In queste settimane, opposizione e autonomisti, rispolverando bandiere e istanze friulaniste, hanno lanciato più di un allarme sugli effetti della riforma anche sulla nostra regione, accusando il governo Renzi di volerci togliere la specialità. Nel suo editoriale di domenica scorsa sul Messaggero Veneto, Tommaso Cerno ha cercato di mettere un po’ d’ordine nella discussione (L’AUTONOMIA DA DE GASPERI AL RENZISMO ). Provo a riassumere.
«Davvero l’autonomia è a rischio?», si è chiesto il direttore del Messaggero Veneto. Senza dubbio, «se la mettiamo sul derby ordinarie-speciali, certo che con le cugine non corre buon sangue e c’è chi, da sempre, trova ingiustificato il “privilegio” che ci è accordato con legge costituzionale. Fin qui niente di nuovo». Ma se stiamo ai fatti, come si fa a sostenere che la specialità sia minacciata?
Spiega Cerno: «Ecco i fatti: da una parte il governo ha accettato in Senato un ordine del giorno di Raffaele Ranucci (Pd) che impegna a prendere in considerazione la riduzione delle Regioni. Ma, come ha confermato il ministro Maria Elena Boschi, la cosa non è all’ordine del giorno. Dall’altra parte, con l’emendamento Zeller 39.700 approvato lo stesso giorno si conferma invece la necessità dell’intesa Stato-Regione per le modifiche statutarie. Per arrivare alla revisione della costituzione di cui stiamo discutendo ci sono voluti 30 anni: la Commissione Bozzi è del 1983. Difficile dire che la specialità, almeno sul piano istituzionale, sia a rischio nei prossimi venti. Anzi, forse non è mai stata più sicura. Il punto è, semmai, che le speciali sono sopravvissute anche alla riforma costituzionale».
Lo ha ribadito sabato scorso il sottosegretario Gianclaudio Bressa nella sua intervista a Il Piccolo: «I timori che Regioni e Province autonome possano perdere alcune delle loro prerogative sono del tutto infondati. Sconfinano, a volte, nel campo delle sciocchezze». «Non so come si possano affermare cose del genere – ha poi aggiunto -, la riforma non tocca in alcun punto l’autonomia speciale. C’è inoltre una clausola di salvaguardia che prevede, per la revisione degli statuti, un’intesa tra Stato e Regioni. Infine si consente alle “speciali”, con legge rinforzata al Senato, di acquisire ulteriori funzioni legislative. Affermare che la specialità ne risulti indebolita è pura propaganda. Anzi, è una bugia sulla quale si vuol fare propaganda».
«Da dove viene allora questa sensazione di “pericolo”?», si è chiesto Tommaso Cerno. Vediamo. Che ci sia in corso un processo di ricentralizzazione – dico io – è fuori dubbio. Ma è la conseguenza del fallimento della stagione (o meglio dell’illusione) «federalista» (quando il federalismo era inteso come ideologia) e della cattiva prova che hanno dato le regioni. Sia sul piano morale (e gli esempi non mancano) sia sul piano delle realizzazioni (possibile che non si riesca a localizzare neppure un rigassificatore?) Ha ragione Bressa quando dice: «Credo che il problema della crisi del regionalismo dipenda dalla debolezza non della Costituzione, ma della politica regionale» («Città metropolitana? Gli abitanti a Trieste sono troppo pochi»).
