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Il Foglio, 10 marzo 2017 – Lettera al direttore

La campagna per le primarie sta per iniziare. Tra poche ore, Matteo Renzi aprirà i lavori della kermesse del Lingotto di Torino (dove tutto è cominciato dieci anni fa con Veltroni) che fino a domenica impegnerà i 12 tavoli tematici nella scrittura della mozione congressuale, che diventerà l’ossatura del programma di governo. Il mio punto di vista (sintetico) sul Foglio di oggi:

 

Al direttore – Mai avuto dubbi. Ho appoggiato il progetto innovativo di Veltroni, ho sostenuto lo sforzo riformatore di Monti e, per le stesse ragioni, ho visto nell’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Pd un antidoto all’immobilismo antiriformista del Pd di Bersani. Si può pensare quel che si vuole di Matteo Renzi ma non c’è dubbio che abbia ripreso le idee-chiave della sinistra liberale e che con queste idee abbia sfidato la vecchia “ditta”. Non è un mistero per nessuno che, al contrario di quel che hanno fatto Bill Clinton, Tony Blair e Gerhard Schröder, rompendo tabù e cinghie di trasmissione (a cominciare dal sindacato), rinunciando alla rendita di consolidati bacini elettorali e mettendo in discussione le vecchie identità, nel Pd l’ala veterostatalista ha preso il sopravvento e ha scelto di usare la crisi finanziaria e politica per tornare alle vecchie certezze sul ruolo dello stato in economia, sulle modalità di regolamentazione del mercato del lavoro e su parecchie altre cose. Ed è stato proprio Matteo Renzi, in questi anni, a restituire alla sinistra la possibilità di liberarsi, come direbbe Claudio Cerasa, dalle catene del post comunismo. Senza contare che sarebbero bastati gli interventi che ho ascoltato nell’ultima riunione della Direzione (che hanno chiesto a gran voce il ripudio del pareggio di bilancio, invocato più stato in economia, lanciato l’anatema sulle privatizzazioni, ecc.) a dissolvere ogni dubbio eventuale. E, come Biagio De Giovanni, ho preso la tessera del Pd per appoggiare Matteo Renzi e, ovviamente, ho sottoscritto la piattaforma per la sua candidatura.

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Stradeonline.it, 07 marzo 2017 – IL MONDO DI LENNON CONTRO IL MONDO DI BANNON, LA FRATTURA CHE DIVIDE L’OCCIDENTE

Se c’è una cosa che oggi unisce America ed Europa, questa è senza dubbio la profonda frattura che attraversa entrambe le società. Si tratta di uno scontro ideologico interno all’Occidente, che riguarda, in sostanza, in che mondo vorremmo vivere. Secondo il giornalista tedesco Jochen Bittner, editorialista di Die Zeit, si sfidano il «mondo di Lennon» e il «mondo di Bannon».

Il mondo di Lennon è quello dei liberal cosmopoliti, descritto da John Lennon nella sua più celebre canzone, «Imagine» («Imagine there’s no countries», cantava infatti l’ex Beatle, «a brotherhood of man»). Il mondo di Stephen K. Bannon, il giornalista e cineasta americano, chief strategist del presidente Trump, è invece l’opposto: un posto fatto di barriere e prescrizioni e guidato da figure autoritarie e intransigenti. Nelle città americane e in buona parte dell’Europa il mondo di Lennon è già una realtà e sono stavolta i sostenitori del mondo di Bannon a volere la rivoluzione.

Per i lennonisti, i confini sono concetti artificiali. Ogni essere umano ha il diritto di vivere dovunque lo desideri. Ed anche le merci devono potersi spostare liberamente: il libero scambio avvantaggia tutte le nazioni che vi prendono parte; promuove la ricchezza e la costruzione di reti transnazionali e, dunque, la pace. Le élite devono solo sforzarsi di convincere gli incerti, che ignorano il meccanismo che governa oggi un mondo sempre più interconnesso. I lennonisti credono inoltre che la religione non debba dividere l’umanità, che l’Islam sia una religione di pace e che debba essere distinta nettamente dall’Islamismo, un concetto politico. Perciò, vietare l’ingresso ai musulmani è una smaccata violazione dei diritti umani.

