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La più scivolosa delle bucce di banana

Ad ottobre ci saranno in agenda tre appuntamenti da brivido: si ripetono le elezioni presidenziali in Austria e ci saranno il referendum sull’immigrazione in Ungheria e il referendum costituzionale in Italia. L’appuntamento in Italia rischia di diventare uno tsunami per l’Eurozona. «Europe’s fault line runs through Italy», è l’incipit dell’articolo di Tony Barber sul Financial Times di qualche giorno fa intitolato «Italy’s referendum holds key to survival of currency union».

L’articolo si conclude così: «Numerose bucce di banana si trovano lungo il cammino dell’Unione Europea nei prossimi 12 mesi, da una potenziale vittoria dell’estrema destra in Austria alle elezioni in Olanda e Francia. Ma il referendum costituzionale italiano potrebbe essere la più scivolosa di tutte». Claudio Cerasa sostiene, tuttavia, che «la strategia dell’Armageddon, del giudizio finale, dell’Apocalisse immaginaria, non ha funzionato nel referendum in Grecia, non ha funzionato in quello in Gran Bretagna, non sta funzionando negli Stati Uniti e non funzionerà neanche in Italia» e che «Renzi non può vincere il referendum facendo leva sulla paura – può vincerlo invece facendo leva sulla necessaria rimozione dello status quo». Credo che il direttore del Foglio abbia ragione. Oltretutto, il voto degli inglesi che hanno deciso, con una maggioranza esigua, di lasciare l’Unione europea non è poi la fine del mondo. Non è la fine del mondo, ma ci mostra come, dagli oggi dagli domani, ci si possa arrivare. Lo ha spiegato Thomas Friedman sul New York Times.

Uno dei principali paesi europei, paladino da sempre della democrazia liberale, del pluralismo e della libertà di mercato, è caduto nelle grinfie di politici cinici e calcolatori che hanno visto l’opportunità di sfruttare, per il proprio tornaconto, le paure della gente sull’immigrazione. «Hanno creato una netta opzione binaria su una questione incredibilmente complessa, della quale poche persone afferrano fino in fondo la portata: restare nell’Unione europea o andarsene. In realtà, questi politici pensavano che il cane non sarebbe mai riuscito a raggiungere l’auto e che avrebbero potuto avere il meglio del meglio: opporsi a qualcosa di impopolare senza doversi preoccupare delle conseguenze. Il guaio è che hanno banalizzato e fuorviato a tal punto il dibattito a forza di fandonie; hanno a tal punto propagato paura, che l’opinione di quanti volevano davvero lasciare l’Unione europea ha finito per prevalere. Per vincere, oltretutto, bastava una maggioranza semplice. In altre parole, il cane ha raggiunto l’auto. E, naturalmente, ora non ha idea di cosa farsene. Non c’è un piano. Si limita ad abbaiare» (You Break It, You Own It – The New York Times).

Non è la fine del mondo. Ma se un altro paio di paesi della Ue tentassero lo stesso trucchetto, ci troveremmo davvero nei guai. Certo, avverte Friedman, bisognerebbe mettere in guardia gli elettori di Donald Trump (ma vale anche per quelli di Beppe Grillo): questo è quel che succede quando un paese si innamora di un imbroglione che pensa che la vita possa imitare Twitter (che ci siano, cioè, risposte semplici a problemi complessi), e quando si finisce per credere che si possa davvero riordinare grandi sistemi complessi semplicemente tirando su un muro e poi tutto andrà alla grande. Ma c’è dell’altro. Il fatto che il punto di vista di voleva andarsene dalla Ue abbia vinto, sia pure con le menzogne, ci dice che la gente si sente parecchio in ansia per qualcosa. È la realtà del nostro tempo: il ritmo del cambiamento tecnologico, la globalizzazione, il cambiamento climatico hanno spiazzato il nostro sistema politico e la sua capacità di costruire, nelle comunità e nei posti di lavoro, le innovazioni sociali, formative e politiche che sono necessarie a molti cittadini per stare al passo con i tempi. Abbiamo globalizzato il commercio e la manifattura, abbiamo introdotto i robot e i sistemi di intelligenza artificiale, ma non siamo stati capaci di progettare, altrettanto velocemente, le reti di protezione sociale, i progressi nelle scelte formative che avrebbero consentito alle persone intrappolate in questa transizione di procurarsi il tempo, lo spazio e gli strumenti per riadattarsi con successo. Il che ha lasciato un sacco di gente spaesata. Non per caso, i dati mostrano che la globalizzazione, e non l’immigrazione, ha determinato l’esito del referendum (specie quei distretti elettorali più esposti alla concorrenza cinese).

