendere per sapere se la politica europea è destinata a cambiare: è già cambiata. La vecchia divisione destra-sinistra non è sparita, ma ha assunto un ruolo secondario e non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema. Si tratta perciò di dar forma ad un sistema dei partiti capace di rappresentare la nuova divisione che c’è oggi in Italia e in Europa (e che Pietro Ichino ha intuito prima di tutti) tra coloro che rifiutano l’interdipendenza e coloro che la ritengono necessaria; e prima si fa, meglio è. Per il Pd potrebbe essere l’occasione per connettere i tanti frammenti sparsi, apparentemente slegati e, come in un vecchio gioco per bambini, svelare la figura nascosta unendo i puntini nell’ordine numerico corretto. «Only connect», nient’altro che connettere, è il motto di «Casa Howard», il romanzo di Edward M. Forster pubblicato nel 1910. Ma non è forse un programma adatto a tempi come i nostri?
Alessandro Maran