Anche il ruolo delle donne è un punto di scontro. Il «soffitto di cristallo» resta una barriera e gli uomini sono così abituati ad esercitare un dominio politico, economico e culturale che non riescono ad ammettere neppure la loro egemonia. Ecco perché il femminismo rimane un movimento di emancipazione legittimo e necessario. Infine, l’Unione europea è la più alta espressione di tutti questi principi e lo strumento per promuoverli. Chiunque attacchi l’Unione, perciò, attacca la pace, il progresso ed il benessere.

Per i bannonisti, invece, sono proprio i confini a permettere alle nazioni di esprimere la loro identità culturale. Dunque, il libero movimento delle persone (e delle merci) deve essere bilanciato con questo interesse. Anche il bannonismo è perlopiù secolarizzato (sebbene conceda uno spazio maggiore alla tradizione giudaico cristiana), la differenza sta nella convinzione che l’Islam non sia una religione, ma piuttosto una aggressiva ideologia anti-occidentale, intollerante e illiberale, dedita alla conquista mondiale. Ne consegue, perciò, che il divieto all’immigrazione musulmana è giustificato.

Ma il bannonismo è anche una critica del lennonismo. Ritiene che, dopo il crollo del Muro di Berlino, le élite liberali abbiano trascurato gli interessi legittimi dello Stato nazione; continuino a prendere sottogamba le distinzioni tra uomini e donne e abbiano confuso l’eguaglianza con la parità. Il femminismo, per i bannonisti, è una ideologia polarizzante costruita sull’allucinazione che le società occidentali siano ancora patriarcali e gli uomini siano nemici delle donne. Manco a dirlo, per i bannonisti, l’Unione europea incarna tutto quel che oggi non va nell’Occidente.

La disputa è in corso dappertutto. E si sa che quest’anno ci attendono elezioni cruciali in Olanda, in Francia e in Germania. Anche in Germania, una destra bannonista in ascesa si è posizionata sia contro i socialdemocratici di centro-sinistra, sia contro i cristiano democratici di centro-destra (entrambi propendono per una versione della visione del mondo di Lennon). Ma, stando al giornalista tedesco, qualche differenza c’è. Diversamente dall’Olanda e dalla Francia, in Germania il centrosinistra è robusto; e a differenza degli Stati Uniti, il centro-destra non ha interesse a cooptare o a farsi rimpiazzare dall’estrema destra. Inoltre, i tedeschi hanno fatto tesoro delle esperienze americane ed inglesi dello scorso anno; e certamente, snobbare la base elettorale dell’estrema destra, bollandola come «deplorable», è stato un errore (politico e morale).

In un modo o nell’altro, sostiene Bittner, bisogna trovare un compromesso tra due visoni, entrambe insostenibili. In altre parole, c’è una via di mezzo? Detta altrimenti, occuparsi e indennizzare i loser, coloro che nei mutamenti prodotti dalla globalizzazione, almeno temporaneamente, ci perdono, è l’unico modo per alleviare uno smarrimento e un’angoscia che, nella transizione, possono colpire tutti e che possono generare mostri. Vale anche per quanti di noi ritengono che l’Italia abbia bisogno di riforme (sul Foglio del 12 gennaio dello scorso anno, avevamo appunto indicato, in una lettera aperta, cinque priorità «per neutralizzare la paura della globalizzazione e spingere la crescita».

Angela Merkel, che stavolta si propone (per la quarta volta) come un antidoto al Trumpismo, ha detto chiaramente di volere risparmiare alla Germania le crisi che questo scontro ha già prodotto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Nella sua prima intervista della campagna elettorale ha detto infatti: «Non vogliamo odiarci l’un l’altro, vorremmo discutere democraticamente». Ed ha aggiunto: «La domanda è ‘che cosa possiamo fare per la coesione di una società così polarizzata?’».

La risposta non è ancora chiara. Ma nel candidato socialdemocratico, Martin Schulz (ex presidente del Parlamento europeo), la cancelliera tedesca sembra aver finalmente trovato un rivale con il quale dar vita precisamente a quella «conversazione» di cui lennonisti e bannonisti hanno bisogno. Pressati dalla destra populista, i due partiti dell’establishment non si contendono più il controllo dello stesso spazio sicuro al «centro» della società tedesca e stanno cercando di rivolgersi ad una platea più ampia di elettori. Nei prossimi mesi, secondo Bittner, bisogna aspettarsi una linea più dura del governo sull’immigrazione clandestina per contenere gli effetti della politica dei confini aperti della Merkel; un dibattito sul modo di sanare le fratture sociali ed economiche create dalla europeizzazione; e una rifocalizzazione su quella parte dell’elettorato che si sente lasciata indietro da un dibattito politico che si è occupato troppo di questioni come il gender e troppo poco di questioni pressanti come la carenza di alloggi.

