Senatore si è fatto un’idea dei perché della vostra sconfitta alle elezioni?
«Il voto non è affatto omogeneo. E anche il risultato del M5s non è ancora un risultato nazionale. Dunque nulla di irreparabile o di compromesso. Si tratta di fare tesoro della lezione. In molte città un certo modello di governo locale si era esaurito da tempo. Andava ripensato e abbiamo mancato di progettualità. Si è dovuta gestire anche una riduzione significativa delle risorse senza aver dato vita a un modello più efficiente di spesa e di servizio ai cittadini. Poi ci sono situazioni in cui paghiamo il fallimento del governo locale, come a Roma, o la lunga permanenza al governo, come a Torino. E c’è anche la mancata apertura del Pd, il ritardo del rinnovamento della classe dirigente, lo scontro profondo tra un’idea di partito a vocazione maggioritaria e quello dei territori a vocazione correntizia».
In Fvg le sconfitte a Pordenone e Trieste pesano più che altrove. Quali errori avete compiuto?
«Bisognerà interrogarsi sugli sbagli commessi senza perder tempo con i necrologi e le autocommiserazioni. Gli italiani hanno preso molto sul serio la scommessa di Renzi e da lui si aspettano innovazione e discontinuità anche nelle amministrazioni locali. Quando non c’è, si rivolgono altrove».
Secondo lei si è sottovalutato il valore del centrodestra?
«Probabilmente sì. Ma la capacità del centrodestra di ristrutturarsi, dal punto di vista del sistema politico, non è una cattiva notizia».
Quali “colpe” ha – se ci sono – Debora Serracchiani nelle sconfitte alle amministrative in Fvg?
«Quando si perde nessuno può chiamarsi fuori. Ma se vuole risolvere i problemi, e non aggravarli, il Pd deve dimostrarsi solido e non avvitarsi in una spirale autodistruttiva. Inoltre, si paga sempre un prezzo quando si fanno le riforme. Ma si paga il doppio se non le si porta a termine. Un partito deve mostrare attenzione e umiltà nei confronti del Paese, ma anche una certa fermezza. La rivoluzione renziana si vince o si perde sul terreno dell’innovazione, della ripartenza dell’Italia».
È plausibile, secondo lei, che Serracchiani lasci la vicesegreteria per concentrarsi maggiormente sulla Regione?
«Non spetta a me dare consigli. Soprattutto se non sono richiesti».
Visto il risultato finale, a Trieste aveva ragione Russo quando ha preteso le primarie?
«È evidente che ci fossero dei problemi. Ma sbarazzarsi del sindaco uscente, peraltro una brava persona, è un escamotage, come dimostra Pordenone. Se qualcosa non ha funzionato nell’esperienza di governo, chi l’ha sostenuta non può pensare di chiamarsi fuori. Forse dovremmo imparare un approccio più capace di ascolto e a sostenere le nostre ragioni nel confronto con la gente».
In vista delle regionali e delle politiche 2018 da cosa deve ripartire il Pd per non perdere?
«Continuare a rivoluzionare geneticamente la sinistra italiana, con un mix fatto di riforme strutturali (meno tasse, spesa pubblica, debito, minore timidezza sulla giustizia e sulla Pa) e ricambio generazionale, schivando la tentazione di tornare ai “valori di riferimento” della sinistra tradizionale».
Ma saranno possibili aperture nei confronti della minoranza?
«Immagino di sì. Verrà chiesto al segretario del Pd qualche intervento sul partito, ma allo stesso tempo i dati sul ballottaggio (e quelli in Europa) ci dicono anche che la famosa sinistra che fa la sinistra non arriva lontano».
Insomma il vento rottamatore non si è placato…
«La notizia della morte del renzismo è ampiamente esagerata, come scriveva Twain. Ed è tempo di dimostrarlo. Al referendum mancano 100 giorni e non possiamo fallire, per il bene del Paese».