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Il Foglio, 24 maggio 2014 – Grillo e i moralisti. Perché Renzi deve rottamare il berlinguerismo scalfariano

Nel suo libro, straordinariamente ben documentato, Claudio Cerasa spiega quali sono le catene che da mezzo secolo immobilizzano la sinistra. Ma se la sinistra non riesce a diventare maggioranza nel Paese, la ragione principale sta in un vecchio e mai sanato «cortocircuito politico-ideologico», che Alessandro Orsini ha descritto nella sua analisi delle radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario. Fino a quando i comunisti decisero di rivalutare i democristiani con la speranza di affiancarli nel governo del Paese, il Pci è ancora un partito anti-sistema dalla retorica rivoluzionaria. Poi, come sappiamo, arriva la svolta. Berlinguer giunge alla conclusione che sarebbe stato del tutto «illusorio» credere che i comunisti avrebbero potuto governare il Paese, anche vincendo le elezioni, e decide che, per garantire il bene dell’Italia, il Pci avrebbe dovuto allearsi con la Dc (che non è più «il partito dei corrotti», ma «una realtà non solo varia, ma assai mutevole»). Il guaio è che i comunisti italiani ambiscono ad affiancare la Dc nel governo del Paese, ma si reputano «leninisti». Il Pci non ha nessuna intenzione di avviare un processo di revisione ideologica e il riferimento alla tradizione marxista-leninista rimane incrollabile. Questo «riformismo leninista» produce un «cortocircuito politico-ideologico» insanabile. Nella celebre intervista di Enrico Berlinguer a Repubblica nel luglio 1981, il segretario del Pci riesce, ad esempio, all’interno del medesimo discorso, a sviluppare una critica radicale del «sistema», fonte di ogni male, e un elogio dei suoi «pilastri» fondamentali. Berlinguer traccia un quadro della società italiana (sono le parole di Scalfari) «da far accapponare la pelle». Gli italiani possono sperare di salvarsi solo in un modo: affidandosi al Partito comunista, ovvero al Partito degli «onesti», il quale lotta, completamente isolato, contro la corruzione dilagante. Cambiare l’Italia però non è facile – sostiene Berlinguer – perché gli italiani non sono liberi di scegliere. Essi «si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (…) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più». Al centro di tutto c’è sempre il «sistema», il quale è responsabile di ogni male. Ovunque si volga lo sguardo è una catastrofe continua. Dopo una simile analisi, era ragionevole attendersi l’esaltazione della rivoluzione del proletariato. E invece (ecco il cortocircuito politico-ideologico), dopo aver condannato il «sistema», Berlinguer elogia i suoi «pilastri»: «Pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante». Questo continuo «cortocircuito politico-ideologico» del Pci ha avuto delle conseguenze decisive sulla storia dell’Italia repubblicana ed ha contribuito a creare una massa di militanti «moralmente alienati», ovvero persone, le quali, pur vivendo nella società italiana, si sentirono ad essa culturalmente estranei. Da qui origina la diversità della sinistra italiana. Per dirla con Cerasa, «la distanza culturale tra la sinistra e i film alla Checco Zalone». Ovviamente, il conto è salato. Non per caso, nel corso degli anni Novanta, i governi di centrosinistra scontarono le loro difficoltà principali proprio sul piano della trasformazione degli slogan della «rivoluzione liberale» in un programma di governo che fosse capace di tradurli in realtà. Quella vicenda mise in luce l’incapacità della sinistra riformista di promuovere un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica. Quella battaglia  non ci fu mai davvero, a differenza di quanto era accaduto pochi anni prima nel Regno Unito. Ma c’è di più. Di quella cultura, e di quel «cortocircuito politico-ideologico», sono figli anche i nuovi «rivoluzionari» (pentastellati compresi). Figli degeneri, certo. Ma ciò che li rende figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’ossessione per la purezza, la demonizzazione del nemico, l’esaltazione della violenza rivoluzionaria. Insomma, non c’è verso: per conquistare nuovi elettori, bisogna liberarsi dei vecchi schemi ideologici e guardare la realtà senza pregiudizi. In altre parole, bisogna cambiare. Come dappertutto ha cercato di fare la sinistra europea, ridefinendo la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. E’ questa la sfida dell’era Renzi. Per spezzare le catene che paralizzano la sinistra occorre contrastare una «versione dei fatti» che incoraggia e che giustifica l’idea che il peccato pervade il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo e bisogna contrastare la pedagogia dell’intolleranza, l’incapacità di convivere con i portatori del peccato. Quel che occorre, inoltre, è un’ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare davvero il rischio di un decadimento della democrazia. Fateci caso: Berlinguer, nell’intervista, espresse con parole appassionate la sua condanna del sistema dei partiti e della loro degenerazione, ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte ed ipotesi per la riforma delle istituzioni che, per dirla con uno slogan, «restituissero lo scettro» ai cittadini, condannò se stesso e il suo partito ad una pura azione di denuncia e testimonianza, altissima certo ma sterile.

