I social network, si sa, brulicano di hater che, celati sotto i nickname più inverosimili, avvelenano le discussioni on line con un atteggiamento aggressivo e sovente con insulti improntati a un odio feroce e immotivato. Non risparmiano nessuno: attaccano politici, artisti, scrittori, manager, professionisti, atleti e star dello spettacolo, come se non ne tollerassero il successo. Fateci caso, solo una categoria sembra sfuggire alla tendenza vendicativa dei social che trasforma, sul web, il garbato vicino di casa in un fustigatore dei poteri forti: i magistrati, che sembrano (buon per loro e per tutti noi) immuni all’ostilità che avvelena i social media. Anche di fronte alle «degenerazioni correntizie», ai «giochi di potere» e ai «traffici venali» denunciati dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, dopo che l’indagine per corruzione avviata dalla procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha svuotato di ogni autorevolezza il vecchio e austero Csm e costretto ben cinque dei suoi componenti a fare un passo indietro.
A ben guardare, è una vecchia storia. Sono celebri i versi della poesia «Il Pci ai giovani» con i quali Pier Paolo Pasolini, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, a Roma, si schierava con i poliziotti contro gli studenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!». E ancora sul Corriere della Sera («Perché il processo», 28 settembre 1975): «Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’é il problema della Magistratura e delle sue scelte politiche. Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della ‘stampa’, abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura».
Il fatto, come mi ha fatto notare un amico intelligente, è che i magistrati in Italia (almeno dal «pronunciamento» del pool milanese, all’epoca del decreto Conso, quando i magistrati di Milano apparirono in Tv minacciando le dimissioni, l’opinione pubblica e i giornali gridarono allo scandalo, il Presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta nella storia repubblicana rifiutò di firmare un decreto-legge e la classe politica tornò sui suoi passi e non votò il «decreto salva ladri»; il che fu probabilmente il maggior punto di caduta del potere politico) hanno lo stesso ruolo «regolatore» dei militari in Sudamerica. Con le debite proporzioni, s’intende. In America Latina, i militari hanno instaurato regimi dittatoriali sanguinari, generalmente a seguito di un colpo di Stato che ha rovesciato il precedente regime: tutto un’altro paio di maniche. Resta il fatto che, in Sudamerica, le giunte militari il più delle volte hanno legittimato la presa del potere con l’intento di portare stabilità politica alla nazione «salvandola» dalla minaccia del comunismo (o del capitalismo, in ogni caso di «ideologie pericolose»). In Italia, invece, per dirla con Giuliano Ferrara, «da trent’anni circa il tamburo della politica italiana lo batte la mano di un magistrato o di un pool», il cui intervento è legittimato dalla necessità di «salvare» il paese dalla corruzione dilagante e dalla criminalità diffusa. Che l’Italia sia uno dei Paesi più corrotti al mondo viene dato per scontato e non può essere messo in discussione. Eppure le cose, grazie al cielo, non stanno così. Lo rivelava (ancora una volta) l’anno scorso il Rapporto Eurobarometro sulla corruzione; e anche Piergiorgio Corbetta (in articolo sul Mulino: «Siamo un Paese corrotto?») constatava uno scarto assai significativo tra corruzione percepita e corruzione reale: gli italiani si autorappresentano come corrotti pur essendo invece nella media europea quanto ad esperienza diretta di fenomeni corruttivi. Nell’ultima graduatoria di Transparency International, basata proprio su un indice di percezione, risultiamo al 69esimo posto con l’85% degli italiani convinti che istituzioni e politici siano corrotti: eppure, alla domanda specifica, posta a un campione di cittadini, se negli ultimi 12 mesi avessero vissuto, direttamente o tramite un membro della propria famiglia, un caso di corruzione, la risposta è stata negativa nella stragrande maggioranza dei casi, in linea con le altre nazioni sviluppate. Insomma, in Italia i livelli di corruzione percepiti sono decisamente superiori a quelli reali: soffriamo della «sindrome del Botswana», cioè della tendenza ad accostarci a Stati difficilmente assimilabili al nostro per benessere e ricchezza. E’ quanto è emerso anche dalla ricerca curata da Giovanni Tartaglia Polcini per l’Eurispes («La corruzione tra realtà e rappresentazione. Ovvero: come si può alterare la reputazione di un Paese»). Secondo Tartaglia Polcini, nel nostro Paese si verifica «il “Paradosso di Trocadero”: più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno. L’effetto distorsivo collegato a questo assunto ha concorso a penalizzare soprattutto gli ordinamenti più attivi dal punto di vista della reazione alla corruzione in tutte le sue forme». In altre parole, l’Italia, ovviamente, non è immune dalla corruzione (che anzi ne ha caratterizzato la storia antica e recente), ma il nostro Paese è meno corrotto degli altri, reagisce alla corruzione più degli altri, combatte il malaffare e oggi lo previene anche meglio degli altri.
