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Il Foglio, 15 giugno 2018 – «Non è certo con le formule del secolo passato che si sconfiggerà il fronte sovranista»

Il «marxismo evangelico» che si strugge nella giustizia, così caro a Cuperlo, non è una credibile alternativa a chi oggi ci governa

«Non è di maggio questa impura aria», si saranno detti nelle scorse settimane dalle parti di Repubblica. È da un pezzo, infatti, che il giornale che ispira e guida la sinistra, forse ripensando ai versi di Pier Paolo Pasolini che dialoga con le spoglie di Gramsci, descrive un maggio autunnale («In esso c’è il grigiore del mondo, / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita»), molto diverso da «quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore» nel quale il giovane Gramsci delineava «l’ideale che illumina» il silenzio del presente.

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Il Foglio, 23 maggio 2018 – «Da Roma a Caracas»

“Guardare l’Italia e il Venezuela per capire come può crescere rigogliosa la pianta populista”

 

Potremmo chiamarlo «esperimento Venezuela». Da un pezzo infatti, «per capire come la pianta populista può crescere rigogliosa in forme diverse ma tra loro legate da tratti comuni», il prof. Loris Zanatta ha suggerito l’analisi di due casi «all’apparenza agli antipodi dal punto di vista storico e geografico», l’Italia e il Venezuela: «Paesi assai diversi tra loro per molteplici aspetti storici, sociali, politici ed economici, ma entrambi diventati da alcuni lustri in qua tra i più ricchi laboratori del nuovo populismo». In tutti e due i paesi, scrive Zanatta, «il populismo ha colto il suo trionfo sviluppandosi sulle rovine del sistema politico tradizionale, imperniato su Democrazia cristiana e Partito comunista in Italia e su Copei (Comité de Organización Politica Electoral Independiente) e Acción Democrática in Venezuela, partito di ispirazione cattolica il primo e di filiazione socialista il secondo». Benché diversi tra loro, «ciò che tali populismi rivelano è l’aspetto traumatico assunto in Italia e in Venezuela dal crollo della mediazione politica tradizionale e la vitalità che sotto la sua coltre conservano antiche e radicate concezioni del mondo»; e sia in Italia che in Venezuela, il populismo si inserisce e prospera in uno spazio già di per se fertile «dato il debole radicamento dell’ethos liberale nella cultura politica di entrambi i paesi e stante nell’uno e nell’altro caso la diffusa pervicacia di un immaginario politico diffidente verso la rappresentanza liberale, portato a ‘sentire’ la democrazia come attributo delle relazioni sociali ma non altrettanto della sfera politica».

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Il Foglio, 15 maggio 2018 – “Il primo governo ‘siamo contrari alla legge di gravità’ e la crisi delle élite”

È andata come doveva andare. Il governo populista, questo «premier gouvernement ‘antisystème’», come scrive Le Monde, è, in fondo, l’esito necessario del voto del 4 marzo. E non soltanto per mere considerazioni aritmetiche. Dietro la scelta compiuta dalla maggioranza degli italiani si nascondono molti ingredienti. Ci sono certamente la lotta contro l’immigrazione e la moralizzazione della vita pubblica, ma anche «l’inganno consapevole delle opinioni pubbliche» di cui ha parlato il presidente Mattarella (con la conseguente avversione alle regole di finanza pubblica e alle alleanze internazionali alle quali abbiamo aderito, il trionfo degli estremismi, il fatto che ciò che è percepito è più importante di ciò che è reale, ecc.). Inoltre, c’è sicuramente una robusta tradizione culturale di rigetto del reale in nome dell’illusione (che il poeta peruviano Augusto Lunel ha definito mirabilmente: «Siamo contrari a tutte le leggi, a cominciare dalla legge di gravità»), ma c’è anche un altro grande collante: il no, grande come una casa, a ciò che in molti considerano il compiaciuto moralismo della classe politica tradizionale (specie in relazione all’immigrazione e all’Europa); cioè il no a quell’atteggiamento paternalistico per cui i governanti attuano politiche che, pur tendendo con sollecitudine paterna al benessere dei governati, li considera però, quasi fossero dei bambini, incapaci di decidere in modo autonomo e responsabile.

