GIORNALI2008

Il Foglio, 8 luglio 2008 – Democratico doc spiega perché chi sogna un governissimo, lavora contro il Pd

Non è chiaro se la leadership di Silvio Berlusconi «is moving towards its close», come auspica il Financial Times e se Berlusconi si farà da parte e si arriverà a un governo di larghe intese come spera Pier Ferdinando Casini. Quel che si capisce è che Casini non è l’unico a volere il ritorno al proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento (e, dunque, un ritorno al passato, l’abbandono del bipolarismo e dell’alternanza). Lo vogliono in parecchi anche nel Pd. Il fatto è che i sostenitori di un ritorno al proporzionale, escludono che, in futuro, le preferenze degli elettori possano cambiare. «L’Italia è un Paese sostanzialmente di destra», dicono, e l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi.

Sbaglierò, ma continuo a ritenere che sia un bene che i cittadini affermino pienamente la propria sovranità superando quella democrazia che affidava ai rappresentanti di fare e disfare i governi in Parlamento. Oggi si tende a dimenticare la situazione di regime che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che aveva ben pochi casi analoghi tra i paesi democratici, al punto che lo Stato e i partiti di regime erano diventati una cosa sola, favorendo una confusione pericolosissima, una concezione patrimoniale, privatistica della cosa pubblica. Prima dell’apparire del Caimano. E continuo a ritenere che il Pd debba scommettere sul fatto che possa avvenire, in futuro, un mutamento nelle propensioni degli elettori. Che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere per sempre tale, non sta scritto da nessuna parte. Certo che, nei paesi avanzati, si vince con il consenso degli elettori di «centro». Ma li si conquista adeguando l’offerta politica. Ogni volta. Sia in Germania che in Gran Bretagna, il «centro» dell’elettorato è stato conquistato da partiti capaci di presentare proposte innovative dai lineamenti culturali espansivi. Lo hanno fatto sia socialdemocratici e laburisti con il Neue Mitte e il New Labour negli anni ’90, sia il centrodestra, recentemente, con Angela Merkel e David Cameron. Ma per conquistare le forze dinamiche e potenzialmente «centrali» della società, il Pd deve cambiare parecchie delle proprie idee, a cominciare da quelle più stantie. Sia che si parli di giustizia, di scuola, di federalismo o di welfare, la maggioranza degli italiani le riforme le vuole, eccome, ma le vuole come l’occasione di un ripensamento del rapporto fra società e Stato, fra cittadino e autorità. E’ il cittadino che vuole diventare il vero soggetto decisionale. E  per levarsi dai piedi Berlusconi non basta che la sua credibilità diminuisca, deve crescere anche (specie dopo l’esperienza fallimentare del secondo governo Prodi) la credibilità del centrosinistra.

Con Obama, ad esempio, il partito democratico Usa si è ricomposto attorno ad un «liberalismo non ideologico» (sul quale richiamano l’attenzione Sergio Fabbrini e Ray La Raia nel loro volume «I democratici americani nell’epoca di Barack Obama») assai diverso dal liberalismo dei gruppi di interesse del passato remoto (l’interest group liberalism) sia dal liberalismo clintoniano della “terza via” del passato recente. Obama ha cercato di uscire da questa trappola associando sempre le sue proposte di espansione di diritti ai doveri di responsabilità individuale che ogni nuovo diritto comporta. Infatti, le sue proposte (estensione dell’assistenza sanitaria, incremento degli aiuti al sistema educativo) rivestono un carattere generale e non sono finalizzate ad aiutare specifici e delimitati gruppi sociali o etnici bensì a rispondere alle esigenze della maggioranza del paese. «Le politiche di Obama – scrivono Fabbrini e La Raia – si sono così connotate per essere in sintonia con la cultura e i valori delle classi medie, com’è stato il caso della proposta, portata avanti dal suo segretario all’Istruzione, Arne Duncan, di chiudere le scuole cittadine che non rispettano gli standard educativi stabiliti a livello nazionale, per sostituirle con nuove scuole costituite da nuovi docenti e nuovi amministratori. Questo è il “liberalismo dal cuore duro” (hard-headed liberalism) con cui Obama ha voluto farsi identificare, un liberalismo che non solo non ha remore nel dichiarare il fallimento delle burocrazie scolastiche pubbliche (che pure sono protette dai potenti sindacati degli insegnanti e del personale amministrativo), ma che associa l’opportunità di una migliore educazione per i bambini dei ceti non privilegiati alla responsabilizzazione diretta delle famiglie e delle comunità all’interno delle quali vivono quei bambini». Il fatto è che, come in ogni battaglia riformista, ci vuole coraggio, bisogna superare una montagna di egoismi, pigrizie e cattive abitudini, fare i conti con robusti e consolidati «muri mentali», offrire e sostenere idee e soluzioni nuove, per le quali rimboccarsi le maniche e lavorare.

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