Perché, allora, le cose stanno così? Dipende, ovviamente, da molti fattori che hanno a che fare con il nostro sistema giudiziario. Quella che è stata definita la «explosion juidiciaire» ha assunto, infatti, in Italia tratti peculiari senza riscontro in altri ordinamenti. Alcune correnti della magistratura proclamano da tempo l’idea di una funzione giudiziaria non solo di tutela dell’individuo, ma anche di «garantismo collettivo», quasi contrapposta ad altri poteri dello Stato, con effetti di delegittimazione sia della funzione legislativa che di quella di governo; le garanzie di indipendenza della nostra magistratura sono tra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici consolidati (difatti, per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana); e uno studioso attento come Carlo Guarneri scriveva che «il rafforzamento del potere giudiziario, che ha caratterizzato il nostro sistema politico negli ultimi quarant’anni, ne ha reso problematica la compatibilità con i principi di fondo di un regime democratico (…) rendere il potere giudiziario compatibile con i principi di una democrazia costituzionale non significa renderlo politicamente responsabile allo stesso modo di chi esercita funzioni esecutive o legislative (…) Significa però che vanno approntati dei contrappesi idonei a limitare questo potere e a far sì che si esplichi in modo da non indebolire il sistema democratico, cosa che avverrebbe inevitabilmente se la magistratura avesse sistematicamente il sopravvento sulle altre istituzioni». Insomma, le storture del sistema sono sotto gli occhi di tutti, ma la magistratura a tutti piace così, purché colpisca solo la parte politica avversa. Infatti, l’ordinamento giudiziario c’entra solo fino ad un certo punto. C’è qualcosa di più profondo. Dal crollo della mediazione politica tradizionale, da quando il vecchio sistema ha cominciato a sgretolarsi e molte altre trasformazioni sociali hanno generato insicurezza e spaesamento, il nostro paese è pieno di Savonarola che tuonano dal pulpito con toni apocalittici e invitano al pentimento, alla conversione, a fare penitenza.
Da allora, il «popolo» dalle piazze virtuali invoca la moralizzazione (e il castigo). Insomma, il populismo ha trionfato sulle rovine del sistema politico tradizionale e antiche e radicate concezioni del mondo hanno rialzato la testa. Niente di sorprendente: il populismo e il moralismo sono sempre andati di pari passo. E il copione, in ogni tempo e in ogni luogo è sempre lo stesso: c’era una volta un popolo puro; la modernità, la secolarizzazione, il liberalismo, il capitalismo, lo hanno corrotto; finché un leader, un profeta, verrà a redimere il popolo predestinato, a cacciare con la spada i peccatori e ad aprire le porte della terra promessa. Dopo anni di modernizzazione impetuosa e disorientamento causato dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica e dai flussi migratori e comunicativi, il populismo promette protezione, identità, omogeneità, Dio, patria e famiglia: una utopia reazionaria, la restaurazione dell’unità organica di un passato mitico.
Come si affanna a ripetere il prof. Loris Zanatta, il popolo dei populisti è, infatti, omogeneo, privo di dissensi e dissonanze; è una «comunità organica». In altri termini, una comunità che non ha niente a che fare con un contratto esplicito, volontario e razionale tra i suoi membri, ma la cui vita rifletterebbe un ordine naturale di coesione e unità, che vive i dissensi e il conflitto come minacce alla sua stessa esistenza. Una visione del mondo agli antipodi della società aperta. E sono in molti quelli che pensano che anche oggi lo Stato abbia il dovere di moralizzare e omogeneizzare il popolo; uno Stato etico, un «grande fratello» che vigila e dirige, paterno con i sudditi, spietato con gli eretici.
