Abbiamo perso ma non tutto è da rifare. Puntavamo ad una radicale ristrutturazione del sistema politico e abbiamo centrato l’obiettivo. Ora i vincitori dovranno diventare un partito (il Pdl) e il Pd che ha perso farà l’opposizione in nome di una credibile alternativa. Ripartiamo da qui.
Se si punta ad ampliare l’area di consenso, bisogna mettere in discussione la propria identità, come dappertutto ha cercato di fare in questi anni la sinistra europea. La preoccupazione degli italiani non è che il partito sia cambiato, ma che non sia cambiato abbastanza.
Una riflessione intorno ai temi proposti dal volume “La cultura civile della Venezia Giulia” edito dalla Libreria Editrice Goriziana.
Non è chiaro se la leadership di Silvio Berlusconi «is moving towards its close», come auspica il Financial Times e se Berlusconi si farà da parte e si arriverà a un governo di larghe intese come spera Pier Ferdinando Casini. Quel che si capisce è che Casini non è l’unico a volere il ritorno al proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento (e, dunque, un ritorno al passato, l’abbandono del bipolarismo e dell’alternanza). Lo vogliono in parecchi anche nel Pd. Il fatto è che i sostenitori di un ritorno al proporzionale, escludono che, in futuro, le preferenze degli elettori possano cambiare. «L’Italia è un Paese sostanzialmente di destra», dicono, e l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi.
Sbaglierò, ma continuo a ritenere che sia un bene che i cittadini affermino pienamente la propria sovranità superando quella democrazia che affidava ai rappresentanti di fare e disfare i governi in Parlamento. Oggi si tende a dimenticare la situazione di regime che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che aveva ben pochi casi analoghi tra i paesi democratici, al punto che lo Stato e i partiti di regime erano diventati una cosa sola, favorendo una confusione pericolosissima, una concezione patrimoniale, privatistica della cosa pubblica. Prima dell’apparire del Caimano. E continuo a ritenere che il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere per sempre tale, non sta scritto da nessuna parte. Certo che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro». Ma li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania che in Gran Bretagna, il «centro» dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Lo hanno fatto sia socialdemocratici e laburisti con il Neue Mitte e il New Labour negli anni ’90, sia il centrodestra, recentemente, con Angela Merkel e David Cameron. Ma per conquistare le forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società, il Pd deve cambiare parecchie delle proprie idee, a cominciare da quelle più stantie. Sia che si parli di giustizia, di scuola, di federalismo o di welfare, la maggioranza degli italiani le riforme le vuole, eccome, ma le vuole come l’occasione di un ripensamento del rapporto fra società e Stato, fra cittadino e autorità. E’ il cittadino che vuole diventare il vero soggetto decisionale. E per levarsi dai piedi Berlusconi non basta che la sua credibilità diminuisca, deve crescere anche (specie dopo l’esperienza fallimentare del secondo governo Prodi) la credibilità del centrosinistra.
