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L’Europa sotto pressione

Il Presidente del Consiglio ha reso mercoledì al Senato comunicazioni in vista del Consiglio del 18 e 19 febbraio.

L’Europa, lo sappiamo, attraversa una crisi grave, forse la più grave, delle sue istituzioni. Una crisi non solo monetaria ma politica. A quasi sessant’anni dal trattato di Roma, sono in ballo le stesse ragioni dell’Unione, che è alle prese con la possibile uscita della Gran Bretagna con il referendum; con lo scontro sulle regole salva-banche («Noi metteremo il veto su qualsiasi tentativo che vuole andare a dare un tetto alla presenza di titoli di stato nei portafogli delle banche», ha detto ieri Matteo Renzi nel suo intervento); con la disdetta di Schengen dei paesi del Nord e il pericolo di trasformarlo in un club di pochi eletti; con l’emergenza immigrazione e i fondi per il controllo dei profughi dalla Turchia che fanno vacillare la Merkel; con l’ipotesi, cara all’asse franco-tedesco, di un ministro delle Finanze europeo, benedetta dal presidente della Bce Mario Draghi, primo passo per un nuovo trattato, ecc (Renzi gela Berlino «Italia pronta al veto sul tetto ai titoli di Stato»).

In questo quadro drammatico, con lo spread che torna di nuovo a salire, il sondaggio Eurobarometre rivela che l’opinione pubblica italiana guarda all’Europa con crescente distacco: nel nostro Paese, il sentimento di apparteneza all’Europa è ormai il più debole di tutta l’Unione e il sostegno all’euro, per debolezza, è al secondo posto dopo Cipro. É in questo quadro, che si sviluppa l’offensiva mediatica del premier, ed è in questo quadro che Claudio Cerasa nei giorni scorsi si è chiesto sul Foglio: ha un senso e un obiettivo la battaglia del presidente del Consiglio in Europa?

(«L’Europa pasticcia ma i vincoli che tengono legata l’Italia, caro Renzi, riguardano l’Italia, non l’Europa», 15 febbraio 2016).

Secondo Claudio Cerasa non è detto che il metodo adottato da Renzi per raggiungere i suoi obiettivi sia quello giusto (ieri il premier è stato anche protagonista di un botta e risposta con l’ex capo del governo Mario Monti che, nel suo intervento, ha espresso forti riserve sull’operato di Renzi in Europa), ma la battaglia di Matteo Renzi in Europa ha un senso (eccome se ce l’ha, scrive Cerasa), e il suo obiettivo è evidente: ottenere qualcosa in più per il nostro Paese e provare a beneficiare della stessa generosità che è stata concessa negli ultimi anni a paesi come la Spagna e come la Francia. Ma, sostiene il direttore del Foglio, – ed è la terza questione, forse la più importante, che pone – hanno un senso anche le critiche che l’Europa, più o meno velatamente, rivolge al presidente del Consiglio italiano. «Su alcuni temi – scrive Cerasa – l’Europa ha ragione. Chiedere maggiore flessibilità, come fa Renzi, senza abbattere il debito pubblico e senza ridurre la spesa corrente è una scelta legittima, naturalmente, ma presenta dei punti di debolezza. Renzi ripete spesso di fronte alle critiche europee (soprattutto quelle del Ppe) che l’Italia ha fatto i compiti a casa e che il nostro paese non ha bisogno di prendere lezioni da nessuno. Eppure qualche lezione l’Italia dovrebbe ancora prenderla. Potrebbe prendere appunti dall’Inghilterra su come si mette in moto un sano meccanismo di spending review. E potrebbe ricordarsi che c’è una ragione precisa se l’Italia, in Europa, è uno dei paesi che cresce di meno. Senza liberalizzazioni forti, senza tasse tagliate, senza aumentare la spesa, senza risparmi potenti nella macchina pubblica è naturale che l’Italia sia ancora incatenata. E dunque Renzi fa bene a fare la sua battaglia in Europa, e probabilmente riuscirà anche a vincerla. Ma c’è un errore che il presidente del Consiglio deve evitare con attenzione: l’errore di scaricare sull’Europa le responsabilità dei problemi dell’Italia. Fino a quando si parla di immigrazione, Renzi ha pienamente ragione. Se si parla di economia, prima degli errori e dei limiti europei, ci sono i limiti e gli errori dell’Italia. In due anni di governo il presidente del Consiglio ha ottenuto molti risultati, soprattutto dal punto di vista istituzionale, e in virtù di queste riforme è comprensibile chiedere un cambio di passo all’Europa (la riforma elettorale e la riforma del bicameralismo sono temi considerati da anni in Europa cruciali per rendere il nostro paese più maturo e funzionale). Ma prima che da Juncker il cambio di passo vero, sull’economia, il presidente del Consiglio forse dovrebbe chiederlo al capo del governo italiano. Il momento per il cambio di passo è questo. Nemici politici non ci sono. Il Parlamento, pur di arrivare al 2018, sarebbe disposto ad approvare qualsiasi cosa (il Senato ha persino votato l’abolizione del Senato). Renzi, nonostante i dati economici non esaltanti, ha ancora il vento in poppa. L’Europa può cambiare verso, naturalmente. Ma prima di scaricare le colpe sui vincoli dell’Europa forse è arrivato il momento di capire quali sono i vincoli che spesso non permettono al governo di correre come forse potrebbe”.

