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«Perché il proporzionale porta a un dramma dell’inazione shakespeariano» – linkiesta.it, 20 gennaio 2020

Non è una questione tecnico-politica, è una questione etica. Garantire la governabilità è un’esigenza dei tempi, e la debolezza dei partiti attuali non consente di tornare al sistema Prima Repubblica. Semmai porta al rischio di aprire ancora di più ai populismi

La decisione della Corte costituzionale apre la strada al ritorno del proporzionale. Poco male, si dirà. Ci sono parecchie ragioni per tifare per il proporzionale. Claudio Cerasa, qualche tempo fa, ha riassunto magnificamente la questione: «Sappiamo tutti che il modello dei sindaci, lo splendido doppio turno, è ciò che servirebbe all’Italia ma sappiamo anche che fino a quando ci sarà un bicameralismo perfetto avere il doppio turno è impossibile. E per questo, fino a quando non si cambierà il sistema istituzionale italiano, il modo migliore per difendere la nostra democrazia rappresentativa dai professionisti dello sfascismo è quello di scommettere su uno splendido proporzionale, che respinga l’estremismo nazionalista e che non renda strutturale l’alleanza tra Pd e M5s».

Ma il Pd (nella vita, si sa, c’è sempre un “ma“) può rinunciare davvero, da un giorno all’altro, a quella vocazione maggioritaria che prometteva istituzioni forti, una democrazia governante e stabile e ai cittadini-elettori di scegliere (almeno indirettamente) il governo? Può (quindi) rinunciare davvero ad un sistema elettorale coerente? Può gettare la spugna? Per capirci, dal crollo della Prima Repubblica (da quando, come ha raccontato Fabio Martini nel suo bel libro su Craxi, nell’estate del 1991, il segretario socialista si lasciò sfuggire l’ultimo treno e commise un “errore catastrofico: consigliò agli italiani di andare al mare” assumendo il ruolo di capofila del vecchio sistema politico, mentre gli italiani videro nel disprezzo del referendum “l’alterigia di un potere ormai fondato solo su se stesso”), consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza, è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. L’elezione diretta del sindaco, finora la più felice delle riforme, è appunto del 1993; e da allora ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Quel modello funziona splendidamente. Ma tutti i tentativi di adeguare il nostro sistema istituzionale nazionale sono falliti. Per tante ragioni, ovviamente. Ma soprattutto perché, come spiegava Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». E, come abbiamo visto, «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori riteneva che «in questi casi la strategia preferibile» non fosse «quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto» e che le probabilità di riuscita fossero «minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo».
Ora che investitura diretta di leader e programma di governo ce li siamo giocati con il referendum del 2016 e gli interventi della Corte costituzionale, scarichiamo un’altra volta sulla legge elettorale (come è successo nel 1953, e poi nel 1993 e infine nel 2005) tutte le tensioni derivanti da una forma di governo che non è mai stata in grado di garantire la stabilità.

Ma la questione della legge elettorale non è una questione tecnico-istituzionale, è una questione etico-politica. Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello stato e dello stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello stato. Il rispetto della competenza decisionale degli individui (che pretendono di scegliere direttamente il deputato che li rappresenta e il capo del governo) non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile? Non è per questo che il Pd aveva scelto le primarie? Del resto, il Movimento CinquE Stelle è nato proprio dalla faglia che si è aperta nei sistema dei partiti tra potere istituzionale e potere di legittimazione: massimo del potere, minimo di legittimazione. E, si sa, una forma politica è legittima solo in virtù del sostegno dei cittadini.

Una delle più complesse tragedie shakespeariane a soggetto storico, The Life and Death of King Richard the Second, è una profonda e articolata riflessione sul potere e sulla politica, ma soprattutto sulla sua legittimità (o illegittimità). Come per Balzac, una delle maggiori ossessioni di Shakespeare era la legittimità; e quando si legge il Riccardo II, salta agli occhi il suo orrore per ciò che può venire intentato contro la legittimità, contro chi ha ricevuto l’olio santo. Il successore di Riccardo II, che sale al trono con il nome di Enrico IV, possiede indubbie qualità di comando, ma con la deposizione e l’uccisione del predecessore, ha violato il precetto di legittimità; e ciò lo renderà per sempre un sovrano debole e insicuro. Volendo, potremmo leggere le vicende di questi anni con questa lente. Dal ribaltone del 1994, quando la Lega Nord di Bossi ruppe l’alleanza con il Cavaliere e poi votò a favore del governo tecnico guidato da Lamberto Dini a quando, nel 1998, Mastella rese possibile un passaggio storico (lui, eletto col centro-destra ed ex ministro del governo Berlusconi, mise a disposizione i voti decisivi per far nascere il primo governo guidato da un ex comunista nella storia della Repubblica), per arrivare, come recita il mantra, ai governi «non eletti dal popolo» prima di Mario Monti e poi di Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, fino al BisConte. Da allora il Pd, come lo shakespeariano Bolingbroke, vive con sofferenza l’amara parabola del potere usurpato, con i suoi conflitti, le sue tensioni, la perdita di ogni pace interiore.

Insomma, non diversamente dalla crisi europea, la crisi italiana continua ad essere, per dirla con Sergio Fabbrini, «la conseguenza dell’intreccio tra grandi cambiamenti e piccole istituzioni». Le difficoltà del Paese sono, infatti, ingigantite dalla debolezza delle istituzioni costruite per governarlo e finché non avremo un sistema istituzionale efficiente i nostri guai (ed il populismo) non svaniranno. Non per caso, l’anno scorso Libertàeguale, l’associazione guidata da Enrico Morando che raccoglie i riformisti, aveva rilanciato (“tutta intera e senza timidezze”) la proposta di riforma istituzionale ed elettorale centrata sul semi-presidenzialismo francese. Secondo il prof. Carlo Fusaro la forma di governo parlamentare in Europa è arrivata addirittura alla fine (anche se, come ha twittato qualche tempo fa, dalle nostre parti «abbiamo sempre uno spauracchio o un’emergenza che giustifica la preferenza per il governo debole e le lentezze come garanzie»; il nostro è «un habitus mentale»). Fatto sta che non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro. Oltretutto, oggi non ci sono le forti appartenenze di un tempo, gli elettori sono più mobili e i partiti molto più deboli. Detto altrimenti, la Prima Repubblica aveva partiti forti che compensavano istituzioni deboli. Ora abbiamo istituzioni deboli e partiti liquefatti. E solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. Insomma, se non vogliamo continuare a ripetere gli errori del passato, quella dell’investitura diretta dell’esecutivo è una scelta obbligata.
E non basta agitare lo spauracchio “Altrimenti Torna Salvini”. I populismi si combattono con le idee; e dalle idee (proprio per risvegliare la coscienza dell’Italia contro chi l’ha portata nello stato pietoso dove oggi si trova), prima o poi, bisognerà ripartire. Infatti, se gli eventi precipitano è perché, come nel Riccardo II, non c’è nessuna forza morale, politica o militare in grado di opporvisi. Non a caso, a proposito della tragedia di Shakespeare, si è parlato di “un dramma della non-azione”; di una tragedia centrata sulla divaricazione fra parole e fatti, sulla fede di un re nella potenza incantatrice della parola (basta pensare a Grillo che appare in video truccato da Joker). Un dramma in cui le azioni sono evocate, auspicate, temute, scongiurate, rinviate, sottintese, immaginate e poi dissolte in un girotondo senza fine che nasconde la stessa rassegnazione di chi, in fondo, ha ormai ceduto all’idea che il momento per ritentare quello che fallì nel 2016 non tornerà più.

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