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L’accordo euro-americano e i suoi nemici

Piercamillo Falasca ha ricordato sul Foglio che «una delle ragioni che portarono alla fine del Rinascimento italiano fu, nel XVII secolo, lo spostamento dei traffici commerciali dal mediterraneo all’Atlantico e l’apertura di nuove rotte oceaniche verso l’Asia. Senza il loro ruolo di crocevia necessario tra oriente e occidente, le magnifiche città italiane persero la loro centralità economica, sociale e culturale a vantaggio delle nuove potenze marittime.

Oggi l’Europa intera corre un rischio simile, e cioè che il Pacifico diventi il nuovo baricentro del commercio mondiale (tra l’America a trazione californiana e l’Asia giovane, dinamica e promettente) e che l’Atlantico si trasformi invece in un oceano periferico». «Se c’è un antidoto a tutto questo – ha aggiunto -, che poi è il tentativo di dare alla società europea un futuro di prosperità e centralità, esso passa da un rilancio del commercio e dell’integrazione economica tra il Vecchio Continente e l’America. Per l’Europa, gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo mercato di destinazione dei beni e servizi esportati, il principale mercato d’investimento e la prima fonte di investimenti dall’estero: secondo uno studio del World Trade Institute del 2016, le imprese americane presenti in Europa occupano circa 6 milioni di persone (di cui più di 400 mila in Italia, paese nel quale gli investimenti a stelle e strisce rappresentano quasi il 30 per cento del totale degli investimenti diretti extra-europei)» (Sinistra vs. occidente: quello che dimenticano Greenpeace e ).

Eppure, oggi che i venti che spirano contro il libero commercio sono ripresi impetuosi, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip) che Stati Uniti e Unione europea stanno negoziando da qualche anno è diventato il bersaglio ideale. A mettersi di traverso – ufficialmente, in un crescendo di prese di posizione – è soprattutto la Francia. Hollande, in un tentativo disperato di riunire la sinistra per farsi rieleggere presidente il prossimo anno, tenta di «mettere in pausa» l’accordo di libero scambio. Ma la diffidenza sta montando nell’opinione pubblica dovunque, in Italia, in Germania e negli Stati Uniti. Il bello è che, nel frattempo, il trattato transpacifico (Tpp), tra 11 stati affacciati a quell’Oceano, è già stato firmato.

Il Ttip è raccontato dalla sinistra no global (ma sono della partita anche i concreti interessi economici di industrie inefficienti e una certa stampa accondiscendente) con toni apocalittici, come un tradimento dei popoli in nome di un disegno plutocratico e massonico. Tuttavia, secondo uno studio del Centre for economic policy research di Londra potrebbe consentire un incremento di ricavi annui pari a 120 miliardi di dollari per le imprese europee e di 95 miliardi per quelle americane. Senza contare che l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica. La disponibilità americana ha un significato strategico. Il negoziato transatlantico su commercio e investimenti è una grande occasione politica per l’Occidente, forse l’ultima, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale.

Rimando all’articolo che ho scritto su Limes. Risale ad un paio di anni fa, ma le cose non sono cambiate: LIMES, Rivista italiana di geopolitica, n. 8/2014 – TTIP: SE DUE DEBOLEZZE FANNO UNA FORZA.

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