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#riformacostituzionale. «L’urgenza appassionata dell’adesso».

Segnalo l’articolo di Pietro Ichino: Referendum – Le tesi del No che spingono a votare Sì | l’Unità TV.  Un gruppo di avvocati triestini ha selezionato gli undici motivi più forti per votare No al referendum del 4 dicembre, indicandoli in un loro appello pubblicato nei giorni scorsi. Nel suo articolo, Pietro Ichino riporta fedelmente gli undici argomenti di cui i 69 avvocati triestini (prima firmataria Elisa Adamic) «ritengono loro dovere civico di rendere edotti i cittadini», con un suo breve commento punto per punto. Riporto, di seguito, il testo del mio intervento all’incontro dei Giovani Giuristi per il Sì che si è tenuto giovedì scorso a Roma.

Siamo qui stasera non soltanto per rendere testimonianza di una valutazione positiva della riforma, a cui in tanti abbiamo lavorato in questi anni e che a noi non sembra affatto da buttar via.

Siamo qui non soltanto per sostenere lo sforzo dei tanti giovani del Comitato Giovani Giuristi per il Sì che sono impegnati a dare una mano perché la riforma venga confermata dal voto popolare.

Siamo qui anche per ricordare – a quanti non fanno che ripetere, ogni volta, che bisogna aspettare tempi migliori, il momento giusto, il testo giusto – quella che un grande leader afroamericano ha definito «l’urgenza appassionata dell’adesso». Adesso è il momento giusto. Non ci sarà un momento migliore, un testo migliore. Il momento giusto, quello perfetto, non esiste. È soltanto un pretesto per rinviare. In eterno. Anche perché, come abbiamo appreso a nostre spese, è finito il mito delle riforme organiche ed esaustive. E la strada di quelle incrementali è l’unica percorribile.

Non dobbiamo aspettare Godot. Dobbiamo cercarlo.

Ovviamente, tutti noi non abbiamo mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri gravi problemi. Ma alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni.

C’è chi dice che ciò che non va non sono le regole, ma i politici (per cui è inutile cambiarle). Io credo invece che bisogna tenere conto di come le forze politiche si muovono in concreto e credo che le istituzioni vadano aggiornate per incentivare comportamenti utili al funzionamento del regime parlamentare e per favorire la governabilità, in un mondo in cui tutti corrono e di sicuro non ci aspettano. E sono convinto che in questo modo si possa assicurare non meno, ma più democrazia.

Non è un caso che incisivi processi di riforma  abbiano interessato da tempo tutte le grandi democrazie europee. In Germania la Costituzione è stata modificata più di 50 volte dal 1949; l’incisiva riforma del federalismo tedesco, approvata nel 2006 e diretta proprio ad un miglioramento della capacità decisionale della Federazione e dei Lander, ha modificato 25 articoli della legge fondamentale.

Nel 2008 la Francia ha approvato il più importante progetto di riforma della Costituzione francese del 1958, un progetto che incide in modo significativo sulla dinamica dei poteri e dei contropoteri della V Repubblica; l’ha fatto dopo che il presidente Sarkozy ha istituito un «Comitato di riflessione e di proposta sulla modernizzazione ed il riequilibrio delle istituzioni della V Repubblica francese», presieduto da Balladur, le cui conclusioni sono state quasi integralmente recepite nella riforma costituzionale. Insomma, si è trattato di una commissione di esperti, non diversamente da come abbiamo fatto noi, in Italia, e da come del resto hanno fatto Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Anche in Spagna, dove di certo non mancano i problemi, è all’ordine del giorno la riforma della Costituzione (la più longeva nella storia spagnola), perché il consenso territoriale si è incrinato e non si può intendere la democrazia spagnola senza il processo di decentramento politico che costituisce lo Stato autonomistico. E sono proprio i socialisti spagnoli a sostenere che la mejor defensa de la Constitución es su reforma”.

Il fatto è che condividiamo gli stessi problemi: la differenza sta nella nostra inconcludenza. La differenza la fanno trent’anni di proposte non realizzate e di realizzazioni andate in una direzione sbagliata. La differenza sta proprio nel conservatorismo istituzionale che da anni paralizza qualunque tentativo di riforma.

Devo dire che quel che più colpisce, nella discussione in corso sulla riforma, è proprio la nostalgia del passato: l’avversione e l’intolleranza per ogni innovazione, per ogni influsso straniero; il mito del passato come epoca felice, il disprezzo del presente. In altre parole, la democrazia o è quella di tipo consensuale e consociativo, che è stata nell’Italia del Dopoguerra, o non è.

