Category : GIORNALI2008

GIORNALI2008

Il Piccolo, 18 settembre 2008 – Slovenia e radici europee

Una riflessione sulle ragioni per cui possiamo definirci europei.

piccolo180908.doc

Leggi Tutto
GIORNALI2008

Il Piccolo, 18 settembre 2008 – Slovenia e radici europee

Ora che la crisi georgiana è forse superata (almeno nei suoi aspetti militari), l’Europa, che ha rifiutato di chiudere gli occhi sull’annessione appena mascherata di Abkhazia e Ossezia del sud, dovrà misurarsi con due questioni centrali: la strategia verso la Russia e il nodo rappresentato dal binomio sovranità/autodeterminazione. Su questo tema è intervenuto, sul Corriere, Piero Fassino, che ha scritto: «Sul nodo pesa l’eredità balcanica, e cioè l’omogeneità etnica come fondamento dell’identità statuale. Oggi sono l’Ossezia e l’Abkhazia a rivendicarla, ma in quella stessa area da tempo la invocano il Nagorno-Karabakh, conteso tra Armenia e Azerbaigian, e la Transnistria unilateralmente separatesi dalla Moldavia. Per non parlare di Cecenia, Inguscezia, Dagestan, a cui peraltro Mosca nega quel che invoca per l’Ossezia. Insomma: un gioco del domino infinito, fonte di ulteriori conflitti e tragedie. La strada non può che essere un’altra: porre a fondamento di ogni Stato non l’etnia, ma la cittadinanza, l’uguaglianza dei diritti, la tutela delle minoranze. Un buon esempio viene proprio dall’Ue che ai suoi nuovi membri ha posto come condizione di adesione il riconoscimento di diritti per minoranze spesso discriminate. Valga per tutti il caso baltico, dove i componenti delle comunità russe – considerati per anni “non cittadini” – hanno oggi uguaglianza di diritti». Vale la pena, perciò, tornare sulla questione sollevata da Paolo Segatti nel suo articolo sulla Slovenia e l’idea d’Europa dei padri fondatori. Ora che l’Europa dovrà fare i conti con le parole più aspre di una nuova ideologia nazionale che hanno riempito in Russia anche la stampa quotidiana più equilibrata (il riferimento che ha accompagnato la crisi georgiana è stato alla Crimea, la penisola ucraina oggetto di contenzioso permanente tra Mosca e Kiev per l’alta percentuale di popolazione di lingua russa), non sarebbe male tornare a riflettere sulle ragioni per cui possiamo definirci europei. Insomma, che cosa lega tra loro, nell’Europa allargata, popoli, abitudini di vita, lingue così diversi? Certo, la comune origine europea si può leggere nelle opere di Dante, Mozart o Velàsquez e nelle pietre delle cattedrali; nelle radici di certe parole; nelle cultura del cibo e del vino; in ciò che abbiamo assimilato dagli arabi e dalla civiltà del Mediterraneo. Ma il retaggio culturale comune non si riduce esclusivamente alla lingua o ai prodotti culturali comuni, è un sistema di idee e di valori che rimanda alle risposte che negli anni Trenta alcune fra le principali democrazie occidentali avevano dato alla grande crisi, sperimentando – in alternativa all’aut aut fra comunismo e fascismo – le soluzioni del New Deal, negli Stati Uniti, e del “keynesismo” in alcuni paesi europei e dimostrando che i problemi posti dal sorgere della società di massa si potevano risolvere con la riorganizzazione della produzione e dei consumi, la crescita dell’economia nazionale, l’estensione della democrazia e lo sviluppo dello stato sociale. Per gli occidentali quegli ideali e quelle politiche costituivano la base della grande alleanza antifascista e ne ispiravano il programma per il dopoguerra; e la costituzione di una sorta di partito internazionale dell’antifascismo mirava a generalizzare quelle esperienze e a ridisegnare gli assetti mondiali secondo il principio di interdipendenza. Da allora, in Europa, il problema della nazione è cambiato radicalmente. È mutato anzitutto il rapporto tra nazione e lo Stato, la cui funzione fondamentale non è più quella militare, ma riguarda la promozione dello sviluppo e delle relazioni internazionali che allo sviluppo sono collegate. Oggi, infatti, sviluppo e democrazia, che sono le condizioni da cui dipende il sentirsi cittadini di un determinato paese, non sono separabili dalla crescita dell’integrazione fra le economie nazionali e fra i popoli. E oggi il problema della nazione non è separabile da quello della cittadinanza, che dipende sempre più dall’avanzare della società civile internazionale. Questo sviluppo è derivato proprio dalla vittoria dell’antifascismo nella Seconda guerra mondiale. Questa idea di nazione è stata infatti il frutto consapevole delle risposte ai problemi posti dagli sviluppi dell’economia mondiale e dalla crescita della soggettività dei popoli, che esso ha elaborato in chiave di cittadinanza anziché di inquadramento militare delle masse. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale l’idea di nazione che si è affermata non è separabile, come ora riconosce anche Gianfranco Fini, dal legame tra antifascismo, welfare e interdipendenza. Uno degli errori più comuni, quando si descrive l’evoluzione dell’integrazione europea, è infatti quello di sostenere che nacque come un progetto squisitamente economico e che solo successivamente divenne politico. Invece l’Unione europea è stata sin dalle origini un progetto politico che ha fatto ricorso a strumenti economici. Ciò che più contava per i fondatori, era non ripetere gli errori precedentemente commessi. La filosofia degli accordi di Versailles era semplice: se metti ai tuoi piedi il tuo nemico di ieri e con la forza gli impedisci di svilupparsi militarmente (disarmo forzato) ed economicamente (sanzioni punitive), questi non sarà più nella posizione di costruire una futura minaccia. Ma Versailles fallì e vi è un ampio consenso sul fatto in Germania il trattato di Versailles abbia aiutato il nazionalsocialismo a mobilitare l’opinione pubblica a favore dei suoi disegni criminali. È rispetto a queste premesse che si deve comprendere il nuovo disegno di pace architettato alla fine della Seconda guerra mondiale, di cui prima la Comunità europea e poi la successiva Unione europea sono la parte centrale. La guerra sarebbe stata “non solo impensabile ma effettivamente impossibile” non perché Francia e Germania avrebbero sottoposto la produzione del carbone e dell’acciaio a un’altra autorità, istituzione che precorre l’attuale Commissione. La guerra sarebbe stata impensabile e impossibile a causa del livello di interdipendenza che si sarebbe creato tra gli Stati della nascente comunità. Lo stesso disegno ha guidato, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della Jugoslavia, l’allargamento dell’Unione ai paesi ex comunisti. Ora l’integrazione della Slovenia in Europa procede speditamente e possiamo superare anche le narrazioni storiche contrapposte. Se, come mi auguro, riuscirà a farsi strada il riconoscimento della demarcazione necessariamente convenzionale di tutti gli stati (non ci sono confini “naturali” per gli stati e lo stato non è un’entità “naturale”) insieme con la convinzione che gli individui umani, e non gli stati o le nazioni, debbano costituire la preoccupazione ultima non solo delle organizzazioni internazionali, ma di ogni politica.