Con Obama, ad esempio, il partito democratico Usa si è ricomposto attorno ad un «liberalismo non ideologico» (sul quale richiamano l’attenzione Sergio Fabbrini e Ray La Raia nel loro volume «I democratici americani nell’epoca di Barack Obama») assai diverso dal liberalismo dei gruppi di interesse del passato remoto (l’interest group liberalism) sia dal liberalismo clintoniano della “terza via” del passato recente. Obama ha cercato di uscire da questa trappola associando sempre le sue proposte di espansione di diritti ai doveri di responsabilità individuale che ogni nuovo diritto comporta. Infatti, le sue proposte (estensione dell’assistenza sanitaria, incremento degli aiuti al sistema educativo) rivestono un carattere generale e non sono finalizzate ad aiutare specifici e delimitati gruppi sociali o etnici bensì a rispondere alle esigenze della maggioranza del paese. «Le politiche di Obama – scrivono Fabbrini e La Raia – si sono così connotate per essere in sintonia con la cultura e i valori delle classi medie, com’è stato il caso della proposta, portata avanti dal suo segretario all’Istruzione, Arne Duncan, di chiudere le scuole cittadine che non rispettano gli standard educativi stabiliti a livello nazionale, per sostituirle con nuove scuole costituite da nuovi docenti e nuovi amministratori. Questo è il “liberalismo dal cuore duro” (hard-headed liberalism) con cui Obama ha voluto farsi identificare, un liberalismo che non solo non ha remore nel dichiarare il fallimento delle burocrazie scolastiche pubbliche (che pure sono protette dai potenti sindacati degli insegnanti e del personale amministrativo), ma che associa l’opportunità di una migliore educazione per i bambini dei ceti non privilegiati alla responsabilizzazione diretta delle famiglie e delle comunità all’interno delle quali vivono quei bambini». Il fatto è che, come in ogni battaglia riformista, ci vuole coraggio, bisogna superare una montagna di egoismi, pigrizie e cattive abitudini, fare i conti con robusti e consolidati «muri mentali», offrire e sostenere idee e soluzioni nuove, per le quali rimboccarsi le maniche e lavorare.
L’impiego dei soldati nel pattugliamento serale delle nostre città è una misura preoccupante, perché si confondono ruoli e idee. In altre parole, si ingannano gli italiani.
L’euroscetticismo di casa nostra è molto diverso da quello di altri Paesi, non si nutre di una particolare “visione” dell’Europa, ma è piuttosto il prodotto della necessità inderogabile di colmare il divario tra la retorica europeista e le scelte concrete di politica interna.
Per organizzare la rivincita ci vorrà tempo. Specie se si considera che la fase di riflessione che si è aperta localmente finirà inevitabilmente per intrecciarsi con la discussione in corso a livello nazionale. Ma non dobbiamo cedere al fatalismo: anche se oggi le probabilità sono contro di noi, continuo a pensare che possiamo vincere le prossime elezioni. Com’è stato detto, il punto di partenza non è discutere di personalità, ma di quel che siamo riusciti a fare e di quel che non abbiamo saputo o potuto realizzare; della nostra visione del futuro e di come metterla in pratica.
E per fare arrivare il nostro messaggio dobbiamo essere più umili circa i nostri errori (che ci sono stati), ma anche più capaci di suscitare interesse sui risultati che abbiamo raggiunto. Certo, per conto mio e tanto per fare un esempio, avremmo dovuto mettere mano meglio e con più decisione alla macchina burocratica regionale, dismettendo ogni funzione che altri soggetti pubblici o privati possono organizzare meglio; avremmo dovuto investire di più sulle persone cercando di disegnare il welfare e la sanità sulla base delle esigenze di chi ne usufruisce, non solo di chi ci lavora. Ma cinque anni di crescente prosperità non sono venuti per caso. Dopo tutto, la destra si è opposta a quasi tutte le misure che hanno fatto la differenza, dalla legge sull’innovazione agli interventi nell’industria, nell’artigianato, nella cooperazione, nel commercio, nel turismo; dai provvedimenti sugli asili nido aziendali a quelli sulla sicurezza sui posti di lavoro. E ora che cosa stanno offrendo? La destra mette l’accento su quello su cui è contro perché non sa per cosa è a favore. Non sono stato sempre d’accordo con Riccardo Illy, ma non c’è dubbio che egli sia stato un presidente di valore, sinceramente impegnato nel progetto di modernizzazione della Regione. Un imprenditore che non è a suo agio con la destra perché non è un conservatore. Voleva il cambiamento ed era pronto a prendere decisioni impopolari per ottenerlo.