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Il Foglio, 1 maggio 2018 – Ripartire dalla sconfitta del 4 dicembre

E’ possibile oppure no un governo tra populisti e sinistra? Anche con chi è nemico della democrazia rappresentativa? E un accordo Pd-M5s sarebbe un dramma o un’opportunità? Continua il girotondo d’opinioni sul Foglio. Il mio intervento:

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IL FOGLIO, 17 APRILE 2018 – IL TRACOLLO DEL PD IN FRIULI

di Alessandro Maran

Sembra tutto in discesa per Massimo Fedriga. Nonostante Forza Italia sia in caduta libera, più di venti punti separano nei sondaggi l’ex capogruppo alla Camera della Lega dal candidato del Pd che è avanti di un soffio sui grillini. Se le cose stanno così, il 29 aprile prossimo, il Friuli Venezia Giulia dovrebbe aggiungersi alle regioni del Nord in mano alla Lega.

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Il Foglio, 11 aprile 2018 – I 3 punti della svolta a destra europea e i puntini da connettere del Pd

Ora che anche Viktor Orban, teorico della «democrazia illiberale» e modello per tutti i populisti d’Europa, ha stravinto le elezioni politiche in Ungheria, non sarebbe male tornare, con un respiro più ampio, sulle tendenze di fondo emerse nelle elezioni italiane.

Sarà anche tutta colpa di Renzi, sarà che la sinistra deve «tornare tra la gente», ma a ben guardare, più di ogni altra cosa, le elezioni del 4 marzo scorso che hanno trasformato l’Italia nel «cuore della rivoluzione» bannoniana, hanno registrato, come un sismografo, i grandi cambiamenti che si stanno propagando rapidamente in tutti i traballanti sistemi politici europei.

Le tendenze più importanti sono tre anche nella variante italiana dei movimenti tellurici in corso.

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Il Foglio, 13 marzo 2017 – “Los redentores”

Al direttore – LItalia che redime ha battuto lItalia riformista. Era nellaria. Il populismo è un fenomeno che ha il vento in poppa un podovunque e non è certo da oggi che in Italia los redentoressi contendono i fedeli. I grillini, si sa, sono una pagina dellalbum di famiglia della sinistra italiana, ma anche la destra non si è mai fatta mancare nulla: oggi Berlusconi è certo molto meno antisistemico e ben più costituzionalizzato di un tempo, ma ne è passata di acqua sotto i ponti; e perfino gli schiamazzi populisti della Lega sono sussurri rispetto a quando si parlava del Veneto come se fosse lUlster. Insomma, dal tramonto della Prima Repubblica sul nostro paese si sono abbattute violente ondate populiste. Al punto che la lotta politica tra soggetti che si riconoscono legittimità ha ceduto il passo alla guerra di religione tra tra popoli omogenei (dal Popolo viola allEsercito di Silvio) trasformando il bipolarismo degli ultimi ventanni in una guerra di trincea tra nemici convinti di possedere il monopolio della virtù. A soffrirne è stato il tessuto istituzionale del paese, esposto ai feroci colpi degli uni e degli altri.

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Il Foglio, 7 febbraio 2018 – «Invece di ispirarsi a Corbyn, Grasso dovrebbe studiare Blair»

Sui manifesti elettorali di Liberi e uguali, accanto alla foto di Piero Grasso, appare lo slogan del Labour Party di Jeremy Corbyn: «Per i molti, non per i pochi». È una sorta di marchio di fabbrica della sinistra tradizionale: è chiaro, la gente sa cosa significa, emoziona e parla ai valori. Ma era lo slogan di Tony Blair. Infatti, la frase è stata scritta nella famosa Clause IV dello Statuto del Labour proprio da quel Tony «Bliar», com’è stato sbeffeggiato crudelmente, che ha vinto tre elezioni di fila. Blair è riuscito a cambiare radicalmente la sinistra britannica e a influenzare quella di tutta Europa (dopo aver ottenuto alcune delle vittorie elettorali più sonanti nella storia del Regno Unito) ma, si sa, si è lasciato alle spalle un’eredità politica ancora oggi molto discussa. Eppure, il linguaggio di Tony Blair ha identificato realmente il Labour con l’Inghilterra ed essere «for all the people or for the few» era la linea di demarcazione tra il Labour e i Conservatori.