Messe così le cose, una seconda Camera eletta dai Consigli regionali e non dai cittadini sarebbe un’istituzione sostanzialmente non democratica. Eppure, in Europa quella dell’elettività diretta della seconda Camera non è una regola; anzi, tutto l’opposto. Non è così in Germania, in Austria; non succede in Francia; per non parlare del Regno Unito. Solo 13 dei 28 Paesi dell’Unione europea hanno una seconda Camera e, tra questi, solo in cinque Paesi i suoi membri sono eletti direttamente. Solo in tre di questi cinque Paesi la seconda Camera ha dei poteri legislativi rilevanti e solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera.

Poi, la combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbe un attentato alla democrazia. Dunque il Regno Unito e la Francia non sarebbero sistemi democratici? La Camera dei Lord non è certo una istituzione eletta dal popolo e anche il Senato francese non è eletto dai cittadini. Eppure, nel 2005 il Labour party vinse con il 35 per cento dei voti e ottenne il 55 per cento dei seggi e, con il 29 per cento dei voti ottenuti al primo turno, Hollande ha conquistato il 53 per cento di seggi nella Assemblea nazionale.

Inoltre, chissà perché, innalzare le Regioni e i Governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sarebbe incongruo e inopportuno dimenticando che, ad esempio, i sindaci e i Presidenti di Regione sono autorità democratiche elette direttamente, che i consiglieri regionali vengono eletti con le preferenze e che entrambi non hanno nulla da invidiare in termini di pedigree democratico ai senatori e deputati.

Si dimentica inoltre che dall’azione delle Regioni e dei Comuni dipende larga parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi e delle politiche statali, della spesa pubblica e che porre all’interno delle istituzioni costituzionali il luogo del coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori è una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale, visto che la nostra Repubblica non è più quella di prima, è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. Infatti, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra e confermata dal voto popolare nel referendum del settembre del 2001 ha apportato alla parte II della Costituzione (che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali) modifiche profondissime. E la mancanza del luogo parlamentare di mediazione è forse il principale punto critico di quella riforma ed è proprio questo che consiglia di costruire una Camera delle autonomie e di non scegliere la strada, in apparenza più semplice, del monocameralismo.

Infatti, in mancanza di una stanza di compensazione degli interessi, l’incertezza ha generato numerosissimi conflitti e la Corte costituzionale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità e dunque di politicità. Un contenzioso che ha bloccato opere importanti, gettando nell’incertezza cittadini, enti e investitori; in molti casi ha impedito o indebolito l’adozione di politiche nazionali in materie come il turismo, il commercio estero, le infrastrutture strategiche, le politiche sociali e quelle del lavoro. E se parliamo di costi, quanto vale poter completare opere strategiche senza impantanarsi in ricorsi di anni?

Tutti i Paesi – e non solo quelli europei – hanno dovuto adattarsi ai grandi cambiamenti che sono intervenuti nel dopoguerra, nell’organizzazione, nella funzione e nella stessa filosofia dello Stato moderno. Dovunque le sollecitazioni sono state più o meno le stesse e i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare sono stati più o meno gli stessi, e simili sono state le risposte che hanno elaborato. Tutti hanno cercato di far tesoro delle esperienze degli altri. I sistemi federali di lingua tedesca si sono evoluti «copiando» a turno l’uno dall’altro; le esperienze regionali in Italia sono state studiate per la Costituzione spagnola. E naturalmente le esperienze costituzionali spagnole, come quelle federali tedesche, sono uno dei punti di riferimento indispensabili del nostro dibattito.

Ovviamente, una Camera delle istituzioni territoriali si può fare in molti modi. Può essere composta dai Consigli regionali, in modo simile all’esperienza austriaca (come nel testo che abbiamo approvato), dalle Giunte, in modo simile al Bundesrat tedesco (soluzione che ho proposto ma che in Parlamento non ha una maggioranza), ma anche in raccordo con gli elettori al momento delle elezioni regionali, come avviene in Spagna. Anche sui poteri, scartato il rapporto fiduciario e di conseguenza i poteri paritari, si può discutere (e si è molto discusso) delle tipologie di legge che sfuggono alla prevalenza della Camera. Nel volume sui lavori della Commissione nominata dal Governo Letta si possono trovare argomenti a favore di una o dell’altra delle diverse ipotesi. Le soluzioni individuate dal Parlamento possono non piacere, ma perché mai innalzare Regioni e governi locali al piano delle istituzioni parlamentari sarebbe inadeguato e perfino sacrilego?