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Il Foglio, 9 aprile 2014 – Altro che tagli, alle forze dell’ordine serve una ristrutturazione drastica

Roma. Risparmiare sulle forze dell’ordine? Non solo con la spending review, ma attuando il piano, nel cassetto da anni, di accorpare Polizia e Carabineri? Razionalizzare almeno le forze speciali, visto che perfino la Guardia di finanza dispone di reparti antisommossa? Secondo Alessandro Pansa, capo della Polizia, i suoi uomini hanno già dato: “Prevediamo un 2014 con nessun taglio e, anzi, un aumento di risorse”, ha detto ieri. Eppure il commissario alla spending Carlo Cottarelli il problema lo ha posto, chiedendo cautamente al Viminale sinergie per 800 milioni l’anno prossimo e 1,7 miliardi nel 2016. In effetti sul tavolo del ministro dell’Interno Angelino Alfano c’è il progetto di chiudere 300 presidi di Polizia ferroviaria, postale, stradale, alcuni commissariati e 50 squadre nautiche. Anche i Carabinieri, che dipendono dalla Difesa, sostengono di essere al lavoro con le forbici. Il comandante generale Leonardo Gallitelli ipotizza la chiusura di 17 stazioni e sette compagnie.

Ma si tratta di un lifting, non di una riforma strutturale, e stavolta i primi a dirlo sono i sindacati, in passato contrari a qualsiasi intervento. Come il Sap, sindacato autonomo polizia: “Servono scelte coraggiose. Almeno l’integrazione tra Polizia e Carabinieri, che poi assorbano gli altri corpi, Finanza, Forestale e Penitenziaria. Una direzione unitaria al Viminale, sale operative comuni e centrale unica degli acquisti. Risparmieremmo due miliardi l’anno”. L’Italia ha oggi 95 mila agenti di Ps, 105 mila carabinieri, 60 mila finanzieri: 260 mila che nel giro di due anni dovranno ridursi di 20 mila unità. Nel marzo 2013, con il governo di Mario Monti, un’analisi della spesa fu presentata dal ministro dei rapporti con il Parlamento Piero Giarda. Ne risultano 6,7 miliardi nel 2011 per l’Arma dei carabinieri e 7,2 per la Polizia, compresi i corpi specializzati della stradale, postale, ferroviaria e di frontiera.

Il rapporto, ricco di analisi, equazioni, conclusioni, non prende però in esame né la Guardia di finanza né la Forestale. Però individua una contraddizione generale: “Le spese per la sicurezza di polizia e carabinieri sono più alte nei territori a maggiore pericolosità. Ma poi una frazione elevata della variabilità nella spesa per abitante nelle diverse province o regioni non trova spiegazione statistica. Non è riconducibile né a fattori di costo né di domanda o fabbisogno”. Insomma Giarda non trovò spiegazioni plausibili. E neppure Luisa Giuriato, della Sapienza di Roma che analizzò i tre corpi specializzati, riuscì a spiegarsi per esempio come mai la polizia di frontiera spendesse per immobili, utenze e pulizia a Massa, Lecce, Oristano, Cosenza e Ravenna, senza un solo agente; mentre Parma indicava un milione di spese di personale, sempre senza alcun poliziotto di frontiera. Né perché per la stradale la spesa per affitto di immobili fosse a Crotone di 45 mila euro per agente, contro la media nazionale di 2.500. Il minuzioso rapporto Giarda però ha volutamente girato alla larga dal problema principale.

“E cioè – si chiede Alessandro Maran, senatore di Scelta civica – perché in Italia abbiamo sei corpi di polizia, mentre tutti i paesi Ocse e dell’Unione europea ne hanno sostanzialmente due: per il controllo del territorio, e per la lotta alla grande criminalità. E se parliamo di benchmark europei, con i corpi municipali e provinciali sommiamo il maggior numero di addetti in rapporto alla popolazione, spendendo il 30 per cento più della Germania”. Maran ha presentato un emendamento alla legge di stabilità 2014 assieme ali colleghi Linda Lanzillotta e Luigi Marino. Oggi, come allora, Maran pensa che “se vogliamo stare in Europa e essere ‘più europei’ non abbiamo bisogno della solita retorica e neanche di ripetere a noi stessi che siamo una eccezione, che poi è un modo per mantenere lo status quo. Semmai facciamo eccezione perché colpevolmente non ci siamo mai adeguati agli standard d’efficienza comuni agli altri paesi partner”.