Sia Merkel che Schulz condividono, infatti, la necessità di sviluppare un sentimento di appartenenza nazionale senza ricorrere alla retorica nazionalistica e antagonistica del tipo «Germany first». Anche perché una piccola dose di identità politica potrebbe offrire ai giovani musulmani un «rifugio» più attraente di quello offerto dall’Islam politico.

Va da sé che la Brexit, il presidente Trump e l’estrema destra europea continueranno ad agitare le acque. Ma sembra che un po’ alla volta si stia facendo strada anche un promettente dialogo dal «centro»: una attenzione alla disuguaglianza e all’ingiustizia domestiche e un impegno concreto a rafforzare quelli che si sentono lasciati indietro. È su questo terreno che Hillary Clinton sembra aver fallito, permettendo ai bannonisti di occupare Washington. Ma la sfida è appena iniziata. E un match importante si svolgerà in Germania.

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stradeonline.it, 01 marzo 2017 – LE SFIDE DELL’UE, PRIMO ROUND: LE ELEZIONI IN OLANDA

Saranno le elezioni in Olanda, il 15 marzo prossimo, il primo banco di prova della tenuta dell’Unione Europea. Tra due settimane, dieci giorni prima del 60° anniversario della Firma del Trattato di Roma, gli olandesi saranno chiamati ad eleggere un nuovo Parlamento. Vedremo, dunque, se davvero, come va dicendo il suo leader Geert Wilders, “una volta fuori, il genio non rientrerà nella bottiglia” e il Partito per la Libertà olandese (PVV) sarà destinato a conquistare il governo di uno dei Paesi più civili e liberali d’Europa.

Geert Wilders, fondatore e leader del PVV, è ormai un’icona dell’estrema destra. Vuole mettere fine all’immigrazione dai Paesi musulmani (anche lui), tassare il velo islamico e proibire il Corano. È (parzialmente) di origine indonesiana e si tinge i capelli di un biondo sfavillante. È onnipresente sui social media ma vive nascosto e protetto dalla polizia (è in cima alla lista del terrorismo jihadista e anche in campagna elettorale si fa vedere raramente in giro: pare dorma ogni sera in un posto diverso). Ha strutturato il suo partito (anche lui) in modo da esserne l’unico “padrone” e tenerlo sotto controllo. E, anche lui, è un provocatore, un iconoclasta, che si diverte a punzecchiare l’establishment e si erge a “difensore del libero pensiero”

È uno dei politici più inconsueti in circolazione, specie se si considera che l’Olanda è uno dei Paesi europei più aperti, con una tradizione di promozione della tolleranza religiosa e dell’accoglienza degli immigrati lunga un secolo. Oltretutto, l’Olanda è un Paese economicamente solido: nel 2016 il Pil è cresciuto del 2,1% e il tasso di disoccupazione è del 6%, tra i più bassi d’Europa. Un Paese, insomma, che con la sua tolleranza religiosa e la sua relativa prosperità potrebbe sembrare il posto meno adatto per permettere all’estrema destra di mettere radici e prosperare. Ma, al solito, il successo del PVV sembra sia dovuto alla crescente disaffezione dei cittadini olandesi verso l’Ue e all’amplificazione (al solito, esagerata) della crisi migratoria. Tema che, si sa, di questi tempi risulta elettoralmente vincente. E il fatto che proprio in un Paese con uno stile di vita così aperto un numero crescente di olandesi si rivolga a Wilders per proteggere e tutelare i valori sociali liberali la dice lunghissima sul problema (oltre che sull’appeal di Wilders).

Va da sé che il risultato del suo partito nelle elezioni del 15 marzo prossimo potrebbe fare da apripista all’estrema destra nelle elezioni (decisive) che si terranno in Francia e in Germania (e forse in Italia) nel corso dell’anno e alla fine determinare il futuro dell’Unione europea. Wilders ha promesso, infatti, di chiedere un referendum sulla Nexit, per decidere se l’Olanda dovrà seguire l’esempio della Gran Bretagna e lasciare l’Unione.