Il problema con Renzo Tondo è l’opposto: è un conservatore, non un radicale. Non condivide l’urgenza del cambiamento. È una persona piacevole e qualche volta è difficile non essere d’accordo con lui, ma è un politico dello statu quo, non del cambiamento. Quali sono gli obiettivi del partito di Tondo? Qual è la sua visione della Regione? Non ne ha una. Il suo progetto è rassicurare quel terreno di continuità, quegli ancoraggi sociali e culturali un tempo rappresentati dal vecchio «pentapartito», non cambiare la regione. Da qui il suo pragmatismo apparentemente realista e la scelta di privilegiare la mediazione politica. È fermo, inceppato. Ma i tempi chiedono una nuova fase. Oggi la sfida economica è nuova. La gente vuole protezione da una crisi che può nascere a Wall Street o a Tbilisi. E l’economia dei servizi – assicurazioni, assistenza, educazione, industria creativa – che sta crescendo nel paese cresce anche tra le nuove classi medie indiane e cinesi.
Anche la sfida per l’amministrazione pubblica è nuova. Il compito del governo regionale dopo il 2003 fu una missione di salvataggio. Non è trascorso molto tempo, eppure oggi si tende a dimenticare la profonda crisi del sistema regionale: governi regionali brevi e instabili; assessorati che ruotavano in continuazione, per cui era difficilissimo lavorare e attribuire meriti e demeriti a persone o partiti; un consiglio pletorico che si occupava di tutto, non controllava nulla e discuteva spesso di cose di scarsa attinenza col governo locale. La situazione oggi è cambiata mediante governi regionali di legislatura legittimati direttamente dai cittadini attraverso l’elezione diretta del presidente della Regione e della sua maggioranza, che la destra ha contrastato. E adesso abbiamo bisogno di immaginazione per distribuire più potere e controllo ai cittadini sulla sanità, sull’educazione e sui servizi sociali che ricevono. Una sfida che riguarda anche la società regionale, perché si tratta di costruire un genuino senso di appartenenza e di responsabilità fondato su una maggiore protezione dai rischi esterni e su un maggior controllo sulle questioni locali.
Ma se oggi famiglie e imprese devono assumersi responsabilità crescenti, abbiamo bisogno che il governo agisca come catalizzatore. Sia capace, cioè, di esercitare un influsso determinante su una linea di condotta di cui già esistono le necessarie premesse. Un esempio: nell’ultimo decennio, negli altri paesi sviluppati l’incremento dell’occupazione femminile ha contribuito alla crescita globale più dell’intera economia cinese. Il lavoro delle donne è un fattore decisivo di crescita perché garantisce più ricchezza alle famiglie, crea altro lavoro nel settore dei servizi e significa anche meno culle vuote e meno bambini poveri. In Italia, in cui lavora solo il 46% della popolazione femminile, ci sono troppe donne a casa, troppe culle vuote e troppi bambini poveri: un circolo vizioso che impedisce all’Italia di crescere. Nel resto dell’Occidente, le donne che hanno un impiego e che sono aiutate a conciliare impegno professionale e vita domestica sono quelle che mettono al mondo più figli e che sono in grado di garantire loro buona educazione, tranquillità economica e un avvenire più sicuro.
Possiamo farcela anche noi, ma solo a patto di cambiare mentalità e ricalibrare il nostro welfare. Il governo regionale ha il coraggio di raccogliere questa sfida? Quando si governa, o si è capaci di scegliere o a scegliere saranno altri. Credo davvero che soltanto le convinzioni politiche del Pd, che combina azione di governo e libertà personale, possano ottenere quegli obiettivi che ora la destra si vanta di condividere. Il centro-sinistra nel 2003 ha vinto le elezioni regionali offendo un reale cambiamento, non solo nelle politiche, ma anche nel modo di fare politica. Dobbiamo rifarlo di nuovo. Smettiamola perciò di essere dispiaciuti per noi stessi e ritroviamo la fiducia per dimostrare daccapo la giustezza delle nostre tesi. Il congresso che verrà (e che Veltroni avrebbe dovuto convocare subito) sarà un passo importante, specie se saranno tanti i cittadini che avranno scelto di aderire al nuovo partito. Ma la possibilità di contare su una piattaforma di cambiamento si gioca attorno alla questione della leadership, cioè attorno alla possibilità di impostare una competizione di idee e di visione per la guida del nuovo partito. Per capirci, quando Gordon Brown ha lanciato la sua leadership, la candidatura per la leadership del Labour party, ha detto una cosa molto semplice: «Le sfide che oggi abbiamo di fronte sono diverse dal passato e senza precedenti. Per questo anche noi dobbiamo cambiare. Se le sfide sono diverse, anche il nostro programma dovrà essere diverso. E, per un tempo nuovo, c’è bisogno di una nuova leadership».