A proposito delle riforme significative sono state fatte in Francia, che ha la Police Nationale nei centri maggiori e la Gendarmerie nelle zone extraurbane. In Gran Bretagna con l’Ispettorato di Sua Maestà per l’Inghilterra e il Galles (a Londra è Scotland Yard) e l’Home Office per il crimine organizzato, e dalla Germania con una polizia federale di frontiera, una polizia federale contro la grande criminalità (45 mila uomini in tutto) e forze territoriali dipendenti dai land. Insomma, quanto basta.

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Gazebos, 9 aprile 2014 – Il Senato di cui abbiamo bisogno

Tutte le volte che viene posto all’ordine del giorno il tema della riforma costituzionale (in modo da dare ai governi italiani quella stessa forza istituzionale che hanno i governi in tutte le altre democrazie europee), il «partito» dei sacerdoti della Carta torna a parlare di svolta autoritaria o tira fuori la P2.

Eppure la nostra Repubblica non è più quella di prima; è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. È da un pezzo che, ad esempio, la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco e non sarebbe male rammentare che con la legge costituzionale n°3 del 18 ottobre 2001 è stato completamente riformato il Capo V, parte seconda della Costituzione italiana, recante norme sulle Regioni, le Province e i Comuni. C’è chi la ritiene «la più sciagurata riforma della Costituzione mai realizzata», ma, comunque la si consideri, la riforma del  Titolo V voluta dal centrosinistra, al termine della legislatura, sotto il secondo governo di Giuliano Amato, e confermata dal voto popolare del referendum del 7 ottobre 2001, ha rivoluzionato i rapporti tra gli enti costitutivi della Repubblica e tra lo Stato, le Regioni e l’Unione europea.

Che il Titolo V presenti seri difetti di funzionamento è ormai opinione condivisa. A cominciare dall’eccessiva fede riposta nel riparto per materie. La linea di confine tra materie è incerta per definizione: emergeranno materie sempre nuove e sempre nuovi saranno gli intrecci tra l’una e l’altra di esse;  il che, di per se, non è un male, dato che gli ordinamenti federali moderni propendono per un riparto flessibile delle competenze, per «un sottile gioco di interferenze». Questa mobilità si trasforma in un problema molto difficile da risolvere quando mancano gli strumenti del coordinamento: in particolare, quando manca un ramo del Parlamento che possa assumere un ruolo di mediazione e di assorbimento dei conflitti tra Stato e autonomie.

La mancanza del luogo parlamentare di mediazione è, dunque, il vero punto critico della riforma. In carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza genera numerosissimi conflitti che sono devoluti alla Corte costituzionale, la quale si ritrova costretta a dirimere questioni che hanno un considerevole tasso di opinabilità interpretativa e di politicità. Il che non favorisce la fisiologica composizione degli interessi, ma incoraggia l’emersione del conflitto e la giurisdizionalizzaione dei rapporti tra interessi centrali e interessi del territorio. Insomma, non disponendo il Parlamento degli strumenti necessari, il luogo nel quale si sono sciolti i primi nodi si è spostato presso la Corte Costituzionale. E questa metamorfosi della politica in contenzioso giuridico ha imposto alla Corte, come ha sottolineato il suo Presidente, «un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito».

Dunque, il mantenimento dell’attuale bicameralismo disfunzionale non è sostenibile. Vogliamo mantenere l’impianto del Titolo V?  Bene, allora bisogna fare una Camera «federale». Come? Il modello più sensato è quello del federalismo tedesco, nel quale la seconda camera, il Bundesrat, non è elettiva ma è formata da rappresentanti dei governi regionali. La Legge Fondamentale precisa infatti che tanto i partiti (attraverso i loro Parlamentari al Bundestag) quanto i Länder (grazie ai componenti degli Esecutivi regionali) collaborano («mitwirken») alla realizzazione della politica tedesca a livello federale. La funzione che deve rivestire il Senato in un assetto propriamente federale è chiara: non solo «Camera di riflessione» rispetto alle deliberazioni assunte nel primo ramo del Parlamento, ma, soprattutto, luogo di rappresentanza, nel processo decisionale della Federazione, degli enti territoriali («Stati» o «Regioni») che la compongono. Non è un caso, infatti, che in Germania la seconda Camera non sia organizzata in Gruppi parlamentari come il Bundestag, e che di norma nelle sue commissioni prevalgano gli orientamenti più propriamente tecnici su quelli partitici. Dunque, se vogliamo mantenere un assetto «federale» (e vogliamo finalmente farlo funzionare), dobbiamo fare il Bundesrat o qualcosa che gli somigli molto. Infatti, «per mezzo del Bundesrat», come recita la  Legge fondamentale tedesca, «i Länder concorrono alla legislazione e all’amministrazione della Federazione ed agli affari dell’Unione Europea».