I giornali inglesi, l’anno scorso, hanno discusso vivacemente sull’origine dell’espressione. Secondo Philip Collins, del Times, la frase sarebbe stata formulata nell’orazione funebre pronunciata da Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso come ci è stata tramandata da Tucidide («Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi; per questo è detto una democrazia»). Il professore della UCL John Sutherland ha detto invece al Londoner che «For the Many, not for the Few» deriva, in realtà, dal poema di Percy Bysshe Shelley, «The Masque of Anarchy». Il poeta romantico ha scritto il componimento dopo il massacro di Peterloo del 1819 a Manchester, nel quale almeno 15 manifestanti, in lotta per la democrazia e contro la miseria, furono uccisi dalla cavalleria. Il poema (uno dei primi testi moderni di resistenza non violenta che termina con una incitamento trascinante per «i molti»: “Rise, like lions after slumber / In unvanquishable number!/ Shake your chains to earth like dew/ Which in sleep had fallen on you/ Ye are many — they are few.”) è molto popolare nei circoli di sinistra. E Corbyn, un uomo colto, amante della poesia (si dice che abbia letto l’Ulisse di James Joyce quattro volte) ha ripetuto a memoria quei versi nei suoi comizi. The Londoner, infatti, ha incalzato Sutherland: «Quella frase fa di Jeremy un romantico?», e il professore ha risposto: «Si, un romantico, non un moderno. I poeti sono dalla parte di Jeremy, ma chi ha mai fatto caso ai poeti?».

Ovviamente, mentre i blairiani hanno ribadito allegramente che lo slogan è stato usato per la prima volta dal New Labour di Tony Blair nel 1997, i suoi detrattori hanno affermato risolutamente che con Blair la frase non significava nulla. Era parte di una lunga serie di frasi ad effetto che ne hanno caratterizzato la comunicazione politica, come un «paese giovane», «una società di stakeholder» e, naturalmente, «duri con il crimine, duri con le cause del crimine». E hanno tenuto a precisare che, al contrario, Jeremy Corbyn non si affida a vuoti «sound bites»: intende dire, sul serio, «per i tanti, non per i pochi». Ma in parecchi, dopo la sconfitta (l’ennesima) dell’anno scorso, hanno anche sottolineato il doppio errore nel quale è incappato il Labour Party con quel grido di battaglia. In primo luogo, ha messo gli elettori in un unico calderone, raggruppandoli in una massa anonima. In secondo luogo, ha dato per scontato che «i tanti» sono poveri ed oppressi. Lo stesso errore compiuto dal Labour nel 1983. Un errore che a Corbyn viene naturale. «Perfino se dovesse andare in paradiso – hanno scritto – finirebbe per incontrate angeli che soffrono per la mancanza di corde per l’arpa». La maggioranza della gente ora non è indigente e anche se lo fosse, è sciocco da parte del Labour identificarsi unicamente con i tanti bisognosi ed equiparare i Tories ai pochi realizzati. Milioni di non abbienti in tutto il mondo credono (e sperano) che un giorno potranno unirsi ai pochi che hanno successo. E continuano a ritenere che i partiti conservatori li porteranno alla meta più velocemente e che, quando riusciranno ad arrivare tra i pochi, sicuramente quei partiti difenderanno i loro interessi più efficacemente.

Ora il frontman della nuova formazione politica che unisce i pezzi della «sinistra- sinistra», rischia di ripetere lo stesso errore e di aggiungere, usando lo slogan elettorale di Tony Blair, un senso di spaesamento. Come quando Di Maio (a Washington) vuole copiare Trump o quando, dopo Di Maio, anche Salvini cerca di copiare Renzi e annuncia che manterrà gli 80 euro. Probabilmente, a sentire evocare Blair, il presidente del Senato si farà il segno della croce. Eppure, Blair sarà anche l’anticristo (per la «vera» sinistra), ma un paio di cose su come vincere le elezioni, lui le sa davvero.

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Il Foglio, 23 gennaio 2018 – “Perché la ricerca del consenso a ogni costo nuoce gravemente alla politica”

I candidati ai blocchi di partenza della campagna elettorale dovrebbero rileggere John F. Kennedy e ricordare che il coraggio è parte integrante della vita pubblica

 

di Alessandro Maran

 

La campagna elettorale è cominciata. È arrivato, insomma, quel momento nella vita pubblica in cui, per dirla con il senatore Ashurst dell’Arizona, un uomo “è chiamato ad alzarsi al di sopra dei suoi princìpi”. Procurarsi voti è, d’altra parte, “una questione puramente pratica”, in cui – è la tesi di Frank Kent – non devono entrare scrupoli morali su cosa è giusto o sbagliato: “La cosa più importante non è essere dalla parte giusta ma da quella più popolare, senza guardare alle proprie convinzioni o ai fatti”.