Ma c’è dell’altro. Le città e il territorio stanno mutando funzioni, posizione e funzionamento interno in tutta Europa e l’organizzazione della produzione e dei servizi, per tutte le cose di qualità, sta sempre più uscendo dal tradizionale spazio urbano, divenuto troppo limitato, per approdare ad aree più estese. Oggi l’economia del Paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora policentrica e dispersa (un ripensamento che deve avvenire in direzione dell’apertura alla globalità, da una parte, e in direzione dell’integrazione tra più città e più sistemi locali, dall’altra) costituisce forse il capitolo più importante di questo progetto. Assistiamo alla scomposizione delle vecchie forme e alla ricostruzione di nuovi assetti. Una volta, ad esempio, l’impresa (come la terra, il capitale disponibile, ecc.) nasceva e restava nel territorio. Oggi non è più così. Le aziende stanno “provvisoriamente” su un territorio e diventano sempre più elementi mobili che “contrattano” con il territorio. Ciò significa che la regione nel suo complesso deve essere capace di competere con altri territori per attrarre e trattenere le imprese. Ma un territorio, se non agisce su una certa scala, non è più in grado di dotarsi delle risorse “rare” che riguardano la ricerca, l’università, la sanità, i servizi, il terziario avanzato. Perché tutti questi servizi di qualità, fondamentali per il futuro, hanno bisogno di una scala adeguata. Il che significa costruire uno “spazio metropolitano”, cioè ad un unico bacino di domanda e offerta per questo tipo di servizi: uno spazio di un milione o due milioni di abitanti paragonabile a quello delle grandi città del mondo che già oggi offrono risorse rare a un bacino ampio di potenziali users. Anche perché il potenziamento dei trasporti e delle comunicazioni ha ridotto il peso della distanza.
Certo, c’è chi agita ancora la bandiera dell’autonomia separata tra Trieste e il Friuli, in ragione del “riconoscimento” del Friuli inteso come Stateless nation, come se il nostro problema fosse davvero quello di “separare” i territori e non invece quello di individuare le “istituzioni della cooperazione” tra gli enti. Ma è un’idea sbagliata. Come ci dicono gli esperimenti in corso in Europa: a Rotterdam un network amministrativo che include anche altre municipalità è stato tentato per definire la “Città-regione”; a Lione si è creata una regione urbana con le città vicine, e così via. Perché solo l’integrazione tra più città e più sistemi locali permette di sostenere i costi e i rischi necessari a sviluppare i servizi di qualità necessari alla produzione e ad una vita sociale ricca e solidale. In Germania i comuni erano del addirittura 24.476 e ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti. Nel Canton Ticino 45 comuni si sono uniti in 15 nuove aggregazioni. In Danimarca hanno ridotto i Comuni da 1388 a 275, in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486.
Invece, la dimensione territoriale dei nostri comuni è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. L’80% dei nostri comuni ha meno di 5000 abitanti e nessun problema mediamente complesso può essere risolto attraverso decisioni (e risorse) così parcellizzate. Insomma, quello delle cento città è un mito antico della politica italiana, ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro. Non è facile. Ma quello della riorganizzazione della rete comunale è un compito storico, per il quale la nostra Regione deve lavorare con la stessa solerte attenzione dei Länder tedeschi ( Il Piccolo, 23 settembre 2015 – Maran “allarga” i confini della città metropolitana ).
Vengo alle regioni. Come qualcuno ricorderà, uno studio della Fondazione Agnelli di almeno 20 anni fa ridisegna la nostra carta geografica e riduce il numero delle Regioni a 12 secondo criteri legati al “residuo fiscale pro capite” cioè all’autosufficienza finanziaria delle attuali regioni. Secondo quello studio, La dimensione ideale della regione deve rispondere a due requisiti: l’autosufficienza finanziaria e l’idoneità a fare da contenitore a progetti di sviluppo. «A questo punto – scrive Tommaso Cerno – dobbiamo leggere i dati e non fermarci alle suggestioni: le regioni con le carte in regola in Italia sono quattro: Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Lì gli abitanti pagano al fisco più di quanto ricevano in cambio. In tutte le altre regioni – Friuli Venezia Giulia compreso – il rapporto si rovescia. E oggi anche in Germania, i lander più piccoli e in particolare la Saar stanno chiedendo di unificarsi perché non ce la fanno più a pagare i debiti. E la Francia ha ridotto le regioni da 22 a 12. Qui non c’è stata paura che lo stato “venisse”, ma piuttosto che lo stato “se ne andasse”. Perché l’Europa delle regioni, dei territori non può stare in piedi se non stanno in piedi i bilanci di quei territori».