Abbiamo cambiato idea? Non c’è modo di far funzionare le Regioni? Non le vogliamo più? Allora facciamo un’unica Camera e riportiamo le competenze in capo allo Stato. Insomma, ha ragione Renzi: se vogliamo dare un ruolo effettivo ad una seconda Camera che non dispone più del voto di fiducia, la soluzione migliore è quella che assegna al nuovo Senato un ruolo circoscritto ma incisivo nel procedimento legislativo, sulla base di una esigenza reale di completamento della riforma del Titolo V. Ma, anche qui, ai sacerdoti della Carta andrebbe rivolta una domanda: si vuole aggiustare e rivedere quella riforma, com’è necessario e urgente, o si ritiene invece che la riforma del Titolo V vada  azzerata (obiettivo arduo e irrealistico, oltre che poco condivisibile) per ritornare allo status quo ante?

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IL GAZZETTINO, 4 aprile 2014 – ISPIRIAMOCI AL BUNDESRAT PER VALORIZZARE LE REGIONI

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La Repubblica, 23 gennaio 2014 – Ostacoli sempre dai Democratici e Letta abbia coraggio sulle riforme

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Il Piccolo, 23 gennaio 2014 – Maran sbatte la porta: «Il Pd ci ridicolizza»

di Roberto Urizio – TRIESTE Matteo Renzi miete un’altra “vittima”. Dopo le dimissione di Gianni Cuperlo da presidente dell’assemblea nazionale del Partito democratico, tocca ad Alessandro Maran, capogruppo di Scelta civica nella commissione Affari costituzionali del Senato, tirarsi indietro dal ruolo di relatore del disegno di legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Al senatore gradese, già esponente del Pd prima di passare con i montiani, non sono andate giù le dichiarazioni del segretario democratico in merito alle rimostranze dei partiti più piccoli sulla nuova legge elettorale. Renzi, nell’invitare i “partitini” ad «arrangiarsi», ne ha avuto in particolar modo per Scelta civica, definito «partito da Prima Repubblica». «Alla luce delle più recenti dichiarazioni del segretario del Pd ho comunicato alla senatrice Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, le mie dimissioni dall’incarico di relatore del disegno di legge sul finanziamento pubblico ai partiti», spiega Maran. «La questione è molto semplice – puntualizza il senatore eletto in Friuli Venezia Giulia – non posso continuare ad accettare che Scelta civica vada bene al Partito democratico quando c’è da tirare la carretta e sostenere ogni provvedimento del governo per venire poi presa a calci e ridicolizzata dal suo segretario quando si azzarda a offrire alla maggioranza e all’esecutivo le proprie proposte politiche». Un malumore che esplode sulla vicenda della legge elettorale ma che è latente da un po’ di tempo, tanto che lo stesso Maran sottolinea come il Pd abbia messo il bastone tra le ruote alle proposte montiane già in altre occasione: «In modo particolare – conclude il senatore – se si considera che le idee che abbiamo proposto in questi mesi, porto ad esempio le proposte Ichino sul lavoro, hanno avuto nel Pd il principale ostacolo». Le dimissioni di Maran hanno trovato l’appoggio di altri esponenti montiani. «Bravo Alessandro Maran che si dimette da relatore al disegno di legge sul finanziamento ai partiti. Non si può ridicolizzare Scelta civica», così su twitter il capogruppo di Scelta civica alla Camera, Andrea Romano, commenta la decisione del suo collega montiano di dimettersi da relatore al Senato sul ddl relativo al finanziamento pubblico ai partiti. Romano sigla il suo tweet con l’hashtag “#schienadritta” per ribadire la posizione di Scelta Civica in contrapposizione alle recenti dichiarazioni di Matteo Renzi. «Le dimissioni del senatore e collega Maran rappresentano il segnale del disagio di deputati e senatori del gruppo. È evidente che Renzi non ci considera necessari e il motivo mi pare chiaro» ribadisce Adriana Galgano, deputata di Scelta civica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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