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La dottrina Obama

Ormai, a sostenere il presidente Obama (a parte Giorgio Tonini e il sottoscritto: LIBERTÀeguale Magazine, 7 gennaio 2016 – Usa: la politica estera che ha cuore l’ordine liberale) non siamo rimasti in molti. Anche la recente intervista di Jeffrey Goldberg sull’Atlantic con Barack Obama ha suscitato uno tsunami di critiche, che prendono di mira la combinazione di avversione al rischio e parole ispirate. Sono in parecchi, si sa, anche in Europa e non solo in Medio Oriente, ad aborrire la prima (in Europa, di solito, solo a chiacchiere) e a disprezzare le seconde.

Eppure, l’intervista va letta e riletta. Si tratta di un ritratto straordinario di Barack Obama alle prese con le questioni angoscianti della pace e della guerra. The Atlantic offre un resoconto unico e memorabile (ci sono volute molte ore di colloqui in profondità insolitamente schietti) della visione del mondo del presidente Obama, nel quale il presidente spiega le sue decisioni più difficili circa il ruolo dell’America nel mondo (The Obama Doctrine). 

Per questa storia di copertina il corrispondente nazionale dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg, ha intervistato il presidente Obama alla Casa Bianca, a bordo dell’Air Force One e in Malesia, ed ha parlato con molti dei suoi attuali consiglieri per la politica estera e la sicurezza nazionale e con parecchi dei loro predecessori; e per 19 pagine – il più lungo articolo che The Atlantic abbia pubblicato in più di un decennio – spiega le decisioni di Obama sulle più importanti vicende internazionali della nostra storia recente: dalla mancata applicazione della «red line» in Siria – che Obama presenta come «la decisione più tosta che ho preso – e credo che alla fine fosse la decisone giusta da prendere», fino all’intesa sul nucleare con l’Iran, alla minaccia dell’ISIS, allo «shit show» della Libia, alla Russia e all’Ucraina.

Nell’intervista, Obama esprime valutazioni, spesso brutalmente sincere, sull’intrattabile tribalismo del Medio Oriente, dicendo che l’Arabia Saudita ha bisogno di «condividere» il circondario, suo il «quartiere», con l’Iran; sui limiti degli alleati dell’America che agiscono, sostiene Obama, come degli «scrocconi»; e sull’Ucraina che Obama ritiene non sia un interesse centrale degli Stati Uniti e sarà sempre vulnerabile alla dominazione russa; e rammenta che, rifiutandosi di sostenere guerre non necessarie, che non si possono vincere, negli stati «disgregati» del Medio Oriente, sta preservando e incrementando il potere degli Usa, non riducendolo.

Il presidente Barack Obama ritiene che quella che molti inviati di politica estera considerano una delle pagine peggiori della sua presidenza – la decisione di non bombardare la Siria nell’estate del 2013 dopo che Bashar al-Assad aveva violato la «red line» sull’uso delle armi chimiche – sia stato uno dei suoi momenti migliori: la presa di distanza più drastica da quello che Obama ha definito il «Washington playbook». Nel football americano, il playbook è il libretto con le strategie e gli schemi di gioco; per capirci, una sorta di manuale. «C’è un manuale a Washington che si suppone che i presidenti debbano seguire – spiega Obama -, ed il manuale prescrive le risposte alle diverse situazioni, e queste risposte tendono ad essere risposte militari. Dove l’America è direttamente minacciata, il manuale funziona. Ma il manuale può anche rivelarsi una trappola che può condurre a cattive decisioni. Nel mezzo di una sfida internazionale come quella in Siria, se non segui il manuale finisci per essere giudicato severamente, anche se ci sono buone ragioni per non applicarlo».

Obama era alle prese con due necessità contrastanti. In primo luogo, era determinato a scoraggiare l’uso di armi di distruzione di massa, fiducioso dell’importanza di promuovere un ordine internazionale basato sulle regole. La priorità per Obama è quella di proteggere i beni comuni globali dalle minacce del terrorismo, delle pandemie, del cambiamento climatico e dalla proliferazione di armi di distruzione di massa. E tutto ciò, per il presidente americano, ha la precedenza sul ritorno alla competizione geopolitica con potenze revisioniste come la Russia, la Cina o l’Iran. L’accordo sul cambiamento climatico di Parigi, l’eliminazione della minaccia del virus Ebola, l’accordo sul nucleare con l’Iran e la guerra contro l’ISIS derivano tutte dal trasferimento dell’attenzione di Obama dalle minacce regionali a quelle globali. Dimostrando capacità diplomatica, mobilitando la comunità internazionale a sostegno di sanzioni efficaci e applicando la forza dove necessario, è riuscito a proteggere gli interessi americani e a promuovere un ordine internazionale al servizio della comunità globale. La seconda necessità per il presidente americano, parecchio più controversa, era quella di non farsi coinvolgere in una nuova guerra in Medio Oriente, una regione dove egli ritiene che gli interessi americani dovrebbero essere ridimensionati. In questa visione, l’attuale saturazione del mercato del petrolio ed il conseguimento dell’indipendenza energetica da parte dell’America rendono la protezione delle riserve di petrolio del Medio Oriente ed il mantenimento della libera circolazione del petrolio del Golfo a prezzi ragionevoli, importante ma non più vitale per gli interessi USA. Le prolungate campagne militari in Iraq e in Afghanistan sono costate agli Stati Uniti una gran quantità di sangue e di denaro, con risultati piuttosto scarsi. Come Obama dice a Goldberg, la Libia si è rivelata un caos anche a causa della totale chiusura del tribalismo, e gli Stati Uniti possono fare ben poco per superarlo. Oltretutto, la Guerra Fredda è finita, riducendo in modo significativo la necessità strategica di contrastare l’intervento russo a sostegno del regime di Assad, il quale, in ogni caso, è sempre stato un «cliente» russo. Nella sua intervista con Goldberg, Obama sostiene che l’operazione militare di Vladimir Putin è stata avviata «ad un costo enorme per il benessere del suo stesso paese». In breve, ritiene che la Russia può aver beneficiato di alcuni vantaggi di breve periodo che pagherà però con sofferenze di più lungo periodo.