E quando si dice che il doppio lavoro (Senato-Consiglio o Comune) impedirà ai senatori di incidere, si dice una cosa che nasce dall’incapacità di immaginare per il Senato ruolo e modalità di funzionamento radicalmente diversi da quelli attuali. E’ chiaro che il Senato non sarà un organo riunito in permanenza come le Camere attuali. Si pensi che il Bundesrat tedesco (che rappresenta i Länder) si riunisce e vota un giorno al mese!

Il nostro declino ha tante ragioni, ma una di queste è la cultura del conservatorismo costituzionale che scambia per pregi i limiti del processo costituente del 1947 dovuti alla Guerra Fredda (che gli stessi Costituenti avvertivano come limiti, basti pensare che Mortati aveva definito il Senato un inutile doppione della Camera).

È appena il caso di sottolineare, infatti, che fu voluto dall’Assemblea costituente un sistema di Governo debole, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo. Un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa che non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Un relitto di quando – come ricordava Scoppola – ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro.

Il punto è proprio questo. Da quando in Italia si discute di riforme istituzionali, più o meno dalla fine degli anni Settanta, cioè dall’inizio della crisi della rappresentanza delle forme politiche tradizionali (la Commissione Bozzi, infatti, è stata istituita nel 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare normale, oppure no? Vale a dire: può diventare una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma dentro un quadro di garanzie fornite soprattutto dalla Corte costituzionale e nella quale la valorizzazione dell’autonomia avviene senza conflittualità paralizzanti tra centro e periferia?

Il nodo politico della riforma del bicameralismo sta tutto qui. Come sempre il discrimine, lo spartiacque è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi – dalla crisi economica o dalla necessità di adeguare il nostro sistema istituzionale, poco importa – per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile perché – manco a parlarne – «l’Italia è diversa» e «perché in Italia queste cose non si possono fare».

Negli altri Paesi chi vince le elezioni nella prima Camera governa. E le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare, in modo del tutto anomalo, da contraltare al Governo. Negli altri Paesi le seconde Camere che non danno la fiducia e dove il Governo non può porre la fiducia hanno un potere paritario solo su leggi costituzionali e poco altro perché non devono impedire la governabilità. Negli altri Paesi anche la materia dello sviluppo dei diritti garantiti dalla Costituzione vede prevalere ovunque la prima Camera (naturalmente, sotto i vincoli posti dalle Corti) perché quasi tutta la legislazione chiave varata dai Parlamenti tocca infatti i diritti (come, ad esempio, le unioni civili) ed è compresa nelle piattaforme con cui ci si candida per il governo del Paese.

Proprio in questi giorni – ieri sera qui a Roma – sì è celebrato il Giorno dell’Unità Tedesca. Sono ormai passati 27 anni dalla caduta del Muro di Berlino. È da allora che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti.

Certo, abbiamo detto, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. E il Governo deve affrontare la riforma della giustizia e della burocrazia, con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato. Ma non c’è da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario. Sono a confronto due concezioni della democrazia: l’una è assembleare, fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana del Dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza. La seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati. Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. È da allora che è iniziata una transizione che, a 27 anni dal crollo del Muro di Berlino, è tempo di portare a compimento.

Noi non dobbiamo temere il cambiamento. Quello che dobbiamo temere è un altro fallimento.

Oggi, quel che si sta scatenando è un dibattito surreale, in cui un nutrito gruppo di oppositori, anche autorevoli giuristi, non fa che prevedere disastri, al punto che Carlo Fusaro ha parlato di un «costituzionalismo ansiogeno», «giunto addirittura ad evocare la fine della democrazia nel nostro paese». Non fatevi impressionare da medici improvvisati e perlopiù interessati che ripetono la stessa diagnosi da quando anch’io avevo i calzoni corti. Una costituzione non è una cosa che riguardi soltanto giuristi innamorati delle proprie dottrine, ma un testo che vive nella partecipazione all’evoluzione del paese di cui è al servizio. 

Quando andremo a votare decidiamo questo. Non destra e sinistra. In questo referendum siamo chiamati a scegliere le regole che avranno il potere di modellare il nostro futuro. Molti di voi ricorderanno il film «La ricerca della felicità» e le parole che dice Chris, rivolto al figlio che gioca a basket: «Se hai un sogno lo devi proteggere. Se vuoi qualcosa vai e inseguila. Punto».

 

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