È il modello sudamericano. Il modello vagheggiato dai Cinque Stelle. Del resto, le olimpiadi o le grandi infrastrutture non si possono fare perché sono una porta aperta alla corruzione, non si fa il ponte sullo stretto perché c’è la mafia, non si vogliono le fabbriche perché possono inquinare. Siccome vigilare e fare le cose per bene è difficile, meglio non fare nulla e non esporsi alle tentazioni. Anche a costo di impoverirsi. Del resto, egualitarismo e sottomissione dell’individuo alla collettività e allo Stato, oltre che il disprezzo della cultura, furono anche le principali caratteristiche della rivoluzione culturale cinese. Il principale obiettivo del regime era infatti la creazione di una società disciplinata. Non per caso, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt si disse letteralmente «scandalizzato» dalla «sfrontatezza con cui l’individualità veniva soffocata». E come ricorda ancora il prof. Zanatta, durante la Guerra Fredda, in America Latina «fu perlopiù l’establishment militare a rimodulare il paradigma populista» e individuare allora «nei suoi fautori i nemici dell’integrità e identità nazionali». Infatti, «la cronica e convulsa mobilitazione sociale che i populismi alimentavano, spesso divenuta violenta dopo la rivoluzione cubana», sembrò loro «la principale causa dei conflitti che laceravano la nazione portandone l’organismo alla dissoluzione». Ma proprio le forze armate erano «le più irriducibili depositarie di una concezione sociale organica, almeno nel mondo iberico, dato che in Italia l’esito della Seconda guerra mondiale ne aveva notevolmente ridimensionato il ruolo». E come tali, proprio le forze armate avevano «tenuto spesso a battesimo i movimenti populistici, i cui leader erano in molti casi usciti dalle caserme, giudicandoli salutari alla restaurazione dell’armonia sociale integrando ‘il popolo’ nella comunità omogenea della nazione». «Ma – prosegue Zanatta – gli stessi militari giudicavano ora urgente fissare un limite alla perpetua agitazione che i populismi causavano in nome del ‘popolo’ sempre, sia chiaro, in funzione dell’armonia sociale della nazione».
Salta agli occhi, dunque, «il ferreo nesso tra la persistenza della visione populista e il ricorrente militarismo nel mondo latino. Mondo in cui i militari, che più di ogni altra istituzione furono fin dalle origini perno insieme alla Chiesa, assursero a regolatori dell’equilibrio in seno alla comunità del popolo. Ora integrandovi i ceti che di volta in volta si affacciavano alla ribalta, come fecero portando al potere i movimenti populisti di tipo peronista o fascista, ora ponendo un freno agli effetti disgregatori di quell’integrazione attuando reazioni incentrate sul rispetto della gerarchia degli organi del corpo sociale, come fecero rovesciando quegli stessi regimi ed altri affini che avevano tenuto a battesimo».
In Italia, a ben guardare, c’è un nesso tra la visione populista che sembra avere conquistato il paese e un apparato che tende ad imporre all’intero assetto della società e dello Stato una sorta di pax iudiciaria che si ritiene indispensabile per fronteggiare il nemico della Repubblica (ieri il terrorismo e la criminalità organizzata, oggi la corruzione, il malaffare e, addirittura, l’incompetenza dei politici).
Ora che il contesto internazionale è mutato, che l’ordine mondiale che abbiamo ereditato dalla Seconda guerra mondiale è quasi irriconoscibile, ora che lo scontro è fra chi vuole più Europa e chi vuole sfasciare tutto, ora che l’Italia rischia di deragliare dai binari storici della nostra politica estera, è difficile, tuttavia, pensare che il nostro paese possa continuare, per usare il titolo di un libro di Domenico Marafioti, a muoversi «a passo di giudice».
Le evoluzioni del nostro sistema politico riflettono inevitabilmente quelle del sistema internazionale e, com’è accaduto in America Latina con la fine della Guerra Fredda, le cose sono destinate a cambiare. E forse non è un caso che l’inchiesta di Perugia si sia trasformata in una bomba in grado di ridurre in macerie Palazzo dei Marescialli. A meno che il riemergere del populismo come espressione moderna di un retaggio antico, di una visione del mondo che ha permeato in passato il mondo occidentale, e la concomitante «straripante presenza dell’ordine dei magistrati fino a configurare – per latitudine di attributi e di interventi – quasi uno ‘stato nello stato’» (Marafioti), abbiano a che fare proprio con il ripiegamento, la ritirata, degli Stati Uniti e dell’ordine liberale. Da un pezzo gli americani sono stanchi del mondo e non vogliono più portare su di sé il peso della responsabilità globale, da un pezzo vogliono tornare a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del vasto mondo; e ora l’America di Trump si rifugia nel nazionalismo, non parla più di diritti umani e smette di premere sui dittatori. Ma, come rimarcava Larry Diamond sul Guardian, è proprio a causa di questo vuoto, è per colpa di questa assenza, che il dispotismo si fa largo e le democrazie vengono destabilizzate, con un’azione lenta e progressiva. Come sanno i lettori del Foglio, «Superpowers don’t get to retire».