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Il Medio Oriente sta per esplodere?

L’Eliseo ha annunciato oggi che Saad Hariri dovrebbe arrivare in Francia “dans les prochains jours”. Il primo ministro libanese dimissionario è stato invitato dal presidente Emmanuel Macron (che come scrive il New York Times “ha assunto un ruolo guida”) a raggiungere la Francia con la sua famiglia, offrendogli così la possibilità di lasciare l’Arabia Saudita, dove finora è rimasto in circostanze misteriose da quando ha inaspettatamente annunciato le sue dimissioni. Al punto che crescono le preoccupazioni che Hariri possa essere ostaggio delle autorità saudite. Ma che cosa succede?

Il Libano è sempre stato lo specchio del Medioriente. Le potenze più forti della regione lo hanno usato, variamente, come uno spazio per le loro guerre per procura, un’arena nella quale inscenare il conflitto arabo-israeliano e il luogo in cui testare, con attacchi periodici, la coesistenza tra sauditi e iraniani. É, in altre parole, il posto dove la regione combatte le sue guerre e negozia le sue tregue temporanee.

Le novità sono arrivate il 4 novembre scorso con tre sviluppi, uno dopo l’altro, in meno di dieci ore.

In primo luogo, Saad Hariri, il primo ministro del Libano ha annunciato le sue dimissioni. Che abbia fatto la dichiarazione da Riyadh la dice lunghissima su come stanno le cose; che poi l’abbia fatta con la sponaneità di una persona costretta a leggere la propria sentenza di condanna spiega il resto. La decisione è stata annunciata dal primo ministro libanese ma è stata presa in Arabia Saudita. Mohamed bin Salaman, il principe ereditario e leader di fatto dell’Arabia Saudita, aveva diversi motivi per farlo. Le tensioni tra l’Iran e l’Arabia Saudita stanno crescendo e bin Salaman è determinato a rappresentare Tehran come la fonte di tutti i mali della regione. E lasciare che Hariri presieda un governo che include gli Hezbollah avrebbe delegittimato completamente proprio il messaggio centrale: avrebbe significato cioè permettere ad uno degli alleati più stretti di Riyadh di cooperare con il più leale partner di Tehran. Hariri, in qualità di primo ministro, ha dato insomma l’impressione che la coesistenza con Hezbollah e, più in generale, con l’Iran fosse possibile; e la sua uscita di scena è concepita proprio per fugare ogni dubbio. Gli era stato chiesto di assumere il ruolo di primo ministro un anno fa, in un momento in cui l’obiettivo era quello di immunizzare il Libano dalla rivalità tra sauditi e iraniani, e il suo allontanamento abbandona ora completamente il Libano a quella rivalità.

Poi si sono diffuse le notizie che l’Arabia Saudita ha intercettato un missile lanciato dallo Yemen e diretto, a quanto sembra, all’aeroporto di Riyadh. Non è il primo missile che gli Houthis, un gruppo ribelle dello Yemen che vanta il sostegno dell’Iran e degli Hezbollah, abbia lanciato in direzione del vicino settentrionale, ma la puntualità e la sua gittata senza precedenti potrebbero renderlo uno dei più importanti. La misura dell’aiuto esterno agli Houthis è una questione controversa, ma né gli Stati Uniti né i dirigenti sauditi nutrono il minimo dubbio sul fatto che il progresso impressionante del programma missilistico dei ribelli non possa esserse avvenuto senza l’addestramento e l’assistenza (consistente) dei suoi due benefattori. Non per caso, i responsabili sauditi hanno, prontamente e pubblicamente, collegato l’attacco direttamente all’Iran e agli Hezbollah, proclamando che si è trattato di un atto di guerra per il quale ritengono entrambi responsabili e al quale reagiranno.

La terza novità è stata la grande purga saudita nella quale più di dieci principi e una dozzina di uomini d’affari e di dirigenti di alto rango sono stati messi agli arresti domiciliari. Le grandi pulizie domestiche di bin Salman hanno tolto di mezzo ogni potenziale concorrente e sorgente di potere militare, politico, economico o legato ai media. Il che significa che Il principe saudita si è scagliato contro ogni tradizionale pilastro del regime. Rimarrebbe da chiedersi se, giovane e inesperto, non abbia sfidato troppi nemici nello stesso tempo, ma sembra che quel che manca in esperienza lo supplisca con l’ambizione e, per il momento, ha ottenuto quel che voleva: si è lasciato alle spalle anni di passività saudita e ha rimodellato a suo modo sia la politica interna che quella estera del regno, (innanzitutto) allo scopo di affrontare in maniera più efficace l’Iran.

Tutti e tre gli sviluppi vanno nella stessa direzione: quella una leadership Saudita sempre più rincuorata e risoluta, desiderosa di lavorare con gli Stati Uniti per contrastare la minaccia iraniana la cui portata si ritiene sia aumentata in relazione alle vicende in corso nello Yemen.

Per il Libano e la regione un vuoto di leadership nel contesto di tensioni crescenti non è una novità. Di nuovo c’è una insolitamente apprensiva Israele, una insolitamente assertiva leadership saudita e, naturalmente, un insolito presidente americano.

Sono mesi che in Israele risuona il campanello d’allarme sull’impronta crescente di Hezbollah e dell’Iran in Siria e, in particolare, sulla capacità che presto sarà acquisita dal movimento libanese di produrre localmente missili di precisione, uno sviluppo che i dirigenti israeliani considerano un potenziale “game changer” che devono ostacolare.

Per quel che riguarda la nuova leadership saudita, bin Salman è convinto che l’Iran per troppo tempo abbia trattato l’Arabia Saudita come un sacco da boxe e che l’Arabia Saudita per troppo tempo abbia lasciato fare. Bin Salman vede che Tehran possiede molto meno denaro, equipaggiamento militare, alleati internazionali potenti di Riyadh, eppure la vede in ascesa ed esercitare o espandere il proprio controllo su Baghdad, Damasco, Beirut e Saana; ritiene che soltanto con una reazione più forte e aggressiva (nello Yemen, in Iraq o in Libano) l’Arabia Saudita possa fermare l’Iran e ribaltare l’andazzo. E fin qui ha manifestato, dalle disavventure militari nello Yemen al passo falso diplomatico per cercare di isolare il Qatar, una maggiore propensione a farsi coinvolgere nelle crisi che a risolverle.

Infine, per quanto imprevedibile e incostante, il presidente Trump è stato coerente almeno in un aspetto, vale a dire nella belligeranza nei confronti dell’Iran che è diventata un segno distintivo della politica mediorientale della sua amministrazione. I responsabili americani menzionano spesso la sua disponibilità ad assumere un’iniziativa contro l’Iran per restaurare la credibilità e la deterrenza degli Stati Uniti che Trump ritiene il suo predecessore abbia compromesso. In questo, il suo approccio sembra essere tutt’uno con quello di quello del principe saudita: disdegna il confronto diplomatico con Teheran ed è persuaso della necessità di stabilire un nuovo equilibrio dei poteri. Il che lo rende più propenso ad incoraggiare gli istinti di bin  Salman che a controllarli.

Sono in pochi in Libano a credere che una guerra aperta sia imminente, poiché tutti e tre i protagonisti hanno più di una ragione per mantenere un certo “self-restraint”. La ragione per la quale Israele vorrebbe colpire duramente gli Hezbollah è la stessa che gli impedisce di farlo: la prospettiva di una salva di missili diretta verso i suoi centri urbani. Israele possiede una capacità di infliggere sofferenza enormemente superiore a quella degli Hezbollah, ma il partner dell’Iran possiede una capacità enormemente più grande di assorbirla, il che significa che qualunque operazione israeliana su larga scala rischia di avere un esito molto incerto. L’Arabia Saudita non ha la capacità di sfidare direttamente l’Iran con le armi e deve contemplare la minaccia di una rappresaglia iraniana sul suo territorio. E nel valutare l’opzione di colpire l’Iran o i suoi alleati, gli Stati Uniti devono prendere in considerazione la vicinanza ai militari americani della milizia sciita irachena sostenuta dall’Iran e la possibilità che possano riprendere gli attacchi alle proprie truppe.

Tuttavia i libanesi, sia quelli affiliati con Hezbollah sia gli altri, sembrano persuasi che una qualche forma di azione sia diventata inevitabile. L’attacco missilistico Houthis è stato troppo duro, gli avvertimenti sauditi troppo rabbiosi, l’ansia di Israele troppo grande e l’ostilità degli Stati Uniti verso l’Iran e gli Hezbollah troppo pronunciata perché le cose vadano diversamente. E si potrebbe aggiungere un elenco più ampio: l’amministrazione Trump ha chiamato in causa l’accordo nucleare iraniano e prende in considerazione di ampliare le sanzioni contro Teheran, il che accresce inutilmente la tensione, senza contare l’assenza di quel genere di contatti regolari di alto livello tra i due paesi che potrebbero smorzare le tensioni. Più in generale, per la stessa ragione per la quale è probabile che i suoi avversari passino all’azione, è verosimile che Iran ed Hezbollah reagiscano: entrambe le parti possono sperare di evitare un confronto serio ma nessuno può permettersi di ammetterlo. Resta allora da chiedersi se, in questo contesto, una azione limitata da una parte ed un’altra limitata reazione possano fermarsi lì o subire una escalation.

Da questo scenario manca ogni accenno alla diplomazia, tra l’Iran e l’Arabia Saudita, tra Iran e Stati Uniti, tra l’Arabia Saudita e gli Houthis. Invece, la regione fronteggia una sorta di libera tutti nel quale l’unico limite operativo di un’azione resta l’inquietudine su quel che può provocare. Il che non è rassicurante. In Libano, perciò, sembra che la gente sia incerta su chi possa prendere l’iniziativa per primo; su chi (se l’Iran o gli Hezbollah) possa essere il bersaglio; su quando e su dove (in Libano, in Siria o in Iran) possa accadere; e che cosa possa succedere. Ma tutti pare abbiano la sensazione che qualcosa dovrà succedere; e temono che di nuovo, inevitabilmente, sarà lo specchio libanese a finire in mille pezzi.

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