Buona parte dei partiti italiani gli scrupoli di coscienza li hanno messi da parte da tempo e hanno sviluppato l’abitudine di inseguire il consenso popolare con promesse roboanti che non potranno mantenere (dall’abolizione della legge Fornero al reddito di cittadinanza). Dopotutto, si rivolgono a elettori con “un cuore mediterraneo” e “un amore spontaneo per la botte piena e la moglie ubriaca” (parola di Jovanotti) e poi, si sa, stiamo andando verso la fast democracy: la democrazia sta diventando sempre più real-time, le politiche pubbliche stanno diventando sempre più personalizzate e tra non molto agli individui sarà chiesto probabilmente, grazie alla tecnologia, di scegliere o giudicare in tempo reale i servizi pubblici.

Anche per questo, nel “kit del perfetto candidato” non dovrebbe mancare un vecchio libro di John F. Kennedy. Si intitola “Profiles in courage” (Ritratti del coraggio). Il libro venne insignito del Premio Pulitzer e racconta le storie di otto senatori degli Stati Uniti che “mettendo a rischio se stessi, il proprio futuro e, addirittura, il benessere dei propri figli, sono rimasti fedeli a un principio”.

Oggi che il discredito dei partiti e della politica ha raggiunto vette altissime, ci siamo dimenticati che il coraggio è parte integrante della vita pubblica. Eppure, come scrive Kennedy, “in quale altra professione, se non in quella politica, in regimi non totalitari, ci si aspetta che un individuo sacrifichi tutto, compresa la carriera, per il bene della nazione? Nella vita privata, come nell’industria, ci si aspetta che l’individuo porti avanti il proprio illuminato interesse, nel rispetto della legge, per raggiungere il successo assoluto. Ma nella vita pubblica ci aspettiamo che gli individui sacrifichino i loro interessi privati per permettere al bene nazionale di progredire. In nessun’altra professione, a parte la politica, ci si aspetta da un uomo che sacrifichi gli onori, il prestigio e tutta la sua carriera per difendere una singola proposta di legge. Avvocati, uomini d’affari, insegnanti, medici, tutti prima o poi, affrontano personalmente decisioni difficili sulla questione della propria integrità, ma soltanto pochi, se non addirittura nessuno, le affronta sotto la luce accecante dei riflettori, come accade a chi occupa una carica pubblica; pochi, se non addirittura nessuno, affrontano una decisione altrettanto terribile, per la sua irreparabilità, come succede ad un senatore quando è chiamato a un importante appello nominale”. “Quando sarà chiamato a quel voto – prosegue John Kennedy – non si potrà nascondere, non potrà sbagliarsi, non potrà temporeggiare, mentre avrà la sensazione che il suo elettorato, proprio come il corvo nella poesia di Poe, stia appollaiato lì, sul suo seggio in Senato, gracchiando ‘mai più’, mentre sta per dare il voto sul quale si sta giocando il suo futuro politico”.

Ai candidati sui blocchi di partenza, una volta eletti, toccherà fare i conti con le pressioni che disincentivano il coraggio: il desiderio di piacere, il desiderio di essere rieletti e, soprattutto, la pressione esercitata dal proprio elettorato (i gruppi di interesse, le organizzazioni che ti sommergono con valanghe di e-mail, le associazioni economiche e anche gli elettori in carne e ossa). Tenere testa a queste pressioni, sfidarle (e anche cercare di soddisfarle) è un lavoro enorme. Non per caso, la norma contenuta dell’articolo 67 della Costituzione è comune alla totalità delle democrazie rappresentative. Prima o dopo, anche ai nuovi eletti capiterà di dover scegliere tra le proprie convinzioni e la via più facile, l’approvazione degli amici e dei colleghi, la popolarità. E a tutti, prima o poi, verrà la voglia di seguire l’esempio del deputato della California John Steven McGroarty, che scrisse a un suo elettore nel 1934: “Uno dei numerosi svantaggi di essere al Congresso, è che mi tocca ricevere delle lettere da un somaro come voi, che scrive che ho promesso di rimboschire le montagne della Sierra Madre e che nonostante io sia al Congresso già da due mesi, non l’ho ancora fatto. Vi dispiacerebbe prendere la rincorsa e andarvene all’inferno?”.

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Messaggero Veneto, 16 gennaio 2018 – «Lascio il Senato senza rimpianti»

di Mattia Pertoldi

 

Udine – Alessandro Maran, il prossimo 4 marzo, terminerà ufficialmente la sua avventura come parlamentare. Il senatore dem non sarà, infatti, inserito nelle liste del Pd alle prossime elezioni. Lascerà palazzo Madama «ma non la politica, se mi vorranno» e lo fa, assicura, «senza rimpianti».

Senatore come mai non si ricandiderà?

