In questi giorni, la battaglia sullo status della Catalogna ha subito un’accelerazione impressionante.
I legislatori catalani hanno deciso di andare avanti con il referendum del 1 ottobre sulla separazione dalla Spagna. La Corte costituzionale spagnola ha sospeso la consultazione con un provvedimento d’urgenza e i politici catalani hanno detto che procederanno comunque.
Lunedì si festeggia la Diada Nacional de Catalunya, il giorno di festa nazionale della Catalogna, che viene celebrato l’11 settembre di ogni anno e ci si attende che centinaia di migliaia di sostenitori dell’indipendenza scendano in piazza a Barcellona in una dimostrazione di forza, intorbidando ulteriormente le acque.
Sembra la ricetta per una crisi politica imprevedibile e caotica che minaccia di spingere la Spagna in un territorio sconosciuto. «La cosa è andata fuori controllo», ha detto infatti Javier Solana, ex ministro degli esteri (ed ex segretario generale della Nato) della Spagna. «Non siamo più in una situazione normale di conflitto politico, dove i politici combattono ma alla fine rispettano le regole del gioco».
Appena alcune settimane fa, la Catalogna è stata teatro di un attacco terroristico che ha ucciso 16 persone, travolte da un van lanciato sulla passeggiata principale di Barcellona. Ma la dimostrazione di unità che ne è seguita si è rivelata solo un breve intermezzo. Quasi immediatamente, sia i politici spagnoli che quelli catalani, oltre a puntare il dito l’uno contro l’altro rinfacciandosi i possibili errori sulla sicurezza, hanno ripreso a bisticciare sulle aspirazioni della regione.
Ora i leader separatisti affronteranno sanzioni e la sospensione dall’incarico se dovessero andare avanti con il referendum, che è stato dichiarato illegale dal governo centrale di Madrid, con il sostegno delle corti spagnole.
Almeno 6000 urne elettorali sono state immagazzinate in una località segreta per timore che possano essere confiscate dalla polizia. La maggioranza indipendentista del parlamento catalano ha deliberato la procedura d’urgenza, modificato l’ordine del giorno e approvato la «legge di rottura» (cioè le norme che regoleranno la transizione giuridica e la fondazione della repubblica catalana: le linee guida per mettere in atto davvero la secessione) tra le proteste dell’opposizione unionista.
La determinazione del Primo Ministro Mariano Rajoy deriva, in parte, dalla sua resistenza (coronata da successo) alle precedenti pressioni catalane, compresa quella del novembre 2014, quando la Catalogna ha tenuto il suo ultimo voto sulla separazione. Ma quella del 2014 è stata una consultazione non vincolante. Allora sono andati a votare meno del 40% degli elettori e circa l’80% dei votanti hanno scelto l’indipendenza. Questa volta, il governo della Catalogna ha promesso che il referendum sarà vincolante, anche se la Corte costituzionale spagnola lo ha dichiarato illegale e anche se gli oppositori catalani dell’indipendenza boicotteranno la consultazione. Ed è questo che rende significativamente più rischioso questo round della contesa.
Il separatismo ha profonde radici culturali e storiche in Catalogna, che mantiene una propria lingua distinta.
La Diada Nacional de Catalunya di lunedì prossimo commemora la resistenza della regione durante la Guerra di Successione, specialmente della città di Barcellona, che è rimasta sotto assedio per più di un anno da parte delle truppe borboniche. Dopo tredici mesi di assedio, la città di Barcellona si arrese alle truppe di Filippo V re Borbone, l’11 Settembre del 1714.
Ad un certo punto, i legislatori nazionali della Spagna sono stati vicini a soddisfare il sentimento nazionalista catalano consentendo alla regione un’ ampia autonomia speciale. Ma quando lo statuto è stato cassato dalla Corte costituzionale spagnola nel 2010, le tensioni sono riemerse.
La disputa ha ripreso vigore durante la crisi finanziaria dopo che Rajoy ha respinto l’appello da parte della Catalogna di ridurre il suo contributo al sistema fiscale spagnolo che trasferisce denaro dalle regioni più ricche e quelle più povere.
La mossa ha finito per alimentare la sensazione in Catalogna (la regione spagnola più ricca), che Madrid stesse e ingiustamente «succhiando» la sua ricchezza.
La Spagna è riemersa dalla crisi bancaria come la punta di diamante della ripresa economica europea, con un prodotto interno che quest’anno dovrebbe crescere più del 3%. Ma ciò non ha frenato la spinta per l’indipendenza in Catalogna guidata dai separatisti che detengono la maggioranza nell’assemblea regionale dal 2015.
«Avere migliori dati macroeconomici non significa che la gente abbia più denaro da spendere e si senta meglio», ha ammonito infatti Josep Borrell, un economista catalano ed ex leader del Partito socialista spagnolo. Di conseguenza, ha aggiunto, il leitmotiv separatista che «la Spagna ci deruba» resta un messaggio molto potente. Borrell, comunque è tra quelli che hanno sfidato energicamente la pretesa dei separatisti che una Catalogna indipendente avrebbe un futuro economico migliore.
