Sono passati dieci anni da quando il fruttivendolo tunisino Mohamed Bouazizi, dopo essere stato maltrattato dalla polizia che lo taglieggiava, si cosparse di benzina e si diede fuoco nella piazza centrale di un piccolo paese dell’entroterra della Tunisia, innescando una stagione di proteste e di sollevazioni che si sono estese in tutto il Medio Oriente mettendo alla corda regimi autoritari che duravano da decenni.
Dieci anni dopo, le promesse della Primavera araba non si sono realizzate, ma gli osservatori più attenti hanno colto l’occasione per introdurre qualche distinguo.
Anche se le rivoluzioni in Egitto, in Siria, in Libia e altrove sono state schiacciate in vari modi, su Middle East Eye, Khalil al-Anani ha scritto che le rivolte del 2011 sono servite, tuttavia, a mettere in mora i despoti; e proprio la ferocia della reazione, secondo al-Anani, è la prova del successo di uno dei principali obiettivi della Primavera araba: «aumentare i costi della tirannia».
Non c’è, tuttavia, molto da festeggiare, sottolinea l’Economist: sebbene la Primavera araba abbia rovesciato i regimi in Tunisia, in Egitto, in Libia e in Yemen, solo il paese in cui il movimento ha avuto origine ora si trova in condizioni migliori di prima, considerato che «la Tunisia è uscita dalla sollevazione con una repubblica fragile ma autentica, della quale i cittadini sono giustamente orgogliosi».
Indipendentemente dai governanti, il tessuto sociale e politico dei paesi arabi rimane, infatti, sfibrato e difficile: in tutta la regione, i cittadini «detestano le tangenti e il ‘wasta’ (che si può tradurre come nepotismo), o le conoscenze necessarie per affrontare la vita di ogni giorno». Il mondo arabo avrebbe perciò bisogno di una governance migliore e non di una nuova «generazione di dittatori», come quella emersa dopo il 2011, che la pensa in modo solo leggermente diverso da quella che l’ha preceduta. Non per caso, la rivista inglese ricorda che la successiva ondata di disordini del 2019 (in Libano, in Iraq, in Sudan e in Algeria) ha suscitato meno clamore, ma ha sottolineato di nuovo la necessità di un confronto più libero nella regione, proprio per consentire alla democrazia di mettere davvero radici.
Anche Marc Lynch sostiene su Foreign Affairs che sebbene i manifestanti, nella maggior parte dei casi, alla fine siano stati sconfitti, sarebbe sbagliato considerare la Primavera araba un fallimento: «Il movimento si è impegnato in una lotta che durerà per generazioni per respingere un ordine regionale che non ha prodotto nient’altro che corruzione, governance disastrosa e fallimento economico», scrive. «Secondo questo parametro, le rivolte hanno profondamente rimodellato ogni dimensione concepibile della politica araba, dagli atteggiamenti individuali, ai sistemi politici, dalle ideologie alle relazioni internazionali». E tuttavia, anche Lynch conclude tristemente che «non c’è ragione di essere fiduciosi riguardo alle prospettive del Medio Oriente», considerato che le rivolte jihadiste successive alla Primavera araba probabilmente continueranno, che i profughi non faranno ritorno, e che le potenze straniere non sono riuscite a fare la differenza in termini positivi.
Molti studiosi hanno, tuttavia, messo in luce, negli anni scorsi, importanti similitudini tra la Primavera araba del 2011 e le rivoluzioni del 1848, la «Primavera dei popoli» europea: entrambe le sollevazioni si diffusero rapidamente in tutta la regione, ma determinarono progressi piuttosto limitati in direzione del liberalismo politico e della democrazia. E non c’è dubbio che la Primavera araba somigli di più alle rivoluzioni del 1848 che alle transizioni democratiche innescate dal crollo del Muro di Berlino (e poi dell’Unione sovietica) nel 1989. Del resto, se si guarda alle condizioni politiche del mondo arabo di oggi rispetto a quelle dell’Europa orientale di allora, salta agli occhi che le transizioni democratiche nel Medio Oriente devono fare i conti con ostacoli molto più robusti di quelli affrontati allora in Polonia, in Ungheria, in Germania est, in Cecoslovacchia, ecc. E non c’è dubbio che il contesto generale del 1989 fosse parecchio più favorevole e le possibilità dei singoli paesi europei più consistenti di quelle del mondo arabo di oggi.
Tuttavia, per quanto i moti del 1848 furono sedati abbastanza velocemente, il loro impatto storico fu così profondo e violento che ancora oggi è simbolo di uno scompiglio improvviso e radicale. Con le rivoluzioni del 1848 si cancellò infatti completamente il concetto di Restaurazione e i movimenti meno radicali (soprattutto quelli liberali), riuscirono nei sessant’anni successivi ad ottenere e imporre costituzioni e parlamenti in varie nazioni europee, rendendo difficile, se non impossibile, la monarchia assoluta. Inoltre, ristabilirono il principio di uguaglianza davanti alla legge, diffusero la libertà di stampa e di pensiero e crearono un’opinione pubblica in grado di incidere sull’azione del governo. Insomma, non è finita qui. Incrociamo le dita.
Alessandro Maran