IN PRIMO PIANO

Mission Impossible

Ieri, nel suo primo discorso articolato sulla politica estera, dopo tanti indizi contraddittori sparsi lungo il percorso elettorale, Donald Trump ha detto che «America First (l’America prima di tutto) sarà il tema principale della sua amministrazione» e che il suo obiettivo sarà quello di «togliere la ruggine» a una politica estera che ha fallito. Vi segnalo, a questo proposito, un libro che ho appena letto e che sarà sicuramente piaciuto a Trump (e certamente anche ad Obama). Si intitola «Mission Failure: America and the World in the Post-Cold War Era» e lo ha scritto Michael Mandelbaum, il direttore dell’American Foreign Policy program alla Johns Hopkins University.

È un saggio che è destinato a diventare il libro dell’anno (di politica estera, s’intende) e che, oltre ai candidati alla presidenza degli Stati Uniti, anche i politici e gli opinionisti di casa nostra dovrebbero assolutamente leggere. Perché? Perché l’autore sostiene che gli ultimi decenni della politica estera americana sono stati un’aberrazione, una deviazione dalla norma. Un periodo in cui l’America è diventata così straordinariamente potente rispetto a qualunque rivale, che ha finito per prendersi una sbronza geopolitica che l’ha portata a dismettere l’abito del poliziotto che si limita a difendere da attacchi e pericoli il proprio paese, per indossare i panni dell’assistente sociale, dell’architetto e del carpentiere che si preoccupa del nation-building altrove. Il tutto è stato fatto con le migliori intenzioni e in qualche caso ha salvato davvero delle vite. Ma nessuno degli sforzi profusi dagli americani in questi anni, ha ottenuto quel tipo di ordine democratico in grado di reggersi da solo che era nei loro obiettivi. Il che spiega perché il presidente attuale non ne voglia più sapere di questo approccio. E spiega anche perché il presidente che verrà, chiunque sia, non si discosterà molto dall’orientamento di Obama. Che poi l’America possa davvero appendere le scarpe al chiodo, come si è chiesto Thomas Friedman (che con Michael Mandelbaum ha scritto un libro a quattro mani nel 2011, «That Used to Be Us: How America Fell Behind in the World It Invented and How We Can Come Back») sul New York Times, è un altro paio di maniche. Ma andiamo per ordine.

Dal 1991, e cioè dalla decisione della prima amministrazione Bush di intervenire nell’Iraq settentrionale e creare una no-fly zone per proteggere i curdi iracheni da Saddam Hussein (il leader del loro paese, che si era dedicato al metodico sterminio di un intero gruppo etnico), «le principali iniziative internazionali degli Stati Uniti» per i due decenni successivi «hanno riguardato la politica e l’economia interna anziché il comportamento esterno degli altri paesi», scrive Mandelbaum. «Il fulcro principale della politica estera americana si è spostato dalla guerra alla governance, da quel che gli atri governi facevano al di là dei loro confini, a quel che facevano e a come erano organizzati al loro interno» prosegue Mandelbaum, riferendosi alle operazioni americane in Somalia, Haiti, Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan e nei confronti della politica cinese dei diritti umani, la democratizzazione russa, l’allargamento della Nato e il processo di pace israelo-palestinese. «Gli Stati Uniti dopo la Guerra Fredda sono diventati l’equivalente di una persona molto ricca, una specie di multimiliardario tra le nazioni», sostiene l’autore. «Hanno abbandonato il regno della necessità nel quali sono vissuti durante la Guerra Fredda e sono entrati nel mondo delle possibilità. E hanno scelto di spendere una parte delle loro ampie riserve di potere nell’equivalente geopolitico dei beni di lusso; per rifare altri paesi». In ciascuno di questi casi, «gli Stati Uniti hanno cercato di modellare la governance interna dei paesi con i quali si sono impelagati in modo simile al loro ordine democratico costituzionale e a quello dei loro alleati occidentali», aggiunge Mandelbaum. «Nel corso della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno puntato al contenimento; nel post-Guerra Fredda (il succo) era il cambiamento. La Guerra Fredda implicava la difesa dell’Occidente; la politica estera post-Guerra Fredda aspirava all’estensione politica e ideologica dell’Occidente».

