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Toh, chi si rivede: la Germania e il Giappone! – Il Riformista, 29 luglio 2020

La Germania si è conquistata l’apprezzamento generale per la lucida e pacata capacità di guida della cancelliera Angela Merkel di fronte al Covid-19, ma sul New York Times, Ruchir Sharma della Morgan Stanley ha scritto addirittura che la Repubblica federale tedesca è destinata ad emergere come il «grande vincitore» nell’economia post Covid-19, grazie non solo alla risposta della sanità pubblica al virus, ma anche alle virtù prepandemiche del paese: la solidità finanziaria e una economia focalizzata sulle esportazioni e orientata al futuro.

«Mentre altri paesi temono che i recenti licenziamenti possano diventare permanenti, la maggior parte dei lavoratori tedeschi sono rimasti sul libro paga grazie alla rapida espansione della Kurzarbeit, un sistema pubblico vecchio di un secolo che sostiene l’impresa per mantenere i lavoratori a orario ridotto durante le crisi temporanee». In altre parole, il modello del Kurzarbeit ridistribuisce le ore di lavoro necessarie tra più persone, le quali, nonostante il numero minore di ore lavorate, continuano a percepire lo stesso salario che viene integrato da sussidi federali. Quindi il datore di lavoro paga al dipendente le ore effettive di lavoro e il governo federale integra la differenza del salario, in modo che il dipendente non perda il suo reddito. «La Germania è riuscita ad espandere il Kurzarbeit – e molto altro in termini di servizi sociali – grazie alla sua celebre frugalità», spiega Sharma.

Si sa che il termine, dalle nostre parti, è ormai diventato un’ingiuria, ma proprio perché «la Germania è entrata nella pandemia con un avanzo pubblico, ha potuto sostenere la sua economia bloccata con aiuti diretti alla famiglia, tagli fiscali, prestiti alle imprese ed altri aiuti pari al 55% del Pil, vale a dire, in rapporto al Pil, circa quattro volte di più del pacchetto di salvataggio degli Stati Uniti» e «mentre la pandemia accelera il ritmo della digitalizzazione e della de-globalizzazione, e aumenta i debiti del mondo, la Germania si distingue per la sua relativa mancanza di debolezze nei confronti di queste sfide e con un governo pronto a gestirle».

Insomma, secondo il Chief Global Strategist della Morgan Stanley, grazie ai suoi solidi fondamentali, l’economia tedesca uscirà dalla pandemia più forte di quella di qualsiasi altro paese. Ma su Foreign Affairs, Gracia Liu-Farrer propone un altro candidato di successo per il post-Covid-19: il Giappone.

Alla fine di maggio, il tasso di disoccupazione del paese era sorprendentemente basso, pari al 2,9%, e il suo settore privato sembra aver superato la stagnazione post-2008 abbastanza bene da evitare, questa volta, il disastro (alla fine di marzo, le aziende giapponesi avevano riserve finanziarie per «circa 2,65 trilioni di dollari», vale a dire quasi tremila miliardi di dollari). Il che non significa che la recessione non sia in arrivo, scrive la professoressa della Waseda University, ma le stelle si stanno allineando.

A causa dell’invecchiamento della popolazione, una cosa di cui il Giappone ha bisogno per mantenere la sua economia a galla è un afflusso di lavoratori qualificati. Fortunatamente, in un momento in cui gli Stati Uniti e la Cina sono in lotta tra loro, il Giappone può offrire istruzione universitaria di qualità per una «frazione» del suo costo negli Stati Uniti e nel Regno Unito e, ovviamente, attrae più studenti. «Nei cinque anni dal 2015 al 2019, il numero di studenti stranieri in Giappone è cresciuto del 40% da meno di 250.000 a quasi 350.000», scrive Liu-Farrer. «Da quando è cominciata la pandemia, alcune università giapponesi hanno ricevuto un numero record di domande di iscrizione dalla Cina».

Di conseguenza, osserva Liu-Farrer, il Giappone sta diventando una destinazione per i lavoratori e gli studenti che una volta andavano ad Ovest e, appena si calmeranno le acque del Covid-19, il paese potrebbe ritrovarsi inestricabilmente avviluppato nell’economia globale come uno dei suoi principali poli di attrazione.

In fondo, come ha ricordato Robert Kagan nel suo bellissimo saggio, «The Jungle Grows Back», in retrospettiva, «la più significativa rivoluzione negli affari internazionali del dopoguerra non è stato il nuovo confronto determinato dalla Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma la graduale trasformazione della Germania e del Giappone dalle potenze ambiziose, autocratiche, militari che sono state alle potenze pacifiche, democratiche, economiche che alla fine sono diventate». Una trasformazione che inizialmente non è stata il risultato di una «naturale evoluzione» dei due paesi, ma la conseguenza sia della sconfitta militare che delle «politiche» dell’America e dei suoi alleati nel dopoguerra. Non sarebbe male tenerlo a mente, visto che, in ultima analisi, «il mutamento nelle traiettorie geopolitiche della Germania e del Giappone hanno cambiato il contesto strategico globale in un modo più significativo e duraturo dell’ascesa e della caduta dell’Unione Sovietica».

Alessandro Maran

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