L’Olanda è una specie di barometro e molte tendenze, in quel Paese, si manifestano con un certo anticipo. Non bisogna, dunque, escludere nulla. Va detto però che, se anche il PVV dovesse primeggiare rispetto al Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) guidato dall’attuale premier Mark Rutte – le elezioni si presentano infatti come una sfida tra i due leader: il Partito Laburista (PvdA), per anni protagonista della scena politica, è ormai fuori dai giochi – , il partito di Geert Wilders comunque non arriverebbe ad occupare i seggi necessari per dar vita ad una maggioranza sufficiente a governare.

Senza contare che tutti i partiti in corsa hanno già detto di non essere disposti a formare un’alleanza di governo con il PVV. Ed è verosimile che, per contrastare l’ascesa di Wilders, si formi una “grande coalizione” tra i diversi partiti in grado di garantire la maggioranza nella Camera. Che l’Olanda riesca ad avere un governo stabile e coeso è però molto improbabile.

Per ora pare che il partito di Wilders sembra destinato a conquistare più seggi di chiunque altro, anche se in passato ha sempre ottenuto risultati migliori nei sondaggi prima del voto che nelle urne. Tuttavia, dopo che i sondaggi hanno sottostimato sia la Brexit che la vittoria di Trump, nessuno è disposto a fidarsi più di tanto.

Ma che il partito di Wilders conquisti o meno la maggioranza dei seggi importa poco. È già riuscito in uno dei suoi obiettivi più ambiziosi: spingere la politica olandese a destra e rendere possibile una discussione sulla chiusura agli immigrati e sulla demolizione dell’Unione europea che non molto tempo fa sarebbe stata impensabile.

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Il Gazzettino, 22 febbraio 2017 – Debora non può andarsene

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I’Unità, 16 febbraio 2017 – Usa e «vuoto» di leadership

In campagna elettorale, si sa, Donald Trump è stato molto indulgente con Putin. All’opposto, non ha attaccato nessun altro paese così intensamente come la Cina. Trump ha accusato i cinesi di «stuprare» e di «uccidere» gli Stati Uniti sul piano commerciale manipolando artificialmente la loro valuta per favorire l’export. Una linea che ha ripreso, una volta eletto, accentuando la sua bellicosità verso Pechino, e che è culminata in una inusuale telefonata alla presidente di Taiwan.

Eppure, come ha scoperto con una certa sorpresa Fareed Zakaria, il conduttore di Global Public Square sulla CNN, le élite cinesi si mostrano ottimiste. «Trump è un negoziatore e la retorica fa parte delle mosse iniziali della partita», ha detto al giornalista uno studioso cinese che preferisce non essere menzionato. «Gli piace fare affari», ha aggiunto, «e noi anche siamo dei bravi negoziatori. E ci sono diversi accordi che possiamo fare sul commercio».

Del resto, che Stati Uniti e Cina siano destinati ad essere nel lungo periodo partner strategici è opinione diffusa. Non per caso, Donald Trump è tornato rapidamente sui suoi passi e, in una «lunga e molto cordiale» conversazione telefonica con il presidente cinese Xi Jinping, ha riconosciuto, in linea con la tradizionale politica americana, che esiste «una sola Cina» e che dunque Taiwan ne fa parte.

Il fatto è che la Cina ha molte frecce al proprio arco. È un enorme mercato per le merci americane (e non solo per quelle, ovviamente) e solo l’anno scorso (secondo il Rhodium Group) il paese ha investito 46 miliardi di dollari nell’economia americana. Ma l’imperturbabilità delle élite cinesi deriva soprattutto dal fatto che la Cina sta diventando meno dipendente dai mercati esteri per il proprio sviluppo. Dieci anni fa, l’export ammontava ad un impressionante 37% del Pil cinese. Oggi ammonta appena al 22 per cento e sta calando.

La Cina è cambiata. I brand occidentali sono piuttosto rari e le compagnie cinesi ora dominano quasi ogni aspetto dell’enorme e fiorente economia nazionale. Sono pochi i business ancora influenzati dalle imprese americane (ed europee). Le imprese focalizzate sulle produzioni ad alto contenuto di conoscenza stanno innovando e molti giovani cinesi ostentano che le versioni locali di Google, Amazon e Facebook sono migliori, più veloci e più sofisticate delle originali. Il paese, insomma, procede per conto proprio.