Allo stesso tempo, sperimentiamo l’influenza dell’immigrazione da stati falliti in una scala senza precedenti. E anche questo ha lasciato in parecchia gente la sensazione di trovarsi (culturalmente) disancorata, di stare perdendo la propria «casa» nel senso più profondo della parola. La realtà concreta dell’immigrazione in Europa è andata oltre non solo la capacità dei paesi ospitanti di integrare la gente ma anche oltre la capacità degli immigrati di integrarsi. E entrambe le cose sono necessarie per la stabilità sociale. Inoltre, tutti questi rapidi cambiamenti stanno avvenendo mentre (dovunque) la politica non è mai stata più in stallo e incapace di rispondere con buon senso. Basterebbe questo a spiegare la necessità della riforma costituzionale. Hillary Clinton nella sua bella intervista a Vox dice cose sensatissime sulla polarizzazione, le divisioni, il risentimento che sembrano affliggere la politica americana e sul perché l’America ha cessato di credere nelle elite e che cosa le elite dovrebbero fare (Hillary Clinton: The Vox Conversation).

Insomma, ho l’impressione che la vera questione davanti a noi sia l’integrazione non l’immigrazione. E non c’è dubbio che i paesi capaci di favorire meglio il pluralismo saranno quelli in grado di prosperare meglio nel 21° secolo. Avranno maggiore stabilità politica e saranno capaci di attrarre più talenti. Ma non sarà facile e bisogna lavorarci seriamente. Abbiamo scritto, in un articolo pubblicato sul Foglio il 12 gennaio scorso, della necessità di individuare precisamente i perdenti della globalizzazione, i cosiddetti losers, e predisporre le misure soprattutto per il loro indennizzo e sostegno (Il Foglio, 12 gennaio 2016 – La svolta buona che ora serve al governo (e all’Italia). Appello a Renzi). E non si tratta semplicemente di tornare ai «valori di riferimento» della sinistra tradizionale, di tornare alla sinistra che fa la sinistra. Le cose sono un po’ più complicate. Come ricordava infatti Friedrich von Hayek nel 1944, «c’è molto di vero nell’affermazione tanto spesso ripetuta, secondo la quale il fascismo e il nazismo sono una specie di socialismo della classe media (…) Non ci sono dubbi che nessun singolo fattore economico abbia contribuito, nel favorire siffatti movimenti, più dell’invidia del professionista senza successo, dell’ingegnere o dell’avvocato che hanno studiato all’università e in generale del “proletariato dal colletto bianco”, nei confronti del macchinista o del tipografo e di altri membri di più forti associazioni sindacali il cui stipendio era molte volte superiore al loro (…) il risentimento degli strati più bassi della classe media, da cui il fascismo e il nazionalismo reclutarono una tanto ampia parte dei loro sostenitori, venne acuito dal fatto che la loro educazione e il loro addestramento in molti casi li aveva fatti aspirare a posizione direttive e che essi si consideravano come aventi diritto ad essere membri della classe dirigente. E se i membri della generazione più giovane, con disprezzo per il profitto – disprezzo favorito dall’insegnamento socialista -, disprezzavano le occupazioni indipendenti che comportano rischi e si accalcavano in numero sempre più crescente attorno a posti, più sicuri, da impiegato stipendiato, dall’altra parte essi chiedevano posti in grado di offrire loro il reddito e il potere cui, secondo loro, avevano diritto in base alla loro preparazione…»

Del resto, non dobbiamo dimenticare che, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, il progetto europeo è emerso come una forza di pace, di prosperità, di democrazia e di libertà nel mondo. E che questo sia uno dei risultati più grandi dell’umanità, non deve ricordarcelo Obama. Anziché lasciare che l’Europa vada in pezzi, dovremmo usare lo shock del voto inglese per ripensarla, riformarla e ricostruirla. Anche perché «ogni giorno perdiamo una parte della nostra sovranità a favore dei paesi emergenti, eppure ancora ci chiediamo se dobbiamo rinunciare o meno alla nostra sovranità in favore dell’Unione Europea». Lo ha detto qualche anno fa l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer. E siamo sempre lì.

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