Cerasa ha ragione. Non per caso, nell’appello che abbiamo pubblicato sul Foglio all’inizio dell’anno, di nodi da affrontare ne abbiamo indicato più d’uno (Il Foglio, 12 gennaio 2016 – La svolta buona che ora serve al governo (e all’Italia). Appello a Renzi). E non sarebbe male tornarci su. Segnalo, a questo proposito, l’intervento introduttivo del Presidente della BCE, Mario Draghi, all’audizione presso il Comitato per gli Affari economici e monetari del Parlamento europeo che si è tenuta lunedì scorso a Bruxelles (Introductory speech ECB President Mario Draghi ).

É il caso di tornare anche su un’altra questione cruciale. C’è una massima attribuita a Trotsky: «Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te». In altre parole, per quanto ci si possa disinteressare delle dinamiche conflittuali vicine e lontane, queste finiscono prima o poi per riguardarci direttamente, in particolare nel mondo di oggi. Non per caso, i flussi migratori, la situazione in Siria e in Libia, sono questioni all’ordine del giorno del Consiglio europeo. Solo qualche giorno fa, Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della Sera, osservava:«In Italia, pare, non abbiamo ancora compreso che cosa significhi, per la nostra sicurezza, il declino politico-militare degli Stati Uniti, la loro perdita di influenza in Medio Oriente (e non soltanto). Un declino che, a giudicare dai primi risultati delle primarie presidenziali, potrebbe anche approfondirsi: i due candidati che al momento spopolano nelle primarie democratiche e repubblicane, Sanders e Trump, sono entrambi protezionisti e isolazionisti». Ovviamente, Sanders e Trump potrebbero anche cambiare idea, la storia propone continui rivolgimenti. Proprio George W. Bush fu costretto dalla storia all’interventismo e a rivoluzionare la politica estera americana, ma quello che scrive Panebianco è sacrosanto: noi italiani «dal dopoguerra in poi ci siamo abituati a dipendere per la nostra sicurezza dall’America. Il vantaggio è la protezione di cui abbiamo goduto. Lo svantaggio è che non siamo stati in grado di sviluppare una adeguata «cultura della sicurezza»: assomigliamo a quei ragazzini che, avendo avuto genitori troppo protettivi, non sono capaci di cavarsela da soli. Anche i «buoni sentimenti» pacifisti che abbiamo sviluppato (non solo la sanissima idea che bisogna fare di tutto per evitare le guerre ma anche l’idea malata che non ci si debba attrezzare per difendersi) sono un lusso che ci siamo potuti permettere grazie a quella protezione».

Questo è il problema sul quale sono tornato in diverse occasioni. (LIBERTÀeguale Magazine, 7 gennaio 2016 – Usa: la politica estera che ha cuore l’ordine liberale; Formiche.net, 4 gennaio 2016 – Che cosa accomuna l’Isis al comunismo; l’Unità, 29 dicembre 2015 – Aspettando Godot, per un’unità significativa dell’Europa;Formiche.net, 15 dicembre 2015 – Guerra ISIS, l’America post Obama e l’Europa stile Godot;Il Foglio, 1 dicembre 2015 – Non è la povertà che uccide, ma la pedagogia dell’intolleranza;LIBERTÀeguale Magazine, 17 novembre 2015 – Fuori dalla Ue non c’è una “terra di latte e miele” ). Ma all’orizzonte non si vede un’Europa in grado di provvedere alla nostra sicurezza. Eppure, scrive Panebianco, «ciò che accade intorno a noi, dovrebbe convincerci di quanto inconsistenti siano le giaculatorie sulla necessità di una «Europa politica», la quale, come è noto, viene sempre evocata solo quando si parla di euro e di banche. Si dimentica che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni. Sono sempre state guerre e minacce geopolitiche a innescarle» (Noi in Libia saremo mai pronti?). Incrociamo le dita. Il giorno dopo l’incontro in California dei leader dei dieci paesi dell’Asia sudorientale riuniti nell’Asean, le mmagini satellitari hanno mostrato due batterie di missili terra-aria e un sistema radar che i cinesi avrebbero istallato nell’isola di Woody, arcipelago conteso delle Paracel, rivendicata da Cina, Taiwan e Vietnam (Chinese Missiles Underscore Growing Risk of Conflict).

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