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“Il primo governo ‘siamo contrari alla legge di gravità’ e la crisi delle élite” – Il Foglio, 15 maggio 2018

È andata come doveva andare. Il governo populista, questo «premier gouvernement ‘antisystème’», come scrive Le Monde, è, in fondo, l’esito necessario del voto del 4 marzo. E non soltanto per mere considerazioni aritmetiche. Dietro la scelta compiuta dalla maggioranza degli italiani si nascondono molti ingredienti. Ci sono certamente la lotta contro l’immigrazione e la moralizzazione della vita pubblica, ma anche «l’inganno consapevole delle opinioni pubbliche» di cui ha parlato il presidente Mattarella (con la conseguente avversione alle regole di finanza pubblica e alle alleanze internazionali alle quali abbiamo aderito, il trionfo degli estremismi, il fatto che ciò che è percepito è più importante di ciò che è reale, ecc.). Inoltre, c’è sicuramente una robusta tradizione culturale di rigetto del reale in nome dell’illusione (che il poeta peruviano Augusto Lunel ha definito mirabilmente: «Siamo contrari a tutte le leggi, a cominciare dalla legge di gravità»), ma c’è anche un altro grande collante: il no, grande come una casa, a ciò che in molti considerano il compiaciuto moralismo della classe politica tradizionale (specie in relazione all’immigrazione e all’Europa); cioè il no a quell’atteggiamento paternalistico per cui i governanti attuano politiche che, pur tendendo con sollecitudine paterna al benessere dei governati, li considera però, quasi fossero dei bambini, incapaci di decidere in modo autonomo e responsabile.

Il fatto è che in tutte le società industriali avanzate, come ha scoperto Ronald Inglehart fin dagli anni ’70, proprio le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori. Ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l’auto-espressione, la qualità della vita, la scelta individuale sono diventate centrali. E questa nuova visione del mondo si accompagna a una de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità. Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti s’impegnano in attività dirette a sfidare le élite. Anche quando queste (e non succede sempre) esibiscono orgogliosamente un impegno virtuoso e ragionevole nel gestire le faccende della nazione.

Ian Buruma, in un libro di qualche anno fa sulla crisi del modello di integrazione olandese («Assassinio a Amsterdam»), ha ricordato che il repubblicanesimo olandese al culmine della sua gloria e fino a non molti anni fa, si presentava proprio con i volti dei «regenten» del diciassettesimo secolo: una élite virtuosa che maneggiava il potere con discrezione, in vista del bene comune. Se ne possono cogliere la fattezze, ha evidenziato l’accademico olandese, nei perfetti ritratti dipinti nel secolo d’oro da Franz Hals: «Seduti intorno ai loro tavoli di quercia, in ambienti severi con decorazioni essenziali, vestiti sobriamente in nero, intenti ad amministrare ospizi ed orfanotrofi, a dispensare carità ai bisognosi, a discutere degli affari di commercio o di Stato, questi notabili agiati e pieni di buona volontà, ma giammai tronfi, questi veri signori hanno un’aria di probità, parsimonia, duro lavoro, tolleranza, e – qui sta la genialità di Franz Hals – l’ineffabile autocompiacimento di una superiore virtù».

I Paesi Bassi, si sa, erano prosperi e la gente era soddisfatta. Poi le cose sono cambiate. Anche lì. Da un pezzo in tutti i Paesi del continente, l’autorità dei governi nazionali è stata pian piano erosa dalle istituzioni europee e dalle imprese multinazionali; da un pezzo, in tutti i paesi europei, i crescenti problemi relativi alle pensioni, alle cure sanitarie, alla criminalità, alle tasse, sembrano sfuggire dalle mani dei politici eletti; da un pezzo proprio la promozione degli ideali europeistici ha rafforzato un sentimento di crescente disagio e molta gente ha finito per percepire l’europeismo e il multiculturalismo come gli ideali di una élite compiaciuta; da un pezzo una ampia porzione della popolazione non si sente rappresentata e da un pezzo i moderni «regenten» hanno perso la loro presa sul sentimento popolare e sono oggetto di una attiva ostilità. In altre parole, ciò che molta gente aspettava era un politico sufficientemente grossolano da dar voce alle loro ansie e spalancare le porte alla discussione. In Olanda quell’uomo è stato Pim Fortuyn. In Italia adesso ne abbiamo addirittura due (perchè di Italie ce ne sono due). Ora Di Maio e Salvini, i gemelli del populismo italiano, stanno per dar vita ad un governo che si costituisce come forma di ribellione contro i «vincoli» del «governare». E da qui bisogna ripartire. Proprio per ribellarsi, per dirla con Claudio Cerasa, contro i professionisti della ribellione.

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