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Russiagate: gli hacker e l’”indifferenza” di Trump – www.italiaincammino.it, 20 Giugno 2017

Nel corso del weekend trascorso a Camp David, il presidente Donald Trump, con un paio di tweet rabbiosi, è tornato a parlare di “caccia alle streghe”, ha lamentato che le indagini distolgono l’attenzione dalla sua agenda politica e si è descritto più popolare di Barack Obama.

L’inchiesta su Trump rappresenta, tuttavia, un’escalation della crisi. Le indagini si sono allargate dalla presunta collusione tra Mosca e la Casa Bianca, alla possibilità che il presidente abbia ostacolato la giustizia, cioè lo stesso reato che durante il Watergate era costato il posto a Nixon.

Il procuratore speciale sta indagando anche eventuali reati finanziari commessi da persone vicine al capo della Casa Bianca, che potrebbero riguardare l’incontro avuto dal suo genero Kushner con il banchiere russo Sergey Gorkov, legato a Putin. Ed il Senato ha deciso di rafforzare le sanzioni contro Mosca per gli attacchi condotti durante le presidenziali.

Il cyberattacco contro gli Usa

Ma il problema è politico, come si sarebbe detto una volta. Il New York Times lo ha riassunto così: “Una potenza straniera rivale ha lanciato un cyberattacco ostile agli Stati Uniti, interferendo con le elezioni presidenziali del 2016 e le prove lasciano intendere che non si fermerà qui, ma al presidente Donald Trump la cosa sembra non importare”.

Insomma, le agenzie di intelligence americane hanno concluso che la Russia ha preso di mira direttamente l’integrità della democrazia americana e, tuttavia, a distanza di cinque mesi da quando ha assunto l’incarico, il “commander in chief” non sembra preoccupato dalla minaccia alla sicurezza nazionale americana.

Il solo aspetto della vicenda che sembra attrarre la sua attenzione è che si possa mettere in discussione la sua vittoria elettorale. E come come sostiene il NY Times, “se non fosse per le continue inchieste sulla possibile collusione tra la campagna di Trump e i russi (e se lo stesso Trump abbia ostacolato quelle inchieste), l’indifferenza del presidente sarebbe di per sé una notizia da prima pagina”.

Gli hacker e Putin

Il caos delle ultime settimane ha forse oscurato la portata, l’impudenza e il carattere senza precedenti dell’attacco russo, ma conviene tenerlo a mente. Sotto gli ordini diretti del presidente Vladimir Putin, degli hacker collegati con l’intelligence militare russa sono entrati negli account e-mail dei principali funzionari del Democratic National Committee e del manager della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta; hanno passato decine di migliaia di e-mail al sito web di WikiLeaks, che le ha postate con l’obiettivo di danneggiarne la campagna.

E più inquietante ancora, gli hacker hanno trovato il modo di accedere ai database degli elettori in almeno 39 Stati, in alcuni casi hanno cercato di alterarne o cancellarne i dati; e sembra anche che abbiano cercato di controllare i computer di più di 100 funzionari che prestavano servizio presso gli uffici elettorali locali nei giorni precedenti al voto dell’8 novembre.

Le iniziative dei russi

Non c’è alcuna prova che questi interventi abbiano influenzato il risultato delle elezioni. Ma la cosa va molto al di là di questo. I russi hanno intrapreso iniziative analoghe in altri paesi.

Può darsi, infatti, che le elezioni presidenziali americane siano state finora il loro più grande traguardo, ma sicuramente non sono state il loro primo obiettivo.

Negli ultimi 10 anni si sono introdotti senza autorizzazione in reti protette di computer in Estonia, Ucraina, Polonia, Germania, Francia e Bulgaria, spesso rubando dei dati. E come hanno fatto in America, hanno disseminato fake news e disinformazione per condizionare le elezioni anche in altri paesi. Si tratta di una minaccia globale, che va presa seriamente.

Le sanzioni a Putin

In dicembre il presidente Barack Obama ha risposto infliggendo a Putin un nuovo round di sanzioni, espellendo dozzine di sospetti agenti dell’intelligence russa e impedendo l’accesso alle proprietà che hanno usato nell’attività di intelligence.

E il 14 giugno scorso, il Senato americano ha votato (97 a 2) per impedire a Trump di sospendere unilateralmente queste sanzioni. Nel frattempo la maggioranza degli americani approva le conclusioni della comunità dell’intelligence, e cioè che la Russia ha interferito con le elezioni.

Trump, invece, è stato a dir poco sbrigativo. Da candidato ha incoraggiato gli hacker russi a trovare le migliaia di e-mail che, ha detto, Hillary Clinton avrebbe illegalmente cancellato; e da presidente eletto, la sua reazione ai rapporti che dimostravano che la Russia aveva tentato di far girare le elezioni in suo favore, è stata quella di sfidare la credibilità della comunità dell’Intelligence, dicendo che era tempo “to move on”.

Ed è rimasto scettico anche dopo l’insediamento. Secondo il Wall Street Journal, in una telefonata con il direttore della National Security Agency, Michael Rogers, ha “contestato la veridicità” delle prove dell’influenza russa. E James Comey, l’ex direttore dell’FBI che Trump ha licenziato in maggio, nella sua testimonianza al Senato, ha negato che il presidente americano (a differenza di come ha reagito quando si è preoccupato che l’inchiesta potesse coinvolgerlo personalmente) abbia mai chiesto informazioni sull’ingerenza russa.

L’attacco russo e il New York Times

In altre parole, Trump sembra considerare l’attacco russo solo nella misura in cui lo chiama in causa direttamente. Anzi, a suo giudizio, quella dell’ingerenza russa sarebbe una “ossessione” pilotata dai democratici in agitazione per aver perso delle elezioni che erano convinti di vincere. Ma questo, lo rimprovera il NY Times, è “chiaramente falso” e “ignora una minaccia reale”. Insomma, come ha detto Comey a proposito dell’attacco russo: “Non riguarda i Democratici o i Repubblicani. Riguarda l’America”.

Questo è il punto. Anche se l’inchiesta non dovesse provare alcun legame e collusione con i russi, il rifiuto del presidente di accettare la realtà dei fatti in relazione ad un attacco senza precedenti alla democrazia americana rischia di rendere gli Stati Uniti vulnerabili ad attacchi ancora più nocivi.

Insomma, la vera “ossessione” sembra essere quella di Trump per la sua sua immagine, che lo sta distraendo dal suo più importante dovere, quello di proteggere la sua nazione.

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