Leggi Tutto
GIORNALI2008

Europa, 17 ottobre 2008 – La malattia democratica

Occorre una riforma delle istituzioni in grado di scongiurare il rischio di un decadimento della democrazia. Il nodo irrisolto non
riguarda la legge elettorale, ma la forma di governo. Da un pezzo la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco.

Scarica l’articolo completo

Leggi Tutto
GIORNALI2008

Europa, 12 novembre 2008 – Primarie, non preferenze

Davvero le preferenze sono diventate l’unico strumento affinché i rappresentanti del popolo siano scelti dai cittadini e non dai vertici
dei partiti? Ci siamo scordati quel che il sistema delle preferenze realmente ha comportato, diventando strumento della degenerazione correntizia dei partiti, motivo dell’esplosione della spesa, occasione di corruzione e controllo del voto, strumento di lobby trasversali non sempre di natura legale? Vogliamo «restituire lo scettro» ai cittadini? Allora, usiamo le primarie come strumento democratico per scegliere le candidature.

Scarica l’articolo

Leggi Tutto
GIORNALI2008

Messaggero Veneto, 12 dicembre 2008 – Aprire una nuova fase politica nel Pd senza illudersi che risolva tutto Obama

Gianfranco Moretton, nei giorni scorsi, ha rilanciato l’idea di un Pd del Nord «confederato e allineato con quello nazionale». Ha aggiunto inoltre di concordare con chi sostiene che il Pd non potrà mai aderire al Pse e di guardare invece agli Stati Uniti. Si tratta di opinioni che meritano di essere considerate e, visto che nessuno finora si è preso la briga di farlo, vorrei tornarci su. A differenza di Moretton, non credo che possiamo curarci con l’illusione di vivere la vita degli altri, confidando che la vittoria di Obama cambierà anche noi. Moretton si illude forse di essere “oltre” rispetto all’esperienza dei partiti socialisti europei. Ma non siamo oltre, siamo ancora al di qua. E parecchio. Tanto per fare un esempio, dobbiamo definire ancora l’autonomia del partito riformista rispetto ai sindacati e non riusciamo ancora a calibrare il tono e i contenuti di un’opposizione post-ideologica a Berlusconi: come si fa a dichiarare chiusa la stagione della guerra civile italiana e poi, dopo tre mesi, sostenere che siamo nella Russia di Putin? Il guaio è che nella nostra discussione si è cristallizzata un’immagine dogmatica del socialismo europeo che non ha alcun rapporto con la realtà. Così inteso, il socialismo europeo non esiste e, almeno dagli anni 50, ha lasciato il posto a un ampio ventaglio di declinazioni politiche nazionali. Non è un mistero per nessuno che tra il Labour britannico e il Ps francese vi sia una divaricazione di sensibilità e di prospettive. Il che non ha mai impedito che entrambi quei partiti appartenessero alla famiglia socialista, che è molto meno ortodossa di come la si dipinge in Italia. Al contrario, i partiti socialisti europei sono diventati dei veri e propri «crocevia culturali» che sono stati capaci di metabolizzare e addirittura egemonizzare le tendenze innovative sorte su altri terreni. È infatti l’incontro tra socialismo e liberalismo che ha consentito ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione e i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l’organizzazione dello Stato sociale, le relazioni con i sindacati e, più in generale, il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile. Non è il Pse, è piuttosto questa immagine ingessata (tutta italiana) del socialismo europeo che rappresenta l’ostacolo dinanzi al quale si trova oggi il Pd. Proprio mentre il nuovo partito unico berlusconiano sta per diventare il più grande raggruppamento nazionale del Ppe, che da tempo non è più il partito dei democristiani europei, ma il raggruppamento dei diversi soggetti nazionali di centro-destra: ognuno con la sua storia e la sua identità, ma tutti dalla stessa parte della barricata. Per il Pd è venuto il momento di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche. Specie se si considera che l’economia italiana