Dipende da noi migliorare le cose. Provando, anche in Friuli, a vedere il mondo con occhi diversi.
Una riflessione sulle ragioni per cui possiamo definirci europei.
Ora che la crisi georgiana è forse superata (almeno nei suoi aspetti militari), l’Europa, che ha rifiutato di chiudere gli occhi sull’annessione appena mascherata di Abkhazia e Ossezia del sud, dovrà misurarsi con due questioni centrali: la strategia verso la Russia e il nodo rappresentato dal binomio sovranità/autodeterminazione. Su questo tema è intervenuto, sul Corriere, Piero Fassino, che ha scritto: «Sul nodo pesa l’eredità balcanica, e cioè l’omogeneità etnica come fondamento dell’identità statuale. Oggi sono l’Ossezia e l’Abkhazia a rivendicarla, ma in quella stessa area da tempo la invocano il Nagorno-Karabakh, conteso tra Armenia e Azerbaigian, e la Transnistria unilateralmente separatesi dalla Moldavia. Per non parlare di Cecenia, Inguscezia, Dagestan, a cui peraltro Mosca nega quel che invoca per l’Ossezia. Insomma: un gioco del domino infinito, fonte di ulteriori conflitti e tragedie. La strada non può che essere un’altra: porre a fondamento di ogni Stato non l’etnia, ma la cittadinanza, l’uguaglianza dei diritti, la tutela delle minoranze. Un buon esempio viene proprio dall’Ue che ai suoi nuovi membri ha posto come condizione di adesione il riconoscimento di diritti per minoranze spesso discriminate. Valga per tutti il caso baltico, dove i componenti delle comunità russe – considerati per anni “non cittadini” – hanno oggi uguaglianza di diritti». Vale la pena, perciò, tornare sulla questione sollevata da Paolo Segatti nel suo articolo sulla Slovenia e l’idea d’Europa dei padri fondatori. Ora che l’Europa dovrà fare i conti con le parole più aspre di una nuova ideologia nazionale che hanno riempito in Russia anche la stampa quotidiana più equilibrata (il riferimento che ha accompagnato la crisi georgiana è stato alla Crimea, la penisola ucraina oggetto di contenzioso permanente tra Mosca e Kiev per l’alta percentuale di popolazione di lingua russa), non sarebbe male tornare a riflettere sulle ragioni per cui possiamo definirci europei. Insomma, che cosa lega tra loro, nell’Europa allargata, popoli, abitudini di vita, lingue così diversi? Certo, la comune origine europea si può leggere nelle opere di Dante, Mozart o Velàsquez e nelle pietre delle cattedrali; nelle radici di certe parole; nelle cultura del cibo e del vino; in ciò che abbiamo assimilato dagli arabi e dalla civiltà del Mediterraneo. Ma il retaggio culturale comune non si riduce esclusivamente alla lingua o ai prodotti culturali comuni, è un sistema di idee e di valori che rimanda alle risposte che negli anni Trenta alcune fra le principali democrazie occidentali avevano dato alla grande crisi, sperimentando – in alternativa all’aut aut fra comunismo e fascismo – le soluzioni del New Deal, negli Stati Uniti, e del “keynesismo” in alcuni paesi europei e dimostrando che i problemi posti dal sorgere della società di massa si potevano risolvere con la riorganizzazione della produzione e dei consumi, la crescita dell’economia nazionale, l’estensione della democrazia e lo sviluppo dello stato sociale. Per gli occidentali quegli ideali e quelle politiche costituivano la base della grande alleanza antifascista e ne ispiravano il programma per il dopoguerra; e la costituzione di una sorta di partito internazionale dell’antifascismo mirava a generalizzare quelle esperienze e a ridisegnare gli assetti