In parte è il risultato delle politiche del governo. Da tempo le aziende estere e i giganti hi-tech americani devono lottare a causa di regole formali (e informali) concepite «contro» di loro. E, verosimilmente, ora la Cina cercherà di sfruttare il vuoto di leadership creato dal «ritiro» degli Stati Uniti. Mente Trump prometteva protezionismo e minacciava letteralmente di isolare con un muro gli Stati Uniti dal suo vicino meridionale, il presidente cinese Xi Jinping è tornato (per la terza volta in quattro anni) in America latina, ha firmato più di 40 accordi e si è impegnato con miliardi di dollari di investimenti nella regione. Inoltre, cercherà di approfittare della decisione di Trump di affossare la Trans-Pacific Partnership (TPP). L’accordo commerciale, negoziato tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi, riduceva infatti le barriere al commercio e agli investimenti e spingeva le economie asiatiche più grandi (come il Giappone ed il Vietnam) in direzione di una maggiore apertura basata sul rispetto delle regole. Ora sarà la Cina ad offrire la propria versione dell’intesa, che, ovviamente, esclude gli Stati Uniti e favorisce l’approccio cinese, più mercantilista.

L’Australia, un convinto sostenitore del TPP, ha subito annunciato il proprio sostegno all’alternativa cinese. E presto altri paesi asiatici seguiranno. Al summit del Consiglio per la cooperazione economica asiatico-pacifica (APEC) del novembre scorso, l’allora il primo ministro della Nuova Zelanda, John Key, l’ha messa in modo molto semplice: «Il TPP era una dimostrazione di leadership americana nella regione asiatica (…) noi vogliamo davvero che gli Stati Uniti restino nella regione (…) Ma alla fine, se gli Stati Uniti non ci sono, quel vuoto deve essere riempito. E verrà riempito dalla Cina».

Non per caso, l’intervento di Xi Jinping (che ha elogiato il commercio, l’integrazione e l’apertura e ha promesso di adoperarsi affinché i paesi non si chiudano agli scambi e alla cooperazione globale) sembrava quello di un presidente americano. Il presidente cinese è intervenuto anche (per la prima volta) al 47° Forum economico di Davos, ergendosi a paladino del libero scambio. E nel frattempo, i leader occidentali stanno rinunciando al loro ruolo tradizionale. Assente Trump, anche Angela Merkel, Francois Hollande e Justin Trudeau hanno annullato la loro partecipazione al summit svizzero.

Pechino sembra aver concluso, infischiandosi dei tweet di Trump, che la sua presidenza potrebbe dimostrarsi per la Cina un regalo insperato. L’Europarlamento, che ieri ha approvato l’accordo con il Canada (CETA), sembra averlo capito.

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Stradeonline, 8 febbraio 2017 – MODELLO POPULISTA, PUTIN RIMANE UN NEMICO DELLA LIBERTÀ OCCIDENTALE

Domenica scorsa, Donald Trump ha difeso Vladimir Putin dall’accusa di essere un ‘assassino’ dicendo a Bill O’Reilly, nel corso dell’intervista su Fox News, ‘anche da noi ci sono molti assassini. Pensa che la nostra nazione sia così innocente?’.

La frase shock, che suggerisce un’equivalenza morale tra Stati Uniti e Russia (un altro tabù violato da Trump), ha provocato sdegno anche tra i Repubblicani. “No, qui da noi non avveleniamo gli oppositori. Non siamo uguali a Putin”, è sbottato il senatore Marco Rubio, già rivale di Trump per la nomination repubblicana.

Niente di nuovo, a ben guardare: la considerazione per Putin ed il desiderio di collaborare esibiti da Trump sono stati uno dei temi più gettonati della campagna elettorale. Indubbiamente, nel suo costante plauso a Vladimir Putin e nell’accanimento con il quale ribadisce che gli Stati Uniti si avvantaggerebbero da relazioni più cordiali con la Russia, Donald Trump è sostanzialmente un caso isolato nel mainstream della politica americana, ma la tendenza a vedere Putin più come un alleato che come una minaccia lo pone in linea con i movimenti populisti che stanno guadagnando terreno sia in America che in Europa. E ciò significa che i dissidi sulla Russia interni al Partito Repubblicano, fra Trump e gli analisti di politica estera più tradizionali (come, ad esempio, i senatori John McCain e Lindsey Graham), sono destinati a provocare un dibattito più ampio sulle priorità che devono guidare la politica estera americana.