oltre a soffrire di una malattia comune a molti paesi Ocse (un periodo di difficoltà dovuto alla crisi finanziaria internazionale e al prezzo di alcune materie prime) è affetta anche da un malessere tutto italiano (una crescita inferiore alla media europea che dura ormai da più di vent’anni) le cui cause vanno ricercate esclusivamente all’interno del nostro paese. Naturalmente, è comodo per molti incolpare la globalizzazione, l’euro o la Bce, ma i nostri problemi sono interni. E vengono da lontano, visto che il declino del nostro sistema educativo e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi. La verità è che bisogna che più persone lavorino (i giovani e le donne, per esempio, partecipano pochissimo alla forza lavoro) e che aumenti la produttività. E aumentare la produttività significa lavorare meglio, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori di fare il loro lavoro, ma al tempo stesso migliorare il welfare, i servizi e il sistema giudiziario. Infatti, il welfare italiano è inadeguato e muove poche risorse dai ricchi ai poveri e le perdite dovute a un sistema giudiziario che non funziona si traducono nell’impossibilità di pagare stipendi più alti, distribuire dividendi o investire di più. Ovviamente, sono tutte cose difficili e impegnative. Ma per conquistare nuovi elettori, bisogna guardare la realtà senza pregiudizi. E il Pd deve promuovere quell’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che tante volte il centro-sinistra italiano ha annunciato come l’orizzonte della propria azione politica, ma che, a differenza di quanto è accaduto negli altri paesi europei, non ha mai voluto combattere. Ma solo così si può affermare una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza e quell’attenzione «strutturalmente diversa» (per usare le parole di Paolo Mieli) che merita il Nord. È di questo che ha bisogno il nostro territorio, non di un partito confederato. Il guaio è che all’indomani della sconfitta, abbiamo tardato ad aprire una discussione politica d’analisi e soprattutto di progettazione. E continua la difficoltà di condurre una discussione trasparente sulle linee politiche; è più facile stare nell’opacità del conflitto interno fra tribù separate non dalla politica ma dalla vecchia appartenenza: popolari e diessini, veltroniani e dalemiani, ecc. Ma è possibile che non abbiamo trovato ancora il modo di concentrarci sulle ragioni della sconfitta alle elezioni regionali? E su queste, il vicepresidente della giunta uscente non ha niente da dire? È possibile che, anziché dalla (incerta) collocazione internazionale del partito o dalla sua attuale forma organizzativa, la sconfitta elettorale sia dipesa dall’insufficienza della sua politica riformatrice, in contrasto stridente con le attesa e le aspirazioni diffuse in una società, quella regionale, profondamente trasformata? Come si fa a stupirsi se il Pd, così com’è combinato, è percepito dagli elettori come il residuo di un passato che non vuole passare e come un partito nato per conservare un’oligarchia? Il fatto è che qualsiasi pretesa di incarnare l’innovazione rimanendo uguali a se stessi è svuotata di ogni credibilità. Oggi i tempi chiedono una nuova fase. E, a Roma come in Friuli, l’unica e vera salvezza del partito è rappresentata dalla possibilità di innescare, già oggi, una competizione di idee e personalità. I democratici americani non sono arrivati a Denver da un giorno all’altro, ma dopo un anno di scontri appassionati dopo i quali si sono stretti attorno a Obama. Non attraverso lo scontro (o gli accordi) tra capibastone, ma con il libero e creativo scontro di idee e di ricette che anima i partiti più dinamici.

Leggi Tutto
GIORNALI2008

Il Riformista, 27 dicembre 2008 – Presidenzialismo terapia d’urto

Caro Direttore,

il guaio è che la nostra Repubblica è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. E’ da tempo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco.

Leggi tutto l’articolo

Leggi Tutto
1 2