Il vicepresidente dei deputati: puntare sulle riforme. Sicurezza? Sei corpi di polizia sono troppi
Il Cavaliere è un combattente, la campagna acquisti è ricominciata a Montecitorio, e il ”d-day” del 14 dicembre è ancora lontano: Alessandro Maran, il vicepresidente (goriziano) dei deputati del Pd, non azzarda pronostici sulla crisi politica. Ma azzarda, eccome, un ”giudizio” sul suo partito. E, nei giorni in cui riparte l’offensiva della minoranza interna di cui fa parte, invoca un drastico cambio di rotta: «Il Pd, nonostante il crollo del Pdl, non avanza. Il motivo? Anziché adeguarsi a una società che cambia, cogliendo la sfida riformista, si limita a coltivare il recinto della vecchia sinistra».
Il voto anticipato sembra avvicinarsi. Ma il Pd è in difficoltà: come trovare la bussola?
Berlusconi ha vinto perché ha promesso un’ipotesi credibile di cambiamento. Ha governato per otto degli ultimi dieci anni. Ma il cambiamento non c’è stato: l’Italia è il fanalino di coda delle economie mondiali. E ora, con 100 deputati e 50 senatori in più, la maggioranza invoca le elezioni anticipate. Berlusconi, lo ripeto, non è stato e non è in grado di realizzare il cambiamento: qui c’è lo spazio per l’iniziativa del Pd. Qui deve intervenire la nostra sfida riformista.
Come?
Sulle cose da fare per cambiare il paese. Un solo esempio: la sicurezza. Ad aver paura, a sentirsi minacciati, sono i più deboli, i più diseguali. Per tentare di dare loro una risposta, lo Stato italiano spende più degli altri in Europa ma ottiene molto meno. Cosa aspettiamo a dire che sei diversi corpi di polizia sono troppi? Che ne bastano due: uno per il controllo del territorio e un altro, “federale”, cui affidare il contrasto alla grande criminalità?
In queste ore, però, il Pd si dedica più alla debacle di Milano che al programma. Qual è stato l’errore principale alle primarie?
Il Pd non è stato in grado di convincere l’area riformista delle ragioni che lo hanno indotto ad avversare la candidatura di Pisapia e a scoraggiare la frammentazione delle candidature.
E adesso? Le primarie, dopo Vendola, Renzi e Pisapia, vanno messe in discussione?
Macché. Si possono migliorare. Ma le primarie restano la procedura più democratica, più mobilitante, più democratica della negoziazione di vertice con le altre forze politiche per scegliere un candidato comune. Senza contare che consentono di restituire legittimazione alla politica.
La minoranza democratica del Pd ha ripreso l’iniziativa: martedì, a Roma, c’è stato un incontro e il 26 ci sarà una convention. Qual è l’obiettivo?
Ci proponiamo di rafforzare il consenso al Pd e il suo pluralismo, rilanciando il suo progetto originario di innovazione e riformismo. Il Pd non può essere un posto in cui si entra, si esce, si resta in attesa di uscire. Deve essere un posto in cui si può dire, semplicemente: sono in minoranza e mi batto per le mie idee.
Cosa rimproverate a Pierluigi Bersani?
Il cuore della politica di Bersani sono tornate ad essere le alleanze. Il che rende il partito fatalista sulle sue possibilità. Il Pd non solo non è capace di adeguarsi alla società che sta cambiando radicalmente, ma sta evitando di farlo, limitandosi a coltivare il recinto della vecchia sinistra. Ma per dare forza al partito c’è un solo modo: provare a metterci in contatto col mondo di oggi.
I distinguo principali, però, riguardano le alleanze. Giusto aprire al terzo polo per battere Berlusconi?
È da quest’estate che parliamo di tattica. Di Fini, Casini, Vendola. Di improbabili Cln di tutti quelli che sono contro Berlusconi. Ma così abbiamo oscurato l’obiettivo strategico: cambiare l’Italia con un progetto serio. È chiaro che questo produce la debolezza del nostro rapporto con il paese. Noi vogliamo rivoltare l’Italia come un calzino ed essere percepiti come un partito capace di farlo.
E le alleanze?
Verranno dopo. Se mentre il Pdl dà clamorosi segni di cedimento, il Pd resta ben al di sotto del 30%, ciò significa che l’elettore deluso dal centrodestra, quando guarda a noi, non vede le promesse e le premesse del cambiamento desiderato.
Teme una fuga di ex popolari e moderati del Pd verso il terzo polo, a Roma come in Friuli Venezia Giulia, dove Gianfranco Moretton preparerebbe già le valigie?
Se si esclude che in futuro le preferenze degli elettori possano cambiare, se si dice che l’Italia è un paese di destra e che l’unica strategia perseguibile è quella della creazione di un centro indipendente con il quale il Pd possa allearsi, è così strano che chi al centro c’era già, pensi di tornarci?
Il 14 dicembre ci sarà il ”d-day” di Berlusconi. Crede che la Cameragli voterà la sfiducia? O che il Pdl riuscirà a ”convincere” 7-8 deputati?
Chissà. Il Cavaliere non ha nessuna intenzione di mettersi da parte. E un mese è lungo…
In caso di sfiducia, le elezioni sono inevitabili? O il governo tecnico ha ancora qualche chance?
Che l’esito più probabile della crisi sia il voto, lo pensano in molti. Credo però che l’aggravarsi delle difficoltà economiche nell’area dell’euro potrebbero diventare un argomento politico contro le elezioni a breve termine. E magari per l’adozione di un “modello Ciampi” del 1993 per uscire dal pantano.
In caso di elezioni anticipate, ammesso che finisca così, non c’è il rischio che Berlusconi rivinca, magari solo alla Camera?
La leadership di Berlusconi è ormai al tramonto. Fini, in fondo, è il terminale di uno stato d’animo diffuso nel centrodestra che si può riassumere con una domanda: «E se facessimo a meno del Cavaliere che tanti problemi ci pone?».