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Il Foglio, 16 marzo 2019 – «Storia di Zuzana Caputova. Perché le elezioni slovacche ci riguardano»

In Slovacchia, alla vigilia delle elezioni presidenziali, la candidata riformista Zuzana Čaputova è in testa nei sondaggi e potrebbe addirittura vincere al primo turno. Manco a dirlo, la vittoria di un candidato liberale, apertamente filo-occidentale e per giunta donna, sarebbe un duro colpo per il populismo in una regione come l’Europa centrale, attratta irresistibilmente da leader nazionalisti con un debole per la Russia e dove la democrazia liberale è spesso a rischio. E le presidenziali potrebbero essere solo l’inizio. L’anno prossimo le elezioni politiche decideranno quali forze rimpiazzeranno i vecchi partiti oggi sul viale del tramonto ed è la prima volta che i riformisti filo-occidentali hanno il vento in poppa. Ma potremmo essere di fronte ad una svolta anche per l’Europa. Il paese postcomunista, data la piccola dimensione ed un sistema politico instabile e mutevole, è diventato una sorta di laboratorio in grado di testare come la politica centrista possa rispondere alle sfide dell’epoca populista. La Slovacchia, infatti, in questi anni non si è fatta mancare niente ed è stata trascinata in tutte le dispute che hanno infiammato l’Occidente: dall’immigrazione e dalle politiche in materia di asilo all’evidente corruzione delle élite, fino alle sfide geopolitiche dettate dalla prossimità con l’Ucraina e la Russia. E al di là del significato del suo successo per l’intera regione, la candidata di «Progresivne Slovensko» (un partito nuovo di zecca) ha forse qualcosa da insegnare ai liberali occidentali che cercano una risposta al nazional-populismo. Zuzana Čaputova ha unito i partiti di centro-sinistra e di centro-destra, lasciando intravedere come le dispute di una volta tra «large government» e «small government» possano svanire nellepoca del populismo. Può anche darsi che i Millennials americani si siano innamorati del socialismo, come si racconta, ma l’esempio slovacco indica che la dicotomia tra «socialismo» e «mercato», in un paese che ha sperimentato il socialismo reale, è morta e defunta da un pezzo. Il che non significa che non ci siano disparità di vedute in merito alle specifiche politiche. Ma l’importanza di queste differenze impallidisce di fronte alla domanda se la Slovacchia possa diventare un paese europeo normale. Inoltre, le possibili soluzioni alle sfide economiche e sociali che affronta il paese (dall’invecchiamento al basso livello degli investimenti in ricerca e sviluppo, per non parlare dell’ampia e male integrata popolazione Rom) non hanno molto a che fare con la divisione destra-sinistra.

Zuzana Čaputova ha costruito la propria carriera di avvocato lottando per le riforme e contro la criminalità organizzata e la corruzione. Una specie di Erin Brockovich slovacca, insomma. Il che le garantisce una bella storia da raccontare che le permette di opporsi allo stato delle cose attuale senza concedere nulla alle rivendicazioni nazionalistiche. Lo spartiacque tra Čaputova e Štefan Harabin, il probabile sfidante al ballottaggio (ex ministro della giustizia e attuale giudice della Corte suprema), è infatti (fatalmente) quello tra società «aperta» e società «chiusa», tra dinamismo orientato al futuro e nostalgia, tra cosmopolitismo e particolarismo etnico. Ciò indica una possibile strada da intraprendere nella lotta contro il nazionalismo populista, anche nel caso in cui le imminenti elezioni del Parlamento europeo dovessero segnare unavanzata dei partiti nazionalisti. Naturalmente si dirà, un piccolo paese dell’ex blocco comunista, che cosa potrà mai insegnare ad un paese come il nostro? Ma non bisogna sottovalutare quel che accade da quelle parti. Come ci ha ricordato qualche tempo fa, sul Mulino, il professor Paolo Segatti, la prospettiva comparata rivela infatti che il sistema politico italiano tende ad assomigliare a quello dei paesi dell’Europa orientale più che a quelli occidentali. Abbiamo sperato in molti che la transizione ci portasse, prima o poi, verso una democrazia governante di tipo occidentale nella quale i cittadini scelgono tra due o poco più partiti. L’analisi sulle modalità di competizione degli ultimi due decenni, accelerate e non contraddette già nelle elezioni del 2013 (le elezioni che hanno visto il numero più elevato di elettori nella storia repubblicana cambiare voto; e c’era ancora Bersani), ci indica invece che stiamo procedendo verso l’Europa orientale (il che spiega molte cose). E il peso che fa pendere il piatto della bilancia verso Est è la fluidità straordinaria del sistema politico italiano, la fragilità organizzativa di quasi tutti i partiti e «la loro incapacità di svolgere un ruolo trasformativo della propria identità». «Non che i partiti dei Paesi occidentali godano di buona salute», osserva Segatti. «Ma esistono, in qualche modo, in Italia invece dopo quanto accaduto agli inizi degli anni Novanta i partiti non si sono più ripresi, e anche l’unico che sembrava restare in piedi, in realtà sopravviveva per inerzia». Appunto.

Alessandro Maran

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