mondiali secondo il principio di interdipendenza. Da allora, in Europa, il problema della nazione è cambiato radicalmente. È mutato anzitutto il rapporto tra nazione e lo Stato, la cui funzione fondamentale non è più quella militare, ma riguarda la promozione dello sviluppo e delle relazioni internazionali che allo sviluppo sono collegate. Oggi, infatti, sviluppo e democrazia, che sono le condizioni da cui dipende il sentirsi cittadini di un determinato paese, non sono separabili dalla crescita dell’integrazione fra le economie nazionali e fra i popoli. E oggi il problema della nazione non è separabile da quello della cittadinanza, che dipende sempre più dall’avanzare della società civile internazionale. Questo sviluppo è derivato proprio dalla vittoria dell’antifascismo nella Seconda guerra mondiale. Questa idea di nazione è stata infatti il frutto consapevole delle risposte ai problemi posti dagli sviluppi dell’economia mondiale e dalla crescita della soggettività dei popoli, che esso ha elaborato in chiave di cittadinanza anziché di inquadramento militare delle masse. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale l’idea di nazione che si è affermata non è separabile, come ora riconosce anche Gianfranco Fini, dal legame tra antifascismo, welfare e interdipendenza. Uno degli errori più comuni, quando si descrive l’evoluzione dell’integrazione europea, è infatti quello di sostenere che nacque come un progetto squisitamente economico e che solo successivamente divenne politico. Invece l’Unione europea è stata sin dalle origini un progetto politico che ha fatto ricorso a strumenti economici. Ciò che più contava per i fondatori, era non ripetere gli errori precedentemente commessi. La filosofia degli accordi di Versailles era semplice: se metti ai tuoi piedi il tuo nemico di ieri e con la forza gli impedisci di svilupparsi militarmente (disarmo forzato) ed economicamente (sanzioni punitive), questi non sarà più nella posizione di costruire una futura minaccia. Ma Versailles fallì e vi è un ampio consenso sul fatto in Germania il trattato di Versailles abbia aiutato il nazionalsocialismo a mobilitare l’opinione pubblica a favore dei suoi disegni criminali. È rispetto a queste premesse che si deve comprendere il nuovo disegno di pace architettato alla fine della Seconda guerra mondiale, di cui prima la Comunità europea e poi la successiva Unione europea sono la parte centrale. La guerra sarebbe stata “non solo impensabile ma effettivamente impossibile” non perché Francia e Germania avrebbero sottoposto la produzione del carbone e dell’acciaio a un’altra autorità, istituzione che precorre l’attuale Commissione. La guerra sarebbe stata impensabile e impossibile a causa del livello di interdipendenza che si sarebbe creato tra gli Stati della nascente comunità. Lo stesso disegno ha guidato, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della Jugoslavia, l’allargamento dell’Unione ai paesi ex comunisti. Ora l’integrazione della Slovenia in Europa procede speditamente e possiamo superare anche le narrazioni storiche contrapposte. Se, come mi auguro, riuscirà a farsi strada il riconoscimento della demarcazione necessariamente convenzionale di tutti gli stati (non ci sono confini “naturali” per gli stati e lo stato non è un’entità “naturale”) insieme con la convinzione che gli individui umani, e non gli stati o le nazioni, debbano costituire la preoccupazione ultima non solo delle organizzazioni internazionali, ma di ogni politica.