Seduta del 25 settembre 2014.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’ordine mondiale che abbiamo ereditato dal dopoguerra tra qualche anno sarà irriconoscibile, ma l’Italia non può disinteressarsi della sicurezza internazionale: per noi non esiste una linea «alla svizzera».
Mi spiego e torno su alcune costanti storiche – ne cito solo due – che sono destinate a pesare in qualunque contesto internazionale e che incidono sugli orientamenti della politica estera italiana. La prima, che è forse la costante storica più radicale, è una condizione di vulnerabilità e di insicurezza, verso l’esterno, a causa del debole assestamento e della continua fluidità dei due versanti della politica estera italiana (la penisola balcanica e la sponda sud del Mediterraneo), e verso l’interno, dove la vulnerabilità è il prodotto del riemergere di debolezze politiche ed istituzionali e di una statualità spesso priva di forza. In altre parole, dunque, la difficile posizione geostrategica del Mediterraneo e la debole identità nazionale hanno fortemente condizionato la credibilità della nostra politica estera. È una vicenda storica antica.
Per molti versi, qual è stata la risposta che continua a costituire una reazione a queste costanti? È l’ancoraggio ad alleanze bilaterali o a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale (e qualche volta anche all’interno del Paese) e di assicurare, allo stesso tempo, la cooptazione del nostro Paese al tavolo delle principali potenze.
Dunque, questa condizione non lascia spazio ad alternative credibili, perché proprio grazie alla politica di alleanze l’Italia ha potuto raggiungere obiettivi che non avrebbe mai potuto ottenere da sola: dovrebbe essere ricordato perfino lo stesso completamento della nostra unità nazionale. Sul versante dei costi, questo ancoraggio ad alleati più forti ha comportato l’assunzione di impegni spesso sproporzionati e gravosi rispetto alle risorse politiche, economiche e militari del Paese. Come dicevo, però, non vi sono alternative credibili e l’Italia ha visto nella partecipazione alle missioni comuni il prezzo dell’adesione ad alleanze vantaggiose.
Naturalmente, oggi, sullo sfondo di queste costanti il mondo sta cambiando vorticosamente e il nostro Paese, quindi, risente di altri processi politici: l’ulteriore indebolimento dell’opzione multilaterale e la crisi di coesione, forse ancora più grave, che continua a pesare su quello che è stato l’architrave dell’opzione multilaterale dell’Italia, che è l’Unione europea. In questo contesto, una riflessione sulle missioni internazionali è dovuta da tempo. È evidente che noi dobbiamo ragionare, anche perché le ragioni che avevano spinto diversi attori italiani a sostenere la partecipazione alle missioni (a cominciare dalla possibilità a livello politico-diplomatico di acquisire un più forte ruolo in ambito europeo, a livello geostrategico di assicurare la presenza dell’Italia nella cerchia degli attori che contano, a livello militare di ottenere un maggior supporto alle forze politiche da parte dell’opinione pubblica e a livello economico di garantire le rotte commerciali internazionali e il flusso di materie prime e di risorse energetiche) sono valide ancora oggi, ma dovrebbero essere, in qualche caso, sottolineate e ripensate. In merito vorrei fare riferimento alla tragica vicenda dei nostri marò in India, rispetto alla quale la domanda dovrebbe essere posta apertamente: che cosa ci facevano due marò italiani in India? La risposta è semplice: scortavano una petroliera e lo facevano perché la sicurezza delle rotte dell’approvvigionamento energetico non è garantita più dagli americani, per intenderci, e noi siamo chiamati a fare la nostra parte. Ogni volta che andiamo a casa e accendiamo la luce dovremmo ricordarcene.
Va anche detto, però, che tutte le risorse ingenti che abbiamo investito per partecipare allo sforzo internazionale per stabilizzare le aree di crisi, il sacrificio di migliaia di uomini che vi hanno partecipato, con la perdita di decine di militari, hanno prodotto però dei risultati importanti, hanno creato condizioni di sicurezza in alcuni luoghi del mondo che oggi possono, seppure a fatica, puntare a sviluppare le loro economie (mi riferisco ai Balcani), in altri casi hanno impedito che il livello di insicurezza aumentasse ulteriormente, e stanno costruendo le condizioni per trasferire la responsabilità della sicurezza alle forze locali.
Le missioni hanno anche contribuito ad impedire che proseguisse una marginalizzazione del nostro Paese e che l’immagine dell’Italia peggiorasse in questi anni, anche a causa della crisi politica che la investe da un ventennio. Le missioni hanno permesso anche di migliorare lo strumento militare e la sua parte operativa. Ci sono quindi molti risultati positivi, ma la riflessione è dovuta perché nessuna politica estera può continuare a fondarsi sull’uso improprio delle missioni internazionali come unico strumento per difendere il rango dell’Italia nel mondo e le missioni internazionali non possono diventare il surrogato di quello che non c’è ma dovrebbe esserci, cioè una visione chiara e selettiva delle nostre priorità nel mondo e dei vari strumenti per difenderla, questione che è all’ordine del giorno, tant’è che una recentissima pubblicazione dell’Istituto affari internazionali (IAI) si intitola «Scegliere per contare». Per contare oggi non basta partecipare, dobbiamo scegliere quali sono i nostri interessi principali, anche perché l’Occidente nel suo insieme, ad ormai oltre dieci anni dall’11 Settembre, vive una fase di parziale ripiegamento perché esistono, anche negli Stati Uniti, vincoli economici più rilevanti di prima e perché i risultati dell’interventismo democratico sono stati finora deludenti.
Il problema, però, è che tutto ciò non venga scambiato, in Italia, con l’illusione di potersi finalmente disinteressare della sicurezza internazionale. Più di altri Paesi, l’Italia resta vulnerabile ed esposta sul piano geopolitico; più di altri Paesi, l’Italia non può permettersi una linea alla svizzera. Non solo, ma diciamoci la verità: la riduzione della presenza americana in Europa e nel mondo ci obbligherà a fare di più per la stabilità ai nostri confini. L’Italia non può permettersi un ripiegamento domestico, deve trovare un nuovo equilibrio tra vincoli interni e sicurezza esterna. L’Italia, come del resto nessuno degli altri Paesi europei, potrà basarsi soltanto su scelte nazionali.
Anche per questa ragione, perché la sicurezza intorno a noi sarà europea o non sarà, l’Italia deve restare un partner credibile – anche a questo servono le missioni internazionali – che può ridurre i vecchi oneri ma che non può sottrarsi agli impegni che si profilano, economici ed anche militari. Che l’Italia possa chiudersi in casa è quanto di più lontano vi sia dalla realtà del XXI secolo.
Andrebbe richiamato anche l’articolo 11 della nostra Costituzione, che viene citato – chissà perché – soltanto nel suo primo comma, perché il secondo consente, com’è noto, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Fin dall’origine della Repubblica, lo sforzo per costruire la pace è uno sforzo attivo, che obbliga il nostro Paese a concorrere nelle sedi internazionali a mantenere la pace come uno sforzo permanente.
Per fare questo naturalmente bisogna volere la pace e non basta limitarsi a voler essere lasciati in pace; sono due cose diverse e quest’ultima il nostro Paese non se la può permettere. (Applausi dal Gruppo PD e della senatrice Lanzillotta).