Queste missioni, osserva lo studioso, sono tutto mirate «a convertire non semplici individui ma interi paesi», e hanno tutte un’altra cose in comune: «hanno tutte fallito». Mandelbaum, ovviamente, non vuole essere frainteso. É fuori dubbio che gli Stati Uniti hanno respinto diversi pessimi soggetti in Bosnia, Somalia, Kosovo, Iraq e Afghanistan e dopo in Libia. «Le missioni militari che gli Stati Uniti hanno intrapreso hanno avuto successo. Sono state le missioni politiche che sono seguite, gli sforzi per trasformare le politiche dei luoghi dove le forze armate americane hanno avuto la meglio, che sono fallite». Perché? Per la semplice ragione che il successo politico non poteva dipendere dagli americani, non era nelle loro mani. Trasformazioni normative di questa natura possono avvenire solo dall’interno, dalla volontà dei soggetti locali di cambiare le abitudini assimilate da tempo, superare inimicizie antiche o restaurare tradizioni politiche perdute da tempo. In ciascuno di questi casi, sostiene Mandelbaum, il cambiamento politico «spettava a loro – e loro non erano in grado di determinarlo».

Anche Thomas Friedman, che ha sostenuto una di queste iniziative, l’Iraq, proprio nella speranza che potesse determinare una trasformazione, trova difficile contestare la conclusione di Mandelbaum. Ma trova che questa conclusione ponga parecchie domande. Una su tutte: chi manterrà l’ordine in questi luoghi? In epoche storiche precedenti, il mondo poteva contare su poteri imperiali in grado di intervenire e controllare aree di debole governance, come hanno fatto gli Ottomani per 500 anni nel Medio Oriente. Poi ha contato sulle potenze coloniali. Poi per mantenere l’ordine ha scommesso su re, colonnelli e dittatori cresciuti in casa. Ma ora che siamo in un’epoca post-imperiale, post-coloniale e post-autoritaria, si chiede il columnist del New York Times, che si fa? I re, i colonnelli e i dittatori di un tempo non avevano a che fare con cittadini «potenziati» e continuamente connessi tra loro e con il mondo con gli smartphone. I vecchi autocrati avevano anche ampie risorse di petrolio o aiuti dalle superpotenze durante la Guerra Fredda per «persuadere» la loro gente. E se adesso hanno a che fare invece con l’incremento della popolazione, proventi del petrolio in diminuzione e non possono più «comprare» il consenso del loro popolo e neppure zittirlo? Certo, c’è una sola opzione: più governo condiviso e un patto sociale tra cittadini eguali. Ma questo ci riporta alle argomentazioni di Mandelbaum: che succede se dipende da loro e loro non sono all’altezza, non ce la fanno, e il risultato è il crescente disordine e sempre più gente in fuga verso il mondo ordinato dell’Europa e del Nord America?

Se le cose stanno così, dobbiamo trovare un modo per aiutarli ad un costo che ci possiamo permettere. Anche se non sappiamo ancora come. Questa sarà una delle più grandi questioni di politica estera che il nuovo presidente americano dovrà affrontare. Assieme a noi, s’intende. Posto che quella cosa chiamata Unione europea, si decida a battere un colpo. Ecco perché questo è un libro che vale la pena di leggere.

You may also like
L’Europa sotto pressione
«Il governo della folla è la tirannia delle masse. Una lezione di Lincoln» – Il Foglio, 9 agosto 2019
Maran: “La politica deve svegliarsi. Va colta l’occasione della Pipistrel” – Il Piccolo, 29 marzo 2022