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La coalizione del buon senso

«I grillini al governo? Proviamo. Peggio degli altri non potranno fare», si sente dire tra la gente. Potremmo chiamarlo esperimento Venezuela.

Oggi il Venezuela è un paese devastato: i bambini sono senza cibo, gli ammalati senza medicine, i prigionieri senza diritti e un sacco di gente, senza speranza, fugge in massa dall’altra parte della frontiera. Ma anche lì, non si è trattato di un progetto politico attuato secondo un copione preciso. Anche lì, il processo sociale che è cominciato nel 2009 con «la grande vittoria del popolo e della rivoluzione» (il via libera, cioè, alla riforma costituzionale che ha permesso a Hugo Chavez di ripresentarsi alla scadenza del secondo mandato), si è sviluppato in modo molto casuale, per tentativi, rispondendo alle sollecitazioni del momento, senza una strategia di ampio respiro.

Il cosiddetto «socialismo del XXI secolo» ha faticato parecchio a restare in sella; e in questo sforzo ha speso la maggior parte delle proprie energie e delle risorse del paese. I chavisti hanno dimostrato di non essere all’altezza di governare un paese ma di essere decisi ad impedire con ogni mezzo l’alternanza.

Il presidente Chavez ha lasciato come eredità ai venezuelani un’utopia: un altro «mare della felicita» («Cuba es el mar de la felicidad. Hacia allá va Venezuela», sosteneva) che, ovviamente, nessuno poteva raggiungere. Il viaggio del Venezuela aveva una meta, ma non c’era nessun piano di volo e nessun itinerario. In questo senso, come  ha sottolineato  l’esule venezuelano Tulio Hernández, si è trattato di un esperimento. Non è stato una replica del comunismo cubano o sovietico, o della «democrazia popolare» di Gheddafi, e neppure una copia di Videla o di Pinochet. È stato un’altra cosa, un ibrido. Imbrigliato (fino a un certo punto) dalle regole del gioco democratico scritte nella Costituzione (che gli stessi chavisti hanno approvato), assediato da nuove relazioni internazionali che limitano la possibilità di istaurare dittature di vecchio stampo e dalla circolazione immediata delle informazioni sui social network, il chavismo ha imparato a giocare d’astuzia, ad escogitare trucchi ed espedienti che gli hanno permesso di mantenersi al potere senza dover fare apertamente quel che la sua natura totalitaria gli avrebbe imposto: dare un calcio al tavolo e governare con la forza delle armi ed il sangue.

Paradossalmente, questo è stato il suo vantaggio competitivo. Disorientare le forze democratiche, cambiare gioco continuamente. Governare con la Costituzione in una mano e una pistola nell’altra. «Il suo più grande trionfo – ha scritto Tulio Hernández – è stato quello di minare, attraverso un progressivo logoramento, le riserve emotive degli oppositori. Della base popolare e della dirigenza. Il chavismo, che al governo si è rivelato, senza dubbio, un fallimento, al tempo stesso, è una macchina oliata ed efficiente (anche se dannosa), una rete a strascico per la pesca elettorale. Una ago ipodermico capace di inoculare la sconfitta. Una macchina per fabbricare disperazione. Un’apparizione macabra che suscita isteria. Non è facile combattere una cosa simile».

Non è facile né in Venezuela, né alle nostre latitudini, dove il fenomeno populista (di sinistra e di destra) è ricomparso aggiornato. La «stanchezza democratica» ha apparecchiato la tavola a Chavez (e alla sua versione attuale peggiorata), ai vari Trump e Le Pen, e anche ai Di Maio e ai Salvini di casa nostra.

Due idee sono comuni ai nuovi populismi: la costruzione e la demonizzazione del nemico (che, ovviamente, bisogna distruggere) e la giustificazione di qualunque tipo di scorciatoia istituzionale in nome del «popolo». Si tratta di estremismi esaltati. In Venezuela predicano l’odio di classe e il terrorismo di Stato; e dovunque abbiamo a che fare con leadership bugiarde e con minacce serie: a volte xenofobe, altre volte fondamentaliste, altre ancora nazionaliste e razziste.

Héctor Schamis, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi su El País con il titolo «La coalición de los sensatos», ha evidenziato la necessità di reagire a questa politica dell’esaltazione demagogica  del «popolo» (e della rabbia) con la ragionevolezza: «Quella del leader che non grida, spiega. Non insulta né discredita, argomenta. Non impone, persuade». Dalla Spagna alla Francia di Macron e alla Germania di Angela Merkel l’antidoto contro la demagogia xenofoba si sta concretizzando sulla base di un obiettivo: rivitalizzare e rimodellare l’Unione europea (l’esperienza collettiva di costruzione democratica più importante della storia d’Europa). E anche in America Latina, di fronte al ritorno di dittature che vestono i panni del populismo, si erge, come dice Schamis, il buon senso di Lenin Moreno e la vittoria del principio dell’alternanza, dei boliviani che sbarrano la strada alla «eternizzazione» di Morales, di Piñera in Cile, di un Macri che bolla il governo di Maduro per quello che è.

I populisti, a ben guardare, si stanno coalizzando contro questo spettro che si aggira per l’Occidente: «la coalizione del buon senso». Da qui, parafrasando Marx, due conseguenze: la coalizione viene ormai riconosciuta da tutti i populisti come il loro nemico; è tempo che «los sensatos» espongano apertamente a tutto il mondo la loro prospettiva, i loro scopi, le loro tendenze, e oppongano davvero ai populisti di ogni genere un manifesto (appunto) del buon senso trasversale.

 

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