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Contro los redentores – I problemi cronici del Pd e il doppio peronismo di Conte e Di Maio – Linkiesta, 29 luglio 2021

Il Partito democratico non può diventare una sinistra moderna perché la sua gestione non è davvero contendibile, la minoranza liberal-democratica può avere solo un ruolo ancillare, di condizionamento, ma non può guidarlo. Le primarie a New York insegnano che per vincere bisogna andare al centro della società. Come mai il nostro Paese è ostaggio dei peronisti millenaristi? Questo è il problema.

Anche Christian Rocca è sbottato: quella di Letta è una capitolazione, ha scritto qualche giorno fa il direttore di Linkiesta, e il partito di che per molto tempo ha retto da solo la baracca italiana, è «la più grande delusione politica degli ultimi anni».

Devo dire che (dopo tante “rivoluzioni liberali” molte volte promesse e altrettante volte rinviate e contraddette) da tempo me ne sono fatta una ragione: il Pd non è, non può essere e non può diventare, quello che in tanti volevamo: una sinistra moderna, cioè una sinistra riformista in grado di combattere un sistema di valori antitetico alla modernità. Non può farlo per diverse ragioni sulle quali sono tornato molte volte. 

Non può farlo perché, su quel che più conta, sugli ideali di fondo e non tanto sulla gestione, il Pd non è davvero contendibile. Come accadeva nel Pci con l’area riformista, la minoranza liberal-democratica può avere solo un ruolo ancillare, di condizionamento, ma non può guidare il partito. Tanto per capirci, quello di Renzi è stato un incidente, che non deve ripetersi. Impegnarsi per provare a cambiare da dentro il Pd è dunque tempo perso ed è impensabile che quel partito possa dare sul serio voce a quelle istanze liberal-democratiche che oggi in Italia non sono rappresentate. 

Non può farlo perché non è in grado di fare i conti con l’ombra di Enrico Berlinguer. Ma il Pci, si sa, non era un partito socialdemocratico e non voleva diventarlo; l’austerità che gli italiani dovevano abbracciare come visione e stile di vita doveva essere la premessa di un radicale cambiamento del modello di sviluppo fuori dal quadro e dalla logica del capitalismo; l’attacco all’individualismo era centrale nella cultura del partito ed il superamento del capitalismo e lotta all’imperialismo americano erano opzioni ideologiche di fondo e, in quanto tali, del tutto estranee alla tradizione politica occidentale: Antonino Tatò, tra i principali collaboratori di Berlinguer, arrivava addirittura a sostenere che «i paesi socialisti sono superiori ai paesi con i governi socialdemocratici, l’Urss è comunque superiore alle socialdemocrazie». 

Non può farlo perché ampi settori del partito ormai condividono, con Liberi e Uguali e i Cinque Stelle, molti dei tratti dei movimenti sudamericani dello stesso segno (peronisti, apristi, chavisti, ecc.): l’antiliberalismo, l’anticapitalismo, l’anti-istituzionalismo, l’ostilità nei confronti della democrazia parlamentare e il favore per quella plebiscitaria, la difficoltà a distinguere tra morale e politica e l’ostilità nei confronti del libero mercato e della ricchezza, a tutto vantaggio di uno stato sempre più pervasivo. Del resto, i grillini non vengono dal nulla, non sono delle schegge impazzite. Sono, invece, una pagina «dell’album di famiglia» della sinistra italiana (una pagina obsoleta quanto si vuole, ferma ad analisi insostenibili quanto si vuole, ma che un tempo facevano parte di un patrimonio comune a moltissime persone). E ciò che li rende figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’ossessione per la purezza, la demonizzazione del nemico, l’idea che il peccato pervada il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo.

Non per caso, la visione di una democrazia «organizzata», sobria e frugale, che fa capolino nelle paternali di Goffredo Bettini, dove il partito accudisce le masse perché non perdano l’anima seguendo le tentazioni del capitalismo e del consumismo, porta, appunto, quell’impronta. Non deve sorprendere chi non ha ancora elaborato il lutto dal crollo del mondo comunista torni alle origini evangeliche dell’antiliberalismo nei paesi latini. Non a caso, infatti, abbiamo a che fare con due peronismi. Il populismo di Conte (e dell’attuale Pd) è il peronismo, cinico ma pragmatico, di Juan Doming Perón (detesta il capitalismo e la globalizzazione, ma sa perfettamente che l’autarchia è controproducente e che con essi tocca fare i conti); il populismo del Luigi Di Maio dei tempi d’oro (ma anche quello di Matteo Salvini) è invece il peronismo millenaristico, manicheo, redentore, di Eva.