L’autonomia, in altre parole, implica un sistema auto-centrato, capace di gestire le proprie interdipendenze interne e agire collettivamente verso l’esterno. Forse questa sensazione di “pericolo” viene da qui. «La ragione sta nel fatto che – scrive Cerno – fra la salvaguardia della specialità e l’esercizio della specialità, ci passa un oceano. E il renzismo, la spinta riformista del premier che abbiamo avuto modo di ascoltare anche ieri durante la sua visita lampo in Friuli, ci fa capire che serve un grande progetto di ammodernamento del concetto politico di “autonomia”. In sintesi: la specialità è blindata, ma adesso va esercitata in maniera nuova e moderna. L’obiettivo non può che essere uno: dalle regioni speciali dovrà arrivare un modello più virtuoso dello Stato, altrimenti nel tempo la questione del futuro di queste regioni si porrà davvero. C’è un punto, infatti, che deve essere tenuto fermo proprio da chi difende l’autonomia differenziata delle Regioni a Statuto speciale: l’autogoverno non deve costare alla collettività più di quanto costi lo Stato. Non lo dico io, lo disse Alcide De Gasperi durante l’Assemblea costituente, nella sessione che si dedicò proprio all’approvazione dello Statuto di autonomia speciale: “Io che sono pure autonomista convinto – diceva De Gasperi – e che ho patrocinato la tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese”».
«Ecco che – prosegue il direttore del Messaggero Veneto – dopo avere garantito l’autonomia “salva” come ha fatto Serracchiani, infastidita soprattutto da chi, nell’opposizione, sembra usare la paura del futuro speciale per rifarsi una verginità politica, e ce ne sono, è venuto il tempo delle grandi riforme, in parte avviate, che mostrino il passaggio politico dall’era dell’autonomia rivendicata a quello dell’autonomia esercitata. Cosa faremo di autonomo, di autentico, in anticipo sullo Stato capace di mandare avanti un pezzo del Paese e di dimostrare al resto d’Italia che abbiamo fatto come diceva De Gasperi e quindi lo spirito profondo della nostra specialità è salvo?»
Tommaso Cerno conclude la riflessione con un esempio, che viene dalla Campania, il più delle volte citata per la sue insufficienze, per l’inefficienza: «Concludo citando Napoli. Il primo provvedimento del nuovo governatore della Campania sono le sanzioni per i dipendenti che rallentano le pratiche. Recita così: in caso di mancato rispetto dei termini non riconducibile a gravi, documentati e giustificati motivi, il funzionario responsabile viene sanzionato con il taglio del trattamento economico accessorio. In pratica i dipendenti pubblici campani che fanno perdere tempo a cittadini e imprese pagano di tasca loro, con penalità che arrivano fino a qualche centinaio di euro al mese. La Campania è una Regione ordinaria, spesso citata per l’inefficienza e per gli sprechi, che fa una cosa più avanzata dello Stato, quindi speciale. Perché la specialità non è una dimensione storica, non è memoria di quello che è stato, non è un sacrario dove portare fiori o corone d’alloro. Lo statuto obbliga la Regione a essere speciale, usando al massimo i poteri. Per progettare un futuro che possa essere preso a modello da chi quei poteri non li ha».
Sbaglierò, ma resto dell’opinione che, oggi più che mai, la speciale autonomia può e deve essere vista come un’opportunità, uno spazio di libertà che è consegnato alle istituzioni (e alle tecno-strutture) e alle loro capacitò d’iniziativa, di progettare il futuro, di organizzarsi nell’azione, di assumersi i rischi delle scelte compiute. C’è un solo modo per conservare l’autonomia: esercitarla. Esercitare l’autonomia di una Regione, la cui «specialità» si è fin dall’inizio giustificata in funzione del perseguimento dell’obiettivo di legare e fondere – rafforzando la loro comune presenza nell’unità repubblicana – aree a vocazione diversa ma accumunabili in una stessa prospettiva di sviluppo.