Putin è percepito come una minaccia dalla maggior parte degli analisti di politica estera, indipendentemente dal loro colore politico, sia negli Stati Uniti che in Europa, in larga misura perché sta cercando di espandere l’influenza russa in tutta l’Europa orientale e nel Medio Oriente con modalità che potrebbero destabilizzare le alleanze e le regole globali che hanno definito l’ordine internazionale fin dalla Seconda guerra mondiale.

Questa preoccupazione ha raggiunto un picco dopo un susseguirsi di azioni provocatorie da parte di Putin: dall’aggressione in Ucraina nel 2014 alla violenta campagna militare contro gli oppositori del regime di Damasco in Siria, fino alle conclusioni della Comunità di intelligence americana che ha confermato che la Russia avrebbe hackerato gli account di posta elettronica del Partito democratico per influenzare le elezioni presidenziali americane del 2016.

Ma i nazionalisti e i populisti conservatori, sia negli Stati Uniti che in Europa, vedono in Putin un potenziale alleato perché le loro priorità internazionali sono molto diverse: resistere alla radicalizzazione islamica, smantellare l’integrazione economica globale e combattere la secolarizzazione delle società occidentali. E anche i consiglieri di alto livello di Trump come Stephen Bannon, il Chief strategist della Casa Bianca, ed il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, hanno espresso punti di vista molto simili.

In questo senso, le visioni contrastanti su Putin non riflettono solo le differenze sul come rapportarsi specificatamente alla Russia, ma il contrasto su quali siano gli obiettivi che devono guidare la politica estera americana nel XXI secolo e quali alleati siano necessari per raggiungere quegli obiettivi. Su entrambi i lati dell’Atlantico, la spinta a “resettare” i rapporti con Putin riflette il desiderio di mettere l’accento su un diverso set di priorità e ridimensionare, e perfino abbandonare, le alleanze che hanno legato più strettamente le nazioni europee tra loro e agli Stati Uniti per decenni.

Resta da vedere quanta strada farà questo cambiamento di prospettiva all’interno del Partito Repubblicano. Nel GOP, infatti, la maggior parte degli eletti e degli analisti di politica estera ritiene ancora che la stabilità globale dipenda da un network di regole e di alleanze guidato dall’America, e vede ancora Putin come una minaccia crescente verso quest’ordine. Tuttavia, sebbene il sostengo a Putin dei conservatori e dei populisti, così comune in Europa, resti ancora confinato ai margini del Partito Repubblicano, con Trump sembra aver acquisito una testa di ponte.

I principali movimenti nazionalisti e populisti in Europa, compreso il Fronte nazionale francese, l’Independence Party inglese, Alternative für Deutschland, il Partito per la Libertà olandese, il Partito della Libertà austriaco, lo Jobbik ungherese, lo stesso M5S e la Lega, non hanno esattamente le medesime vedute su Putin. Geert Wilders, il leader del Partito per la Libertà olandese, per esempio, è molto più “freddo” verso Putin di quanto lo sia Marine Le Pen del Fronte nazionale francese, che ha ottenuto un prestito da una banca russa per finanziare la campagna elettorale del partito nel 2014, o il Partito della Libertà austriaco, che ha firmato un “accordo di cooperazione” con il partito Russia Unita di Putin.

Ma i partiti populisti europei condividono una serie di priorità comuni che riguardano le limitazioni all’immigrazione, lo smembramento dell’integrazione politica ed economica globale (rinunciando all’Unione europea e, per alcuni di questi partiti, anche alla NATO), intervenire in modo più deciso per combattere il radicalismo islamico e, nella maggior parte dei casi, opporsi, in casa propria, al liberalismo culturale e alla secolarizzazione. E ai loro occhi, Putin appare non come una minaccia, ma come un alleato.

Ovviamente, nessuno di questi partiti “segue” Putin allo stesso modo in cui i partiti comunisti si uniformavano all’Unione sovietica. Ma ne apprezzano davvero la “forza”, quella che percepiscono come la difesa di solidi valori tradizionali, il nazionalismo e l’opposizione all’Islam. E non c’è dubbio che Putin si sia posizionato come un baluardo dei valori conservatori. Prima in Cecenia e più di recente in Siria, può vantare di aver dato battaglia agli estremisti islamici, in modo più aggressivo di ogni altra nazione occidentale, almeno da quando l’America ha rovesciato i talebani in Afghanistan (anche se in realtà la campagna russa in Siria si è dedicata più ad annientare gli oppositori di Assad che a combattere lo Stato Islamico).