Non può farlo per via dell’atteggiamento paternalistico («so io quello che è bene per te») che considera gli italiani dei bambini immaturi, bisognosi di rassicurazione e di guida e che, pur tendendo con sollecitudine paterna al progresso e al benessere dei governati, non li considera capaci di scegliere e autodeterminarsi. Un atteggiamento che ormai si è incistato nel partito, che non accetta repliche e tende a demonizzare qualunque opinione differente. 

Tutta colpa del Pd? Nient’affatto. I suoi vizi e i suoi difetti sono quelli di un’Italia immobile, che non riesce ad affrancarsi dalle ideologie novecentesche. Oltretutto, non è certo da oggi che in Italia los redentores si contendono i fedeli e non è certo la prima volta che l’Italia che redime batte l’Italia riformista. Tuttavia, los redentores non hanno niente a che fare con la sinistra moderna. Il rischio è quello di dimenticarlo. 

Bisogna perciò prendere atto di come stanno le cose. Dunque, non c’è verso: serve qualcos’altro. Perché, parafrasando Yeats, contro il populismo «il centro deve reggere». È infatti nell’estesa terra di mezzo (il centro «della società») che dimora la maggior parte delle persone. È lì che si combatteranno gli scontri decisivi; ed è lì, in quella terra di mezzo, che, matureranno, con il governo Draghi, le misure in grado di guadagnarsi il via libera del Parlamento ed il consenso degli italiani.

Un esempio recentissimo? Le primarie democratiche a New York. Che c’entra New York?, si dirà. C’entra. Perché tutto il mondo è paese e perché a New York la possibilità di una vittoria repubblicana a novembre non esiste (il rapporto tra democratici e repubblicani è di sette a uno). Perciò il prossimo sindaco della più popolosa città americana sarà quasi sicuramente Eric Adams, l’ex poliziotto afroamericano che ha vinto le primarie democratiche. Ma, occhio, anche a New York, i lavoratori, gli elettori della classe operaia di tutte le etnie, si confermano decisamente moderati. 

Eric Adams, che è stato anche senatore dello Stato di New York e presidente del distretto di Brooklyn, ha vinto con appena 8.426 voti (l’1%) su Kathryn Garcia, un funzionario pubblico molto apprezzato che è stata anche responsabile dell’azienda municipalizzata dei rifiuti. Ed entrambi i candidati (che si sono contesi la vittoria in una competizione affollata: in lizza c’erano anche l’attivista per i diritti civile Maya Wiley e l’imprenditore ed ex candidato alle primarie presidenziali democratiche Andrea Yang) sono due candidati centristi. 

Insomma, la competizione per il sindaco di New York un paio di cose ai democratici (e non solo a quelli americani) le dice. E non sarebbe male prestarvi ascolto.

Il Pew Research Center, un think tank che ha realizzato alcune delle più importanti ricerche sulle opinioni e le tendenze che contribuiscono a modellare l’America e il mondo, ha classificato gli americani in nove gruppi politici differenti. Le categorie variano dai «conservatori fino al midollo» a destra ai «progressisti inamovibili» a sinistra, con in mezzo un mix di gruppi più eterogenei. Di recente, David Leonhardt del New York Times è tornato sulla suddivisione del Pew, poiché aiuta a chiarire una delle principali sfide che il Partito democratico americano deve affrontare; e aiuta anche a spiegare il risultato della competizione. 

Tra i nove insiemi del Pew, il gruppo che sta più a sinistra, quello dei progressisti inamovibili, nel 2017 (quando il Pew ha messo a punto queste categorie) ha messo insieme il 19% degli elettori registrati. Questi elettori hanno l’approccio e le convinzioni che ci si aspetta da loro: nettamente in favore dell’accesso all’aborto, della discriminazione positiva, dell’immigrazione, della regolazione del business, di una rete di protezione sociale generosa e di tasse più alte sui ricchi. Chi sono questi progressisti inamovibili? Sono, in modo sproporzionato, laureati con un reddito al di sopra della media.

I progressisti inamovibili sono anche in larga misura bianchi. I bianchi non sono così numerosi come nella maggior parte degli insiemi che, nel sistema di classificazione del Pew, sono orientati a destra, verso i repubblicani; ma sono, per capirci, meno “diversi” dal punto di vista etnico degli altri gruppi, più moderati, che si collocano a sinistra, dalla parte dei democratici. I progressisti inamovibili sono anche i più istruiti dei nove gruppi, e sono legati, inevitabilmente, ai conservatori fino al midollo in quanto insiemi con il più alto livello di reddito. 