Inoltre, la sua visione negativa di un coinvolgimento americano nel Medio Oriente rafforza e giustifica un terzo imperativo: quello del «pivot», del perno, che dal Medio Oriente si sposta verso l’Asia. E ciò deriva dal riconoscimento che l’ascesa della Cina e dell’India come le due più importanti potenze del XXI secolo implica che Stati Uniti devono rivolgere lì la loro l’attenzione. Sostenuta dall’accordo trans-pacifico di cooperazione economica (Trans-Pacific Partnership), dallo spiegamento di forze e dal rafforzamento delle alleanze per contrastare l’assertività cinese nei Mar Cinese meridionale e in quello orientale, l’azione di riequilibrio da parte di Obama delle priorità di politica estera si rivelerà probabilmente il più importante cambiamento di strategia dall’apertura di Nixon alla Cina.

Certo, la determinazione del presidente di evitare il coinvolgimento militare americano nel Medio Oriente ha anche altre conseguenze. Obama deve rinunciare al ruolo americano di potenza dominante, responsabile del mantenimento dell’ordine in una regione molto travagliata. Un ruolo che gli Usa hanno ricoperto per più di cinquanta anni. Si lamenta che la preferenza di Obama per un traguardo globale rispetto ad uno regionale ha creato un varco per Putin. Ma per il presidente è un esito perfino benvenuto: se Puntin vuole assumere il ruolo di restaurare l’ordine in una regione caotica, lasciamolo fare.  Obama è convinto che anche Putin sia destinato a fallire. Quanto alla fragile tregua siriana resa possibile dalla cooperazione russo-americana, se dovesse reggere, il presidente potrà ridurre una delle conseguenze collaterali più preoccupanti della sua dottrina: le sofferenze del popolo siriano.

Obama si è soffermato anche sulle responsabilità dell’Europa per lo «shit show» in Libia. Obama rimprovera (solo in parte) Gran Bretagna e Francia per aver perso la Libia (che ha definito, appunto, uno «shit show», quel che noi diremmo «un gran casino»). «Quando ci torno su e mi chiedo che cosa è andato storto – dice Obama – c’è spazio per le critiche, perché avevo più fiducia negli europei che, vista la vicinanza con la Libia, erano investiti del «follow-up», della prosecuzione». Toccava all’Europa, chiaro? Già, l’Europa. Oggi, nelle sue comunicazioni alla Camera alla vigilia del vertice europeo del 17 e 18 marzo 2016, Matteo Renzi ha detto:«Il Consiglio europeo si riunisce, di nuovo, per la terza volta in un mese: già questo è un segnale che qualcosa non va, direi, innanzitutto, nel metodo, prima ancora che nel merito. Il Consiglio europeo è abituato a prendere delle decisioni che devono essere, poi, eseguite: ciò non sta accadendo. Non sta accadendo sui temi della migrazione e, ahimè, non sta accadendo anche in altri settori, forse, meno visibili della vita quotidiana delle nostre istituzioni europee. Questo pone evidentemente una grande questione, che l’Italia ha sottolineato ed evidenziato sia in sede di Consiglio che nei lavori preparatori (…) É del tutto evidente che la ripetizione degli argomenti provoca anche in noi un senso di ripetizione e ripetitività delle questioni che vanno all’attenzione e all’ordine del giorno del lavoro»,  ha spiegato il premier che poi ha citato ‘Canzone quasi d’amore’ di Francesco Guccini: «Non starò più a cercare parole che non trovo per dirti cose vecchie con il vestito nuovo».  Cambiare l’Europa «richiede determinazione, energia e tenacia». E bisogna rimboccarsi le maniche. Ce lo ha detto (e ripetuto) anche Obama.

 

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