I populisti conservatori come Marine Le Pen guardano, inoltre, all’avversione di Putin nei confronti delle istituzioni globali come ad un modello da imitare per ritornare alla “sovranità nazionale” in opposizione alla cooperazione multilaterale e all’integrazione. In particolare dopo il suo ritorno alla presidenza russa nel 2012, Putin si è venduto come il difensore dei tradizionali valori sociali, specialmente in opposizione ai diritti degli omosessuali e come alternativa, in linea con i precetti religiosi, ai paesi occidentali che, come si affanna a ripetere, “stanno negando i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionale, culturale, religiosa e perfino sessuale”. Sebbene l’idea che sia Putin ad impartire lezioni al mondo sui “principi morali” risulti ai più piuttosto irritante, è un atteggiamento che suscita l’ammirazione non solo dei populisti di destra in Europa, ma anche di quegli attivisti americani che la pensano allo stesso modo, come Patrick J. Buchanan, la cui candidatura per la nomination repubblicana ha anticipato molti dei temi isolazionisti di Trump.

Non per caso, i partiti populisti europei hanno quasi universalmente minimizzato le mosse destabilizzanti di Putin, compresa l’incursione in Ucraina e l’annessione della Crimea, declassandole al livello di preoccupazioni secondarie. Nigel Farage, il fondatore dell’Independence Party inglese (e il leader populista europeo più vicino a Trump), ha sostenuto, infatti, che sebbene l’incursione di Putin in Ucraina non fosse giustificata, sia stata una reazione comprensibile. È stato l’Occidente a spingersi troppo in là.

L’opinione di Farage è molto comune tra i populisti conservatori. Stando a loro, non c’è ragione di preoccuparsi. Non credono che la Russia voglia ripristinare l’Unione sovietica. Ritengono che la Russia stia difendendo unicamente sé stessa dal globalismo e vorrebbero che l’Unione europea e la NATO si tenessero fuori dall’Europa centrale e orientale. Ma non credono che la Russia voglia davvero riprendersi quella parte d’Europa e che abbia l’intenzione di minacciare l’Europa occidentale.

I consiglieri più vicini a Trump hanno espresso opinioni simili negli anni recenti. E, come i populisti europei, Steve Bannon ritiene che la minaccia potenziale posta da Putin sia di molto inferiore rispetto alle preoccupazioni più urgenti, che impongono di allearsi con i russi contro il terrorismo islamico. Anche Flynn ha ricordato che la nuova minaccia globale del terrore richiede un mutamento nelle priorità che veda Stati Uniti e Russia non più come avversari, ma come compagni in una lotta che è destinata a durare a lungo.

Quanto queste opinioni siano condivise da Trump non è dato sapere. Ma non dovremmo sottovalutare che l’obiettivo fondamentale delle mosse di Putin è quello di indebolire il tessuto della società occidentale e la stessa legittimità della democrazia liberale. Siamo in un periodo che ha molto più a che fare con gli anni Venti e Trenta di quanto abbia a che fare con il primo decennio degli anni Duemila. Siamo ad un punto di svolta. Ed il successo dei movimenti populisti solleva questioni fondamentali sulla possibilità stessa di sopravvivenza dell’ordine internazionale in cui viviamo.

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formiche.net, 5 febbraio 2017 – Cosa penso, da democratico, delle prime mosse di Donald Trump

L’intervento del senatore Pd, Alessandro Maran

Bisogna riconoscere che, tra un tweet e l’altro, nella sua prima settimana in carica, il presidente Donald Trump ha tratteggiato un quadro di politica estera coerente e, immagino, accuratamente progettato. Gli executive order di Trump delineano, infatti, in linea con lo slogan “l’America prima di tutto”, il cambiamento più importante nella politica estera americana dall’attacco giapponese a Pearl Harbor nel dicembre del 1941.