Di recente, nel Partito democratico, buona parte dell’energia e della spinta propulsiva sono venute proprio dai progressisti inamovibili. Sono attivi sui social media e nei movimenti di protesta, come quello della resistenza contro Donald Trump. Hanno giocato un ruolo importante nella campagna presidenziale di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren, così come nella ascesa della Squad, il gruppo, che comprende Alexandria Ocasio-Cortez, noto per essere composto dai membri più progressisti e “di sinistra” del Congresso. In particolare, tutti e sei i deputati che formano The Squad sono persone di colore, come molti dei principali attivisti progressisti. Il che ha alimentato la percezione che il fianco sinistro del Partito democratico sia composto, smisuratamente, da neri, ispanici e americani asiatici. 

Ma le cose non stanno affatto così. Anzi, è vero il contrario, come confermano i dati del Pew. Gli elettori neri, ispanici ed americani asiatici si collocano a destra dei democratici bianchi in merito a molte questioni. Molti elettori di colore sono più scettici sull’immigrazione e sul libero scambio. Propugnano sia il controllo e la sicurezza delle frontiere che alcune restrizioni all’aborto. Sono preoccupati della diffusione della criminalità e si oppongono ai tagli ai fondi destinati alla polizia. E sono religiosi. Basta pensare al nome scelto dal Pew per l’insieme più conservatore che si colloca nel campo democratico: «Devoti e diversi».

Per capire meglio questi modelli di comportamento, bisognerebbe forse concentrarsi, una volta tanto, sull’apparenza socio-economica e sulla divisione di classe (che, del resto, è stato più importante cleavage sul quale sono nati e hanno prosperato i grandi partiti di massa). Molti professionisti, con laurea e reddito sopra la media, hanno opinioni politiche molto nette, che si indirizzano drasticamente a destra o a sinistra, e che si allineano sostanzialmente con i programmi dell’uno o dell’altro dei due grandi partiti. Molti elettori della classe operaia hanno, invece, opinioni meno nette, spesso discordanti e reazioni variabili. Negli anni recenti, gli elettori della classe operaia di tutte le razze, sono sempre più a disagio con un certo progressismo del Partito democratico. 

L’allontanamento della classe operaia dal partito è una storia familiare e, specie in America, ha certamente anche a che fare con il razzismo, (come peraltro gli appelli di Donald Trump all’identità bianca hanno reso evidente). Tuttavia, questo massiccio dislocamento non ha a che fare soltanto con il razzismo; e le elezioni del 2020, nelle quali gli elettori di colore si sono spostati a destra, dovrebbero aver dissipato i dubbi residui. In questo senso, come ha spiegato Katie Glueck sul New York Times, le primarie democratiche per il sindaco di New York non sono che l’ultimo episodio di una lunga serie.

Eric Adams ha condotto la campagna sollevando temi decisamente conservatori. Si è candidato sia come un nero che ha dovuto sopportare il razzismo sia come un ex poliziotto che vuole proteggere la città e che è convinto che la polizia fornisca un servizio essenziale a vantaggio di tutti e non sia un mero strumento repressivo per proteggere gli interessi di pochi a scapito dei molti. Non per caso, i candidati più progressisti, come Kathrin Garcia e Maya Willy, hanno ottenuto un buon risultato nei quartieri esclusivi di Manhattan, mentre Adams ha conquistato tutti gli altri quattro distretti. «L’elettore nero medio non sta con A.O.C. ed è senza dubbio più vicino ad Eric Adams», ha detto Hakeem Jefferson, un politologo dell’Università di Stanford, al New York Times.«Quel che conta davvero per la gente, che spesso diffida dei grandi proclami politici, è qualcosa che sta più nel mezzo». Al “centro” (della società), insomma.

Si sa che, a causa del gerrymandering, del Collegio elettorale e della struttura del Senato, per restare in sella anche a livello nazionale, i democratici americani devono andare oltre il 50% dei voti. Cosa non facile. E per far questo, devono riuscire ad attrarre gli elettori della classe operaia di tutti i diversi gruppi razziali. La buona notizia per il Partito democratico è che, stando ai sondaggi, la maggioranza degli americani propende verso sinistra sulle questioni economiche ed è molto più moderata di molti repubblicani sulle questioni sociali. La cattiva notizia per il partito è che quella stessa maggioranza non è così «progressista», non è così “di sinistra”, come molti dei militanti e degli esponenti più noti del partito. Non è detto che questi militanti siano disposti a fare uno sforzo per comprendere le preoccupazioni dei lavoratori americani e non è detto che siano disposti a moderare le loro posizioni per vincere le elezioni. In Italia, ad esempio, sembra proprio di no. 

Posto che le tendenze sono queste (ed il Pd è quello che è), la vera domanda, tornando a noi, è un’altra: come mai questo qualcos’altro di cui ci sarebbe urgente bisogno, stenta così tanto a prendere forma? Questo è il problema, direbbe Amleto.

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