GIORNALI2011

Cercasi un fine, periodico di cultura politica, n. 62 agosto-settembre 2011 – Un’Europa che aiuta

La diffusione senza precedenti di proteste in favore della democrazia in tutto il mondo arabo ha colto quasi tutti di sorpresa. Le proteste, a detta di molti, si spiegano con lo scontento per la mancanza di democrazia e di posti di lavoro. Ma il Medio Oriente non è certo l’unica regione del mondo con governi autoritari e non è sicuramente l’unico posto con una vasta popolazione di giovani che faticano a trovare un lavoro. E il fatto che lo scontento avrebbe guidato la gente alla rivolta contro i loro leader è ovvio solo col senno di poi: molto difficilmente qualcuno avrebbe previsto queste sollevazioni solo un anno fa. Insomma, molte cose non tornano in queste spiegazioni. Nelle valutazioni dell’UN Human Developement Report dello scorso anno, i paesi arabi se la cavano molto bene. Nell’HumanDevelopement Index, cinque paesi mediorientali (fra cui la Tunisia, l’Algeria e il Marocco – ma anche l’Egitto non è molto distante e perfino la Libia e l’Iran, si distinguono in queste valutazioni di lungo termine) sono tra i primi dieci in termini di miglioramenti. E i progressi in questa regione sono dovuti principalmente ai significativi passi avanti nella salute e nell’istruzione. Nel 1970 la Tunisia aveva un’aspettativa di vita più bassa del Congo e il Marocco aveva meno bambini a scuola del Malawi. Ora le cose sono molto migliorate. L’aspettativa di vita in Nord Africa, ad esempio, è cresciuta da 51 a 71 anni tra il 1970 e il 2010. In paesi con punti di partenza comparabili, l’aspettativa di vita è cresciuta di soli 8 anni. La popolazione scolastica è crescita di 33 punti in percentuale, passando dal 37% al 70% ; mentre in paesi con punti di partenza simili è cresciuta di 23 punti. Per queste ragioni, è improbabile che le rivoluzioni si estendano ai regimi dell’Africa Sub – Sahariana, dove il tasso dei miglioramenti in salute e istruzione è stato molto più lento e la frammentazione etnica rende molto più difficile organizzare proteste di massa contro i regimi autocratici. Messe così le cose, è probabile che il movimento di democratizzazione che comincia a prendere forma nel mondo arabo sia un risultato del progresso e non una conseguenza del fallimento dello sviluppo. Non per caso l’Human Development Report del 2010 ha parlato di un «deficit democratico» nel mondo arabo riferendosi allo squilibrio tra lo sviluppo socioeconomico e la democratizzazione. Del resto, che la domanda di democrazia sia il risultato di un più largo processo di modernizzazione e di sviluppo, non è una novità. Il fatto è che la maggior parte del mondo arabo ha raggiunto un livello di sviluppo che è incompatibile con il suo sistema politico. E via via che i cittadini dei paesi mediorientali diventano più ricchi, più sani e più istruiti, diventano meno disposti a tollerare di essere governati da elite predatorie. Il che è confermato da quello cui stiamo assistendo nelle strade del Medio Oriente. Va da sé che i sistemi politici che emergono da queste transizioni prenderanno tempo per consolidarsi, ma è improbabile che questi paesi tornino ad una guida autoritaria. La crisi in Medio Oriente potrebbe offrire all’Europa l’occasione per riacquistare credibilità presso il mondo arabo. Si è aperta una concreta prospettiva di cambiamento democratico che potrà realizzarsi solo se avrà il sostegno di attori esterni, in particolare dell’Europa oltre che degli Usa. Invocando la responsabilità delle autorità libiche di proteggere la loro popolazione, la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ha ridato nuova vita al principio di «Responsability to Protect». Ma bisogna ripensare le politiche europee progettate per portare stabilità e democrazia in queste aree. Non si tratta di adottare deleterie politiche di diffusione della democrazia con la forza, ma di offrire un riferimento e aiuti economici, sociali e culturali alle società civili e alle forze disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare più ampio. Non sarebbe male ricordare che, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della Jugoslavia, l’estensione all’Europa centrorientale di uno spazio di pace, di diritto e di democrazia (che fa dell’Europa a 27 il più grande agglomerato al mondo di uomini liberi e benestanti) è stato un successo storico innegabile. E il disegno che ha guidato l’allargamento dell’Unione ai paesi ex comunisti è lo stesso disegno di pace architettato alla fine della Seconda guerra mondiale, di cui prima la Comunità europea e poi la successiva Unione europea sono la parte centrale: la guerra sarebbe stata «non solo impensabile ma effettivamente impossibile» a causa del livello d’interdipendenza che si sarebbe creato tra gli Stati della nascente comunità. Questo modello deve servire ai paesi europei per promuovere i propri valori anche fuori dall’Europa.

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