«Mi rifaccio alle parole di un antico proverbio buddista che sostiene come, nella vita, alla fine contino soltanto tre cose: quanto hai amato, come gentilmente hai vissuto e con quanta grazia hai lasciato andare cose non destinate a te».

Fuor di metafora, invece?

«Ho trascorso a Roma tre legislature più quella breve dal 2006 al 2008, e ho deciso di togliermi dai piedi: non voglio diventare un problema per un partito che ne ha già parecchi, e molto più seri, da affrontare. Voglio ringraziare tutti gli elettori che mi hanno dato la loro fiducia e tutti coloro che hanno seguito e sostenuto il mio impegno in Parlamento. La mia, però, non è una fuga e non ho nessuna delusione da smaltire. Se la segreteria del Pd mi avesse chiesto di ricandidarmi, magari in un collegio “impossibile” come quelli del Fvg, mi sarei sentito chiamato in causa. Ma hanno scelto diversamente. Nessuno mi ha interpellato. E va bene così, almeno per quanto mi riguarda».

Può spiegarsi meglio?

«Intendo dire che ora bisogna evitare lo spettacolo di un gruppo dirigente spaventato, che si affolla attorno alle poche posizioni garantite. I vertici del Pd devono mostrarsi motivati a combattere, a cominciare proprio dalla vecchia guardia, nei collegi più a rischio, quelli che davvero possono fare la differenza. Anche perché dal 5 marzo, vada come vada, bisognerà ricominciare».

Quanto può aver pesato, nelle scelte del Pd, la sua candidatura nel 2013 nella lista di Mario Monti e il rientro tra i dem a legislatura in corso?

«Le motivazioni, credo, sono più profonde. Penso di poter dire di aver fatto politica con disciplina e onore, come dice la Costituzione, ma sempre con due obiettivi: modernizzare il nostro Paese, a partire dalle istituzioni, rendendolo più integrato con gli Stati europei e costruire un partito riformista degno di questo nome. Credo, cioè, in una sinistra adatta ai moderni conflitti sociali e politici, non a quelli del secolo scorso».

Un renziano doc in altre parole…

«Matteo Renzi ha avuto l’indubbio merito di tagliare il cordone ombelicale con il cattolicesimo democratico da una parte e con le ambiguità del post comunismo dall’altra. Ha ripreso quasi tutte le idee chiave della sinistra liberale e ha sfidato la maggioranza del Pd, battendola. È questo il vero senso della rottamazione che va oltre l’età anagrafica. Certo, poi, un atteggiamento di questo tipo lascia alcune cicatrici. Vale per Renzi e, nel piccolo, anche per me».

Che giudizio si può dare della legislatura appena conclusa?

«Direi che, pur in modo caotico, abbiamo raggiunto risultati inimmaginabili. Non soltanto sul piano dei diritti – dal divorzio breve alle unioni civili al biotestamento -, ma anche nella percorrenza di quello che Pier Carlo Padoan chiama il sentiero stretto restando, cioè, all’interno delle regole europee, contenendo il deficit e stimolando la crescita. Un lascito che sarebbe bene non sprecare.

Un rammarico?

La riforma costituzionale: la debolezza del nostro sistema è destinato a diventare il vero male oscuro dell’Italia e la sua debolezza».

Scusi, ma ci sarà qualcosa che Renzi ha sbagliato?

«Sì, ha commesso molti errori: le tensioni con l’Europa, la sciagurata decisione di rompere il patto del Nazareno quando è stato eletto Sergio Mattarella e, dopo la sconfitta referendaria per molti versi non ne ha azzeccata una. Ma oggi resta il fatto che il 4 marzo ci sarà in gioco una scelta esistenziale come quella del 1948: gli italiani dovranno decidere se continuare a partecipare al progetto europeo, che sta accelerando, oppure uscirne».

Come vede, invece, la campagna elettorale per la conquista della Regione?

«Il passaggio di consegne tra Debora Serracchiani e Sergio Bolzonello non è ancora avvenuto appieno ed è, strategicamente ed elettoralmente, un errore. La presidente ha scelto di non ricandidarsi e di andarsene. Facciamocene una ragione e voltiamo pagina. Le elezioni si vincono pensando al futuro, non al passato».

Che tipo di candidato è, secondo lei, Bolzonello?

«Capace e competente. Aggiungo, nella situazione friulana, che è un candidato davvero in grado di esprimere una cultura politica lontana da quella messa in campo da Serracchiani. Una cultura non identificabile con la sinistra tradizionale, ma convergente con essa. E non mi pare affatto un fattore negativo».

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