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MessaggeroVeneto, 2 febbraio 2017 – Maran, il dissidente renziano «Congresso prima del voto»

Il vicecapogruppo Pd al Senato si muove in controtendenza rispetto all’ex premier

«La questione centrale non è la data, ma come si presenterà il partito agli italiani»

 

di Mattia Pertoldi – UDINE

C’è un renziano, di ferro e della prima ora, che dal cuore del Friuli frena sulla data delle elezioni. E il piede levato dall’acceleratore non è quello di un renziano qualsiasi, bensì porta il nome il cognome di Alessandro Maran, senatore e vicecapogruppo Pd a palazzo Madama. Ex segretario dei Ds, ideatore del referendum sull’elezione diretta del presidente della Regione che anticipò la vittoria di Riccardo Illy, dopo lo strappo con il Pd di Pierluigi Bersani e la candidatura con i centristi di Mario Monti alle ultime Politiche ha fatto ritorno a febbraio di due anni or sono nelle fila democratiche guidate da Matteo Renzi. Maran, senza dubbio, è stato il primo renziano del Fvg, schierato da sempre con l’attuale segretario dem, sin dal momento in cui l’ex sindaco di Firenze rappresentava soltanto una corrente minoritaria nel partito. Fino allo strappo successivo alla vittoria di Bersani alle primarie che lo avevano portato a scegliere Scelta Civica per continuare la propria attività politica. E oggi, dal suo scranno di palazzo Madama, invita il “rottamatore” a rallentare, mentre per la Regione sostiene che il giochino non sia tanto “Serracchiani sì-Serracchiani no” – anche se per la presidente non sarebbe politicamente una passeggiata decidere di non ricandidarsi –, quanto lo schema di gioco con cui ci presenterà alle elezioni e la volontà, più o meno forte, di difendere le riforme messe in cantiere nell’arco di questa legislatura.

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GIORNALI2017 IN PRIMO PIANO

stradeonline.it, 23 Gennaio 2017 – AL REFERENDUM HA VINTO IL NO, MA IL RITORNO AL VECCHIO SISTEMA È UN’ILLUSIONE

LA BOCCIATURA DELLA RIFORMA RENDE PIÙ COMPLICATA MA PIÙ URGENTE LA TRANSIZIONE A UNA FORMA DI GOVERNO EFFICIENTE. OGGI OCCORRE IN PRIMO LUOGO EVITARE IL CAOS POLITICO-COSTITUZIONALE CHE SEGUIREBBE ALLA PROPORZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA ELETTORALE. IN SECONDO LUOGO, PER CONTRASTARE LA CRISI DI FIDUCIA VERSO PARTITI E ISTITUZIONI, SERVIREBBE RILANCIARE UN’OPZIONE, COME QUELLA SEMIPRESIDENZIALE, COERENTE CON LA SCELTA (DI DIRITTO O DI FATTO) DIRETTA DEI CAPI DEGLI ESECUTIVI DA PARTE DEGLI ELETTORI, A OGNI LIVELLO DI GOVERNO.

Contrariamente a quel che, da più parti, si è propagandato nel corso della campagna elettorale, e a tutti i progetti di riforma elaborati nel passato (in particolare dalla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema e poi dal governo Berlusconi), la riforma sottoposta a referendum il 4 dicembre scorso era di portata piuttosto “limitata” e incideva solo su alcuni aspetti del sistema parlamentare e regionale.

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stradeonline.it, 20 Gennaio 2017 – ENTRA TRUMP, ESCE OBAMA. MA SARÀ DIFFICILE CANCELLARE LA SUA EREDITÀ

Barack Obama lascia la Casa Bianca proprio mentre i sondaggi lo incoronano come il politico più popolare in America e uno dei presidenti più popolari degli ultimi tempi. La cosa non deve sorprendere. Agli americani mancheranno il decoro ed il modo di fare che Obama e la sua famiglia hanno portato alla Casa Bianca; e mancherà loro un oratore appassionato la cui eloquenza rivaleggia con quella di Abramo Lincoln. Il modo con il quale ha difeso i valori fondanti degli Stati Uniti, sostenendo al tempo stesso che quei precetti si dovevano sviluppare per garantire maggiore inclusione, ha colpito gli americani in modo particolare, così come hanno colpito le sue riflessioni nei momenti di lutto nazionale. Ma va detto anche che i risultati ottenuti nel corso dei suoi due mandati, non ultimo l’aver recuperato il Paese da una delle peggiori crisi economiche dalla Grande Depressione, sono stati davvero notevoli. Specie se si considera che, fin dall’inizio, sono stati ferocemente contrastati dai Repubblicani che hanno cercato in tutti i modi di fare in modo che la sua presidenza deludesse le attese.

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