Le speranze del nuovo presidente americano Joe Biden di resuscitare l’accordo nucleare iraniano potrebbero essere già andate in fumo.
L’assassinio della scorsa settimana dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh (in un’operazione segreta che, a quel che si dice, si è servita di una mitragliatrice montata su un furgone e controllata da remoto), ha assestato un nuovo colpo all’orgoglio iraniano dopo l’uccisione, in gennaio, del generale Qasem Soleimani in uno strike aereo. Va da sé che i due incidenti potrebbero mandare all’aria ogni prospettiva di un rilancio della diplomazia. Non per caso, Mark Fitzpatrick, ex executive director dell’International Institute for Strategic Studies, ha subito twittato: «La ragione per assassinare Fakhrizadeh non era ostacolare il potenziale bellico dell’Iran, era ostacolare la diplomazia».
I leader clericali iraniani ora sono,
infatti, alle prese con un dilemma. Devono reagire in modo aggressivo (contro
il paese accusato di aver perpetrato l’attentato,
e cioè Israele) e rischiare
una escalation dannosa con gli Stati Uniti? O devono invece assorbire il colpo,
politicamente molto imbarazzante, e sperare che il dialogo con Biden possa
allentare le sanzioni imposte dall’amministrazione
Trump che hanno strangolato l’economia iraniana?
Oltretutto, molto probabilmente il presidente Donald Trump reagirebbe ad una eventuale azione militare iraniana; e altrettanto probabilmente un conflitto finirebbe per regalare a Biden una crisi immediata (e una bella gatta da pelare) e per uccidere nella culla anche qualsiasi negoziato tra Washington e Teheran. Questa è una delle ragioni per cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si è sempre opposto all’accordo nucleare, potrebbe avere ordinato l’attentato a Fakhrizadeh.
I
falchi americani rivendicano che la politica della «massima pressione» che
Trump ha applicato nei confronti dell’Iran
dopo il ritiro americano, nel 2018, dall’accordo
nucleare concluso dall’amministrazione Obama (che perfino l’intelligence
americana aveva detto che Tehran stava rispettando), offre ora a Biden un nuovo
vantaggio nella trattativa con l’Iran.
Ma da allora, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 12 novembre scorso,
Tehran ha accumulato 12 volte la quantità di uranio arricchito permesso dall’accordo del 2015,
ed è molto vicina al punto in cui potrebbe dotarsi davvero di una bomba
nucleare. Inoltre, le sanzioni americane, nonostante abbiano inflitto terribili
sofferenze economiche, non hanno incoraggiato in alcun modo il cambiamento di
regime auspicato dai fautori della linea dura.
Resta il fatto che, anche se Biden volesse ritornare all’accordo nucleare del 2015 («il modo più intelligente», come ha sottolineato, di affrontare «la minaccia rappresentata dall’Iran»), è l’idea stessa di ritornare alla diplomazia (che resta indubbiamente la cosa migliore da fare) che ha subito un colpo dopo l’altro: prima con lo strike ordinato da Trump che ha ucciso Soleimani ed ora con l’assassinio dello scienziato nucleare. Inoltre, non sarà facile neppure per gli iraniani moderati e pragmatici persuadere qualcuno dei vantaggi di nuovo accordo con gli Stati Uniti, considerato che, quasi certamente, un futuro presidente repubblicano si affretterebbe a gettarlo alle ortiche. Senza contare che, nel frattempo, dalle elezioni iraniane dell’anno prossimo potrebbero uscire un nuovo presidente integralista che si oppone al dialogo con gli Stati Uniti; e che, anche negli Stati Uniti (e in Israele), gli avversari dell’accordo potrebbero rendere a Biden la vita impossibile, impedendogli di collaborare con l’Iran.
Se la strada della diplomazia dovesse rivelarsi impraticabile, il futuro presidente americano si troverebbe di fronte ad una scelta terribile: vivere con la possibilità di una bomba atomica iraniana o ordinare un’azione militare che potrebbe dare avvio ad una nuova disastrosa guerra in Medioriente.
Alessandro Maran