Ciononostante, Madrid e Barcellona ora sono incastrate in una lotta nella quale sono impegnati a rendersi pan per focaccia e nella quale ciascuna parte accusa l’altra di comportamento antidemocratico. I separatisti dicono che Madrid sta negando ai catalani il diritto democratico di votare sul loro futuro. Madrid sostiene che i separatisti stanno minando la democrazia, ignorando le decisioni della Corte e violando la costituzione.
Nei giorni scorsi il governo di Rajoy ha intrapreso un’azione legale per assicurarsi che la giustizia spagnola annulli le leggi che i separatisti hanno approvato prima del referendum. E giovedì i giudici hanno intimato ai sindaci e ai funzionari della Catalogna che il loro dovere è quello di «impedire o paralizzare» un referendum illegale. Come leader della Spagna, ha aggiunto Rajoy, «farò tutto quel che sarà necessario senza lasciare nulla di intentato per fermare la deriva del secessionismo».
In risposta, Carles Piugdemont, il leader della Catalogna ha detto alla televisione catalana che nessun politico e nessuna corte di Madrid possono fermare il referendum. Ed ha previsto che il 1 ottobre la Catalogna sarà travolta da uno «tsunami democratico» e che le sue strade saranno piene di cittadini decisi a votare favore dell’indipendenza. La democrazia, sostiene Puigdemont, significa «ascoltare i cittadini», mentre a Rajoy sta facendo «un’altra cosa» minacciando punizioni con il sostegno dei giudici spagnoli.
Puigdemont e i suoi colleghi sembrano preparati a proseguire la lotta anche se ciò dovesse comportare un procedimento giudiziario nei loro confronti. Questo è quel che è accaduto il marzo scorso ad Arturo Mas, il precedente leader della Catalogna, che è stato sanzionato e sospeso dall’incarico per due anni dopo che la Corte lo ha ritenuto colpevole di aver organizzato l’ultimo referendum sull’indipendenza.
E questa volta, la debole presa sul potere che hanno sia Puigdemont che Rajoy, complica ulteriormente il conflitto. Il primo guida una coalizione separatista nella quale il suo partito (Convergència Democratica de Catalunya) ha perso influenza e potere, in parte per le dispute sul secessionismo, ma anche perché risulta invischiato in casi di truffa. Rajoy, invece, guida un governo di minoranza a Madrid ed un partito, il Partido Popular, travolto dagli scandali.
Fin qui, Rajoy ha resistito agli appelli, che vengono dagli elementi più duri del suo elettorato conservatore, di usare i poteri di emergenza garantiti dalla Costituzione spagnola per riprendersi il controllo amministrativo della Catalogna. Ma non ha scartato del tutto un passo del genere, in particolare se il governo di Puigdemont dovesse dichiarare unilateralmente l’indipendenza.
Va da sé che ogni mossa ulteriore finirebbe per provocare una escalation significativa.
A questo punto però, sia che il referendum abbia successo, sia che non ne abbia, i separatisti di Puigdemont hanno sollevato aspettative per un vero e proprio show down. Inoltre, sia che vicano, sia che perdano, i separatisti possono ancora scendere in piazza, avverte Francesc Carreras, un costituzionalista che ha aiutato il lancio di Ciudadanos, un partito che si oppone fermamente all’indipendenza. «Dovremmo aspettarci una versione catalana di Maidan», ha detto riferendosi alla piazza di Kiev che, nel 2014, è diventata il centro della rivoluzione Ucraina. «Il che potrebbe creare una situazione perfino più imprevedibile e tesa», ha aggiunto. «Ma in democrazia si deve rispettare anche il diritto di protestare».
Qualche giorno fa, in una noterella, Stefano Ceccanti ha ricordato che: «Quasi tutti i giornali italiani prendono sotto gamba il conflitto catalano che è potenzialmente esplosivo. Già la Corte costituzionale e il pubblico ministero hanno prospettato di processare i capi secessionisti e chi organizza il referendum illegale (come è inevitabile che sia in uno Stato di diritto) e si profila la sospensione dell’autonomia regionale. Non si può neanche escludere a priori che si verifichino violenze. La vicenda però parla anche a noi.
Quando alcuni degli attuali leader secessionisti cominciarono a prospettare indipendenza e referendum (mi riferisco in particolare a quelli moderati di Convergenza) non credevano davvero a quello che dicevano. Volevano solo prendere voti, alludendo all’idea populista che nella crisi economica se la Catalogna fosse stata da sola sarebbe stata meglio (il vero popolo sano tradito dal vincolo di uno stato ingiusto e cattivo). Quando però prendi voti sulla base di una certa retorica propagandistica, pur fasulla, e finisci al governo sei poi in qualche modo vincolato a seguirla. Ti potresti salvare solo se restassi all’opposizione perché avresti l’alibi di non avere il potere. Il dramma dei populisti se arrivano al Governo è che sono spinti ad applicare davvero ciò che dicono, anche se spesso non lo dicevano sul serio».
Appunto.