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Il succo del discorso di Trump

Le Nazioni Unite meritano certamente il nostro apprezzamento. Nonostante i loro difetti (lo stesso Obama aveva osservato che «questo organismo spesso diventata un forum per seminare zizzania anziché offrire un terreno comune; una sede per qualche giochetto politico e per sfruttare accuse e lamentele anziché risolvere i problemi» e aveva sostenuto che «la responsabilità e la leadership nel XXI secolo richiedono di più»).

Fondato nel 1945 sotto la guida americana dopo la sconfitta del Nazismo e del Giappone imperiale, l’Onu resta il pilastro centrale dell’ordine globale. Le Nazioni Unite sono, infatti, l’unico forum esistente in cui i rappresentanti di tutti gli Stati si possono radunare per cercare di affrontare le crisi e le sfide comuni.

Erano in parecchi a temere (giustamente) il primo intervento di Donald Trump all’assemblea generale annuale dell’organizzazione. «The Donald» è, dopotutto, il primo presidente americano della storia ad aver fatto dell’irrisione delle Nazioni Unite una specie di passatempo. Le sue opinioni sull’argomento spaziano dalla dichiarata ostilità alla crassa ignoranza. Questa volta si è trattato di un intervento scritto – non dei deliri di un cane sciolto il cui gusto per i tweet sconsiderati e le provocazioni dozzinali è diventata quasi una routine quotidiana; e tuttavia il suo è stato un intervento inquietante che verrà ricordato per il linguaggio sinistro.

In un discorso centrato sulla «sovranità», Trump ha deriso il giovane leader della Corea del Nord, Kim Jong-un dicendo che «Rocket man (il soprannome con cui Trump lo ha ribattezzato) è in missione suicida per sé stesso e per il suo regime» e ha minacciato di «distruggere completamente la Corea del Nord»; ha definito l’Iran «una dittatura corrotta» la cui «esportazione principale è la violenza, lo spargimento di sangue ed il caos»; ha detto che il governo del Venezuela «ha inflitto dolore e sofferenze terribili alla gente del proprio paese».

Va da sé che si tratta di critiche che non sono lontane dal vero – i gruppi per i diritti umani hanno menzionato costantemente l’Iran per il suo pessima reputazione in merito ai diritti umani; il Venezuela con Nicolas Maduro è caduto in una dittatura di fatto, ecc. – il linguaggio che il presidente americano ha usato per esprimere le sue osservazioni è stato criticato anche dagli alleati degli Stati Uniti. «È stato il discorso sbagliato, al momento sbagliato, nel posto sbagliato», ha detto il ministro degli esteri svedese Margot Wallstrom alla BBC. Inoltre, i rilievi di Trump hanno dato a paesi come l’Iran l’opportunità di criticare gli Stati Uniti in un simposio internazionale e trovare comprensione.

Trump ha definito l’intesa nucleare del 2015 “il peggiore accordo di sempre”, un segnale che sta a significare che probabilmente è pronto per uscirne, o che vuole essere certo che sia l’Iran (provocato a sufficienza) a farlo. A ben guardare, la Casa Bianca avrebbe potuto appellarsi direttamente al popolo iraniano, offrendogli un “nuovo inizio” nella relazione tra le due nazioni, ma il presidente americano non ha mostrato il minimo interesse per i valori democratici fondamentali.

Senza contare che i toni del suo discorso avranno fatto riflettere più di qualcuno anche a Teheran sull’opportunità di rispettare davvero gli impegni nucleari.

Inoltre, come ha dimostrato il voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu della scorsa settimana che ha sanzionato la Corea del Nord, c’è un ampio consenso internazionale sui pericoli che presenta il comportamento di Pyongyang. Ma sull’Iran, il presidente Trump rischia di trovarsi in una situazione di isolamento, con gli alleati europei che hanno già fatto capire di voler rispettare l’intesa del 2015. Se l’America si ritira dall’accordo, provocherà l’indignazione delle altre potenze che sono parte dell’accordo – Francia, Regno Unito, Germania, Russia e Cina – e darà all’Iran una scusa per riprendere con un programma nucleare in piena regola. Perché Trump voglia rischiare una simile eventualità proprio mentre il programma della Corea del Nord è una preoccupazione a tempo pieno, resta davvero un mistero.

Il presidente degli Stati Uniti senza dubbio si rivolge alla propria base elettorale più di quanto si indirizzi all’audience internazionale. E l’enfasi sulle «nazioni forti, sovrane, indipendenti», anziché sul corpo dei valori universali che le Nazioni Unite sono tenute a difendere, ha messo in mostra l’ideologia nazionalista che ha abbracciato.

Il presidente Trump vuole che le Nazioni Unite facciano pressioni sulla Corea del Nord e sull’Iran, ma non ha chiarito quale sia la sua strategia. Minacciare e mettersi in mostra sono soltanto spacconate, non una politica. La crisi richiede un’abilità che la amministrazione Trump non ha fin qui dimostrato. Chiede il sostegno degli alleati, ma sembra dimenticare che la mancanza di credibilità personale è un ostacolo alla cooperazione internazionale.

L’approccio resta quello della «America First», in base al quale gli Stati Uniti interverranno a livello internazionale solo qualora i loro diretti interessi e la loro sicurezza fossero in pericolo. Un approccio che va contro il multilateralismo delle Nazioni Unite. Il suo credo può essere riassunto dalla rivendicazione che sono le nazioni che agiscono nel loro interesse a creare un mondo più stabile. Ma resta la domanda: sotto quali regole opereranno gli Stati? Non quelle delle Nazioni Unite, sembra voler dire Trump.

Quel che infatti rende le critiche di Trump diverse dal passato, è proprio il mutamento nei toni e nei contenuti di quel che ha detto all’Assemblea generale dell’Onu. E il succo di quel che ha detto è che la «sovranità» è l’elemento più importante dell’ordine globale.

«Non vogliamo più imporre il nostro stile di vita a nessuno, ma piuttosto farlo brillare come un esempio per tutti», ha detto Trump. Ed ha aggiunto: «Nazioni forti e sovrane consentono a paesi diversi con diversi valori, diverse culture, non solo di coesistere, ma di lavorare fianco a fianco sulla base del mutuo rispetto». In altre parole, come ha riassunto Uri Friedman sull’Atlantic, «le sfide contemporanee, ha detto ai leader mondiali radunati a New York, vengono affrontate meglio da stati egoisti che lavorano insieme quando e dove i loro interessi si sovrappongono».

Il che segna una presa di distanza da come la politica estera è stata condotta dai paesi occidentali dalla fine della seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti e i loro alleati sono intervenuti per fermare le crisi umanitarie in diverse parti del mondo.

La cosa non è passata inosservata. Il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha detto all’Associated Press che il messaggio di Trump è stato: «gli Stati Uniti non imporranno il proprio stile di vita agli altri». «Penso sia una dichiarazione benvenuta – ha detto – che non sentiamo da un leader americano da parecchio tempo».

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