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«IL METEORITE CHE TRAVOLSE IL SISTEMA POLITICO ITALIANO» – Quaderno 2/2019 Fondazione PER, 29 dicembre 2019

«Il Regno Unito e gli Stati Uniti – scrive Claudio Cerasa sul Foglio in un articolo al solito stimolante – hanno oggi leadership imprevedibili e per certi versi pericolose. Ma il fatto che quelle leadership siano emerse all’interno di grandi partiti che da sempre difendono la società aperta offre agli osservatori qualche ragione in più per pensare che grazie alla presenza dei partiti la realtà alla fine sarà inevitabilmente più forte di ogni forma di populismo». Insomma, a Londra e a Washington il sistema politico e istituzionale prevede una sorta di camera di compensazione per le isterie delle leadership anti sistema, in Italia, no: dietro i populisti ci sono movimenti sradicati dalla cultura liberale.

A partire dal 1989 il sistema politico italiano fu travolto
Cerasa ha ragione. Il guaio è che il sistema politico italiano, com’è accaduto con i dinosauri, è stato colpito da un meteorite che lo ha annientato. Il sistema dei partiti, in Italia, fu travolto dal Crollo del Muro di Berlino (e dunque dalla fine del comunismo, dallo scioglimento del PCI e dalla nascita del PDS, ecc.) e dalle inchieste giudiziarie che fecero emergere il fenomeno detto Tangentopoli (e che allora godettero del diffuso sostegno dell’opinione pubblica alimentato dai mass media). L’enorme perdita di credibilità subita, in particolare dalle forze del pentapartito, le portò a una crisi irreversibile, fino allo scioglimento della DC e del PSI, rispettivamente il più importante e il più antico dei partiti politici italiani.
Il collasso dei partiti ha segnato l’esaurimento traumatico di una storia più lunga e di culture politiche che, sia pure ammaccate, sopravvivono in Germania, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, ecc. Non per caso, il nostro sistema politico assomiglia a quelli dei paesi dell’Europa centro-orientale e non a quelli dell’Europa occidentale.

Se l’Italia assomiglia all’Europa orientale
Ne ha scritto qualche anno fa, sul Mulino, il professor Paolo Segatti. La prospettiva comparata ha rivelato infatti che il sistema politico italiano tende ad assomigliare a quello dei paesi dell’Europa orientale più che a quelli occidentali. Abbiamo sperato in molti che la transizione ci portasse, prima o poi, verso una democrazia governante di tipo occidentale nella quale i cittadini scelgono tra due o poco più partiti.
L’analisi sulle modalità di competizione degli ultimi due decenni, accelerate già dalle elezioni del 2013 (le elezioni che hanno visto il numero più elevato di elettori nella storia repubblicana cambiare voto), ci indica invece che stiamo procedendo verso l’Europa orientale. Il che spiega molte cose. E il peso che fa pendere il piatto della bilancia verso Est è la fluidità straordinaria del sistema politico italiano, la fragilità organizzativa di quasi tutti i partiti e «la loro incapacità di svolgere un ruolo trasformativo della propria identità». «Non che i partiti dei Paesi occidentali godano di buona salute», osserva Segatti. «Ma esistono, in qualche modo, in Italia invece dopo quanto accaduto agli inizi degli anni Novanta i partiti non si sono più ripresi, e anche l’unico che sembrava restare in piedi, in realtà sopravviveva per inerzia».

Da Roma a Caracas
Anche il prof. Loris Zanatta si è concentrato sull’aspetto traumatico assunto in Italia dal crollo della mediazione politica tradizionale. Da un pezzo infatti, «per capire come la pianta populista può crescere rigogliosa in forme diverse ma tra loro legate da tratti comuni», Loris Zanatta ha suggerito l’analisi di due casi «all’apparenza agli antipodi dal punto di vista storico e geografico», l’Italia e il Venezuela: «Paesi assai diversi tra loro per molteplici aspetti storici, sociali, politici ed economici, ma entrambi diventati da alcuni lustri in qua tra i più ricchi laboratori del nuovo populismo».
In tutti e due i paesi, scrive Zanatta, «il populismo ha colto il suo trionfo sviluppandosi sulle rovine del sistema politico tradizionale, imperniato su Democrazia cristiana e Partito comunista in Italia e su Copei (Comité de Organización Politica Electoral Independiente) e Acción Democrática in Venezuela, partito di ispirazione cattolica il primo e di filiazione socialista il secondo». Benché diversi tra loro, «ciò che tali populismi rivelano è l’aspetto traumatico assunto in Italia e in Venezuela dal crollo della mediazione politica tradizionale e la vitalità che sotto la sua coltre conservano antiche e radicate concezioni del mondo»; e sia in Italia che in Venezuela, il populismo si inserisce e prospera in uno spazio già di per sé fertile «dato il debole radicamento dell’ethos liberale nella cultura politica di entrambi i paesi e stante nell’uno e nell’altro caso la diffusa pervicacia di un immaginario politico diffidente verso la rappresentanza liberale, portato a ‘sentire’ la democrazia come attributo delle relazioni sociali ma non altrettanto della sfera politica».

Non si può tornare al mondo prima dell’89
Per questo siamo messi come siamo messi. E non c’è modo di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro: non ci sono più le forti appartenenze di un tempo, gli elettori sono più mobili e i partiti molto più deboli. Detto altrimenti, la Prima Repubblica aveva partiti forti che compensavano istituzioni deboli. Ora abbiamo istituzioni deboli e partiti liquefatti. E continuo a pensare che solo la leadership possa essere una risposta alla crisi di legittimazione.
Insomma, se non vogliamo continuare a ripetere gli errori del passato, quella dell’investitura diretta dell’esecutivo è una scelta obbligata. Perché non diversamente dalla crisi europea, la crisi italiana continua ad essere, per dirla con Sergio Fabbrini, «la conseguenza dell’intreccio tra grandi cambiamenti e piccole istituzioni». Le difficoltà del Paese sono, infatti, ingigantite dalla debolezza delle istituzioni costruite per governarlo e finché non avremo un sistema istituzionale efficiente i nostri guai (